Alcune note sul
Monastero della Pietà

di Franco Aquilino


 


La fondazione del Monastero della Pietà fu voluta dalla nobildonna Porzia Carbonara, vedova di Scipione Adisi, assassinato in circostanze che hanno dell'incredibile. Ma ascoltiamo come si svolsero i fatti: ce li racconta nel suo colorito linguaggio un cronista  tropeano dell'Ottocento, il canonico Raffaele Paladini.
Si era in periodo di Quaresima (tempo di penitenza e digiuno per la Chiesa!), quando il giovane impulsivo Geronimo Adisi "altercando con un Dottor Fisico suo amico sulla bontà di una predica quaresimale, giunse infine ad ucciderlo con la pistola. Quindi nel cercar rifugio, fu preso vicino al Castello e posto in carcere. Viene intanto fatto credere al Governatore che l'Adisi avrebbe voluto uccidere anche lui, quegli sale al Castello per istringere vie più il carcerato tra i ferri; l'urta nel petto mentre non vuole essere stretto, e ricevuto uno schiaffo dal renitente, l'uccide di spada. Ciò fatto ed andato in Napoli, ottenne che al morto disotterrato fosse tagliata la mano nella piazza, ma questo non avvenne per mezzo di 600 ducati".
Ad istanza della sventurata madre del giovane, con Breve di urbano VIII del 16 novembre 1639 si consentì l'erezione di un monastero di clarisse, sotto il titolo della Madonna della Pietà e dei Sette Dolori. La fondatrice ottenne che vi entrasssero solo delle giovani nobili, dodici delle quali dotate da lei perchè povere. Queste diventeranno man mano sei, dopo la sua morte, in base al patronato sul monastero trasferito dalla fondatrice ai suoi legittimi eredi. La costruzione del monastero iniziò soltanto nel 1645, ritardata da ostacoli di ogni genere (terremoto, mancanza dei materiali, scarsità di muratori e difficoltà incontrate nel reperire il denaro dovuto dall'Università di Tropea sulle gabelle della seta e del cotone e devoluto all'erigenda fabbrica) e fu poi lentamente portata a termine.
Il ritardo si può spiegare in parte con la cautela della Chiesa, pienamente giustificata in questo caso per il fatto che vi erano già due monasteri di clarisse nella città, quello di santa Chiara e quella di santa Domenica. La città poi non era più tanto ricca come in passato, a causa della politica attuata nel Viceregno dalla Spagna, una politica "di drenaggio eccezionale delle risorse finanziarie e umane", come sottolinea il Di Bella nell'introduzione all'opera di Paladini, riedita a sua cura con nuovi documenti. La popolazione della città era diminuita, secondo i calcoli del Placanica, del 43 per cento, proprio in quel periodo. Tuttavia, dopo un'ulteriore supplica della fondatrice, ormai vecchia e malata, le monache poterono entrare nell'edificio ormai pronto il 28 ottobre 1658 (vent'anni dopo l'atto di donazione!).
Porzia Carbonara ottenne di ritirarsi nel monastero da lei voluto, assistita da una domestica, ma morì otto giorni dopo esservi entrata. E dopo qualche tempo cominciarono difficoltà a non finire.
Lesionato dai terremoti del 1783, divenne, solo in teoria però, collegio delle fanciulle dei gentiluomini nel 1802  e le suore confluirono nel monastero di Santa Chiara, soppresso in seguito dal nuovo stato italiano. Così i beni residui tornarono agli eredi della fondatrice, in base al patto di reversibilità a loro favore voluto a suo tempo da Porzia Carbonara.
Nel 1806, durante l'occupazione francese, l'ex monastero divenne ospedale militare, quindi nel 1841 carcere borbonico.
La Chiesa della Pietà, riparati i guasti del terremoto del 1783, fu assegnata al parroco di S. Giacomo maggiore per decreto di Mons. Gerardo Mele del 30 settembre 1798.
Venendo a tempi più recenti, intorno agli anni Sessanta fu officiata da un pio don Giuseppe Scattaretica (un discendente della badessa Vittoria?), quindi divenne negli anni Settanta attivo circolo sociale, sotto la guida del sacerdote don Saverio Cortese.
Vi si ammirava, citiamo le parole di un appassionato cultore di storia locale, "un altare maggiore, fine lavoro in marmo, intarsiato con arabeschi di fiori e di animali, eseguito con cura dei marchesi di Francia, di cui è lo stemma posto sul paliotto".
Oggi la chiesa è in attesa di un restauro, che sembra prossimo, a cura dell'associazione culturale Chivanis.
L'edificio del monastero (noto un tempo nella toponomastica popolare come "carcere vecchio") subì in seguito altre trasformazioni: fu un asilo infantile gestito dalle suore di Carità e in parte abitazione di privati, quindi sede dell'ONMI e infine di partiti politici. Negli anni Ottanta lo stabile, in totale degrado, divenne infine rifugio notturno di sbandati. Alenato dalla curia vescovile, fu sottoposto finalmente ad un accurato restauro (progetto dell'arch. Luigi Giffone, direzione dei lavori dell'Ing. Edoardo Toraldo, esecuzione delle maestranze di Antonio Caracciolo), che ha consentito il recupero delle strutture settecentesche originarie, molte delle quali costituite da blocchi in pietra arenaria. Oggi l'antico monastero è un silenzioso condominio, di vedetta sul mare di Tropea, di fronte al santuario dell'isola. Talvolta è visitato, discretamente, dal vento.