ONOFRIO COLACE
E'
TROPEANO!!!
 

di G. B. Petracca Scaglione



 

E' un articolo apparso sul "Gazzettino di Tropea" del 15 settembre 1908,
a firma dello stesso Direttore,
Giovambattista Petracca Scaglione di Ricadi.
L'intento è dimostrare l'origine tropeana del Colace.


Non da nobile - come scrive Roberto Mirabelli, che gli attribuisce il titolo di marchese di Guisaco - ma da signorile famiglia, forse oriunda dalla vicina Parghelia, nasceva Onofrio Colace (o De Colaci che dirsi voglia, non mai Collaci) in Tropea il venticinque settembre 1738.
Volendo a ogni costo i Paraliesi rivendicare alla loro borgata questo martire della Repubblica Partenopea, un bel glorioso stuolo di quella primavera sacra della libertà italiana che preparò ed avviò l'Indipendenza nostra, giudichiamo necessario riprodurre dai registri parrocchiali di S. Nicola della Piazza il suo atto di nascita - da noi primieramente rintracciato contro ogni aspettativa degli stessi concittadini del Colace - e così tagliar corto a qualsiasi discussione in proposito.

<< Anno Dni 1738 dic vero vigesima quinta 25 7bris Ego infrascriptus aecomus S. Nicolai de Platea
cù annexis baptizavi infantem natù eodè die ex Magnifi.co Marcello Colace et ex Magnif.ca Marianna de Jannuario Coniugibus,
cui in sacro fonte impositum est nomen Onut frius, Leonardus, Vincentius,
Patrini fuerun Magnificus Antonius Cutuli et Magnif.ca Olimpia Mastrilli,
cù mandato Procur.nis Magnif.cae Ceciliae Gennaro.
D. Antonius Calcapietra oecomus qui supra manu propria >>.

Vero è bene che i Paraliesi esibiscono un atto di nascita (pubblicato in un periodico calabrese il 1899, in risposta all'articolo del citato Mirabelli sul<< Piccone >> di Monteleone Calabro) del venticinque aprile 1746, di un Onofrio De Colaci di Giuseppe e di Orsola Ierocadi (sic), credendo con ciò aver distrutto ogni argomento in contrario. Han però fatto i conti senza l'oste, o meglio senza l'ostessa, essendo la critica storica quella che batte in breccia la loro argomentazione.
Anzitutto l'atto di nascita poco più su riportato annulla apoditticamente ogni loro ragione. Ancora. L'esservi anche in Parghelia il casato Colace o De Colaci e diffuso tuttavia come allora, il nome Onofrio, toglie qualsiasi importanza al rinvenimento nei registri di quella parrocchia dell'atto di nascita di un Onofrio De Colaci, mentre a provare l'esistenza di una famiglia Colace in Tropea stanno l'avervi posseduto quella un palazzo proprio e i numerosi atti di nascite ecc. registrati nei libri parrocchiali di S. Nicola della Piazza. Come di suo concittadino, infine, Francesco Ruffa loda le poesie di Onofrio Colace ed a un Sig. Francesco Antonio Colace, di Tropea, dedica con affettuosa e rispettosa lettera il volume delle poesie giovanili, edito in Napoli il 1810.
Onofrio Colace, lasciato ancor giovine la città natale, si portò in Napoli ove, conseguita la laurea in giurisprudenza, vi acquistò presto fama di valoroso avvocato. Non tralasciò intanto di coltivare con amore le lettere dando alla luce parecchie lodate poesie che gli meritarono di venire ascritto a molte accademie fra cui quella fiorente degli Arcadi Aletini.
Nel 1783 iniziò la sua carriera di magistrato quale uditore presso il Tribunale di Cosenza donde col grado di Caporuota passò sei anni dopo al Tribunale di Bari. Fu in seguito, in qualità di Avvocato Fiscale a Matera nel 1791 e finalmente, perdurando nella medesima carica, a Napoli nel 1798.
Avvenuta, in seguito alla discesa in Italia delle truppe Francesi, la fuga dei Borboni in Sicilia e successivamente la proclamazione della Repubblica Partenopea, il Colace, pei suoi sentimenti liberali, altre all'esser mantenuto nella carica di Avvocato Fiscale, fu chiamato ancora a sedere fra i membri della Giunta Militare in appellabile.
Ma la Repubblica Partenopea tramontava dopo pochi mesi d'esistenza per dar luogo ad una delle più feroci reazioni che ricordi giammai la storia e che abbia bollato d'eterna infamia una dinastia.
I forti figli di Calabria, sempre i primi ai nobili ardimenti e pronti con eroica abnegazione ai sacrifici più magnanimi, riempivano delle loro eroiche geste gli estremi giorni del governo repubblicano, immortalandosi al forte di Vigliena, mentre altri di loro, in numero di sedici erano riserbati a testimoniare in faccia ai tiranni ed al carnefice che il carattere calabrese non si mentisce giammai, nemmeno davanti alle torture e alla morte e che che la sacra fiamma della libertà arde viva e possente fra le balze e le forre del calabro Appennino e lungo i due mari che ne bagnano le pendici, dandole perenne alimento il fiero aquilone che squassa le fitte boscaglie della montagna e il soffio vivificatore che spira lungo le marine del Ionio e del Tirreno.
Il ventidue ottobre del 1799, verso mezzogiorno, sulla storica piazza del Mercato, Onofrio Colace, terzo fra quella schiera di martiri che la Calabria dava in olocausto alla libertà, saliva imperturbato il palco fatale, precedendo di poco più che tre mesi il dotto ufficiale di marina, Andrea Mazzitelli di Parghelia. La chiesa del Carmine accolse pietosa le sue spoglie.
Tre anni avanti - l'otto aprile del 1796 - aveva cessato di vivere a Tropea la vedova madre, Sig.ra Marianna De Gennaro, e fu sepolta in Cattedrale
<< nella sepoltura gentilizia >>. Così la morte toglieva alla povera donna di sopravvivere al crudele destino del figlio, che non avrebbe neanco potuto piangere ed onorare liberamente per dar sfogo al proprio dolore.
Dei molti che trattarono dei fasti della Repubblica Partenopea o dei suoi illustri martiri ricordano il Colace: Alessandro Dumas nei << Borboni
di Napoli >> (vol. 4 pag. 145); Vittorio Visalli nei << Calabresi nel risorgimento italiano >> (vol. I pag. 44); Atto Vannucci nei << Martiri della libertà italiana >>; G. B. Caruso di Cosenza nei << Martiri calabresi della Repubblica Partenopea >>; Mariano d'Ajala nei cenni biografici dei martiri del 1799; Francesco Lomonaco nella sua relazione al Carnot, e - per tacer d'altri - in occasione del primo centenario della Repubblica Partenopea, Roberto Mirabelli in un lungo articolo << I calabresi nel 1799 >> sul << Piccone >> di Monteleone Calabro (An. VI n. 16).
Questi Onofrio Colace come cittadino e magistrato: esaminiamo ora brevemente la sua opera come letterario e poeta.
Suoi primi lavori di cui si abbia notizia sono alcune composizioni poetiche, di genere antico: << La Nice e la Aretusa >> e << La Partenope
soddisfatta >>; scritte in occasione delle nozze di Ferdinando IV con Maria Carolina d'Austria e dedicate all'Arciduca Pietro Leopoldo di Toscana (Napoli 1768). Dieci anni dopo, cioè il 1778, diede alle stampe un opuscoletto, nel quale in << venticinque eleganti ed armoniose ottave, non ostante l'aridità dell'argomento, a cui egli con il suo genio dà colorito e movimento >> (Falcone op. cit.) tratta della << felice inoculazione del vaiolo a Ferdinando IV >>.
Ascritto nel 1773 fra gli arcadi della Colonia Aletina prese il nome accademico di Tirsi Filpindo, che cantò in seguito in quello di Enocco Filadori. Fra gli atti di quella accademia trovansi parecchie sue poesie, quasi tutte di genere sacro. Esse sono due sonetti nel volume degli atti del 1733; una specie di capitolo in ventinove terzine, in quello del 1776 e una pregevole canzone sullo stesso argomento del precedente capitolo, in quello del 1777. Finalmente un sonetto e dei leggiadri versi alla Madonna, van compresi negli atti del 1779. Un suo sonetto rinviensi ancora nella raccolta funebre di un Nicolò Frangianni.
Ma i due lavori principali del Colace e pel contenuto e per l'estensione, sono:

- << Dialoghi intorno ai tremuoti del 1783 >>, Napoli, 1783.
- << Il Tobia >>, poema, Napoli 1785.

Il primo dedicato alla memoria dell'amico Massimiliano Morena, contiene cinque graziosi e spigliati dialoghi, scritti in una prosa corretta e piena di brio. Pone in essi a raffronto il disastroso tremuoto del 1783 con alcuni altri memorandi degli anni precedenti e ricerca e esamina le cause di tali orribili fenomeni tellurici. Non avendo potuto esaminare a nostro bell'agio questo brioso lavoro, riproduciamo dall'opera del Falcone una spiritosa canzonetta intercalata nel primo dei dialoghi, e nella quale l'autore giudica favorevolmente il temerario ardire di Plinio il vecchio:
 
 

Fu temerario inver
Chi prima il mar solcò;
E incogniti cercò
Lidi famosi;
Ma senza quel nocchier
Sì temerario allor,
Quanti tesori ancor
Sarian nascosi.

Il secomdo è un poemetto in ottava rima diviso in tre canti, stampato in un piccolo volume in 12 di pag. XCV. E' dedicato allo Arcangelo Raffaele non << ad Arcangelo Raffaele >> come sta detto nel Falcone - col seguente leggiadro e soave sonetto:
 
 

Che ti potrei portar? Poveri incensi
Sull'ara tua devoto, e scelti fiori,
Spirto gentil, che da' superni cori
Di me cura ti prendi, ed a me pensi?

Per essere grato a' tuoi favori immensi
Ben ti darei, se avessi argenti ed ori,
Nè tu gli vuoi; perciò versi canori

T'offro, e pure son tue le rime, e i sensi.
D'essi, comunque sia, ti ho fatto un serto;
Tu lo ricevi, benchè fosse tanto
Inferior di pregio al tuo gran merto.

Vedi però che insiem col rozzo canto,
Ti vieni 'l cor, ciò che tu brami, offerto,

Serbalo tu per Dio sotto il tuo manto.

Il libro di Tobia ha formato mai sempre una delle letture più accette e gradite agli animi miti e retti come a quelli angustiati o disingannati delle amare vicende della vita, per quel dolce e soave senso di tranquillità e di santa rassegnazione che aleggia nelle sue pagine e per le belle e sagge massime onde qua e là s'infiora. Che, se una critica troppo sagace o schizzinosa mette in dubbio la veracità di tutto o di parte del contenuto, rimane non pertanto uno dei più belli e poetici libri scritturali, e uno dei più grandi ed efficaci libri dell'umanità pietosa o sofferente.
Fu ed è perciò tenuto in massima considerazione così dagli ebrei come in generale da tutti i popoli che furono a contatto degli Ebrei, così dai primi cristiani come da tutte le chiese protestanti.
Parecchi in Italia - per dir solo dei nostri - invogliati dalle bellezze e dei pregi di quello aureo libro si accinsero a voltarlo in poesia chi facendone oggetto di traduzione più o meno fedele al testo, che di popolare espressione per renderne più diffuso ed efficace il contenuto e chi infine traendone larga ispirazione per un suo poemetto. Fra questi cotali reputiamo i migliori il nostro Colace e il Martinengo, un buon prete della Missione, il quale sotto il modesto titolo della << Storia di Tobia narrata alle famiglie cristiane >> (Torino, Tip. Salesiana, 1882) è riuscito a dare un lavoro tutto leggiadria e bontà, dal verso piano, facile ed armonioso. Nulla diciamo della parafrasi del Bernabò Silorata che ci sembra dura, pedestre spesso e prosaica anzichenò.
Nel << Tobia >> del Colace, ove si tolgano quelle mende proprie del secolo in cui scrisse e qualche espressione un po' inpropria o esagerata, come << gli angioli bigi >> per dire i demoni; << il nostro polo >> per la persona su cui si concentrano gli affetti di uno gli occhi della madre di Tobia
<< grondante di copiose brine >>; i << Baroni >> pei cortigiani del re d'Assiria, si ha un poemetto grazioso e non privo affatto di pregi. Passando ad altro ordine d'idee, giudichiamo non senza importanza rilevare il contenuto degli ultimi due versi di una ottava del primo canto:

<< Che i tesori de' Tempii non serbati
Ne' gran bisogni a sollevar gli stati >>.

C'è in essi un accenno a quel largo movimento d'idee economico-politiche che già s'era manifestato nelle opere immortali di quei valorosi intelletti delle nostre provincie, quali il Genovesi, il Pagano, il Filangeri ecc. che meritano il nome di << Enciclopedisti napoletani >> - E forse scrivendo quei versi, il Colace pensava alle sagge disposizioni governative per alleviare i danni dell'orrendo cataclisma calabrese del 1783.
A completare la rassegna delle pubblicazioni del Colace ricordiamo per ultimo un volumetto di poesie sacre dal titolo << Lodi e preci a Maria Nostra Signora, a devozione della suora Maria Celeste De Angelis dei Marchesi di S. Agapito, religiosa professa dell'ordine Domenicano, nel monastero di S. Giov. Battista di Napoli >>. Lo ricordiamo per ultimo, essendo privo della data e del nome del tipografo. Contiene diversi inni sacri, una canzone diretta agli Arcadi Aletini, un'elegia ed una corona di sonetti in lode della Vergine.
Postumi furono pubblicati dal citato D'Ayala alquanti versi, dei quali il Falcone riporta i seguenti di sapore heiniamo:

Io men vo dal prato al monte
Per sfuggir l'avverso Fato,
E mel trovo al monte, al prato
Sempre allato, sempre a fronte,
E per fare ognor nuove onte
Sempre a fronte, sempre allato
Mi verrà, finchè varcato
Avrò l'onda di Acheronte.

Non ha guari la gentile Firenze decorava parecchie delle sue nuove vie del nome di illustri Calabresi: Tropea, la patria del Colace, non << una delle principali strade >> come per essere malamente informato scrive il Falcone; non << un larghetto >> come vuole lo Scrugli, sibbene uno dei suoi più luridi vicoli medievali, che, partendo da un chiassuolo sbocca nella piazza Galluppi, dedica al suo illustre figlio, al glorioso martire del 1799 e -cosa assai strana- la targhetta di marmo del vicolo reca sformato il venerato cognome: invece di Collace vi sta scritto Collaci [ndr: si vede che dopo la pubblicazione di quest'articolo il nome Collaci è stato corretto in Collace, così come si legge ancora oggi, nel 2001] in barba alla storia e alla tradizione!
Essendo il << Tobia >> divenuto rarissime, giudichiamo cosa grata ai lettori riportarno qualche squarcio.
 
 

Protasi e invocazione

Chi primo d'Elicona in sulle cime
Seminò la mensogna e lusinghiero
Sparse di tante favole le rima
Come non fosse bello e grande il vero?
Oh se avessi pur io stile sublime
Come fuggo ogni fregio menzognero,
Or che l'accesa mente si prepara
Cantar le nozze di Tobia con Sara!
Eterna verita, domani un raggio
di quella luce tua, che oscura il sole;
Tu mi rischiara , e tu divoto e saggio
Mi rendi e spira i sensi e le parole:
Tu confondi lo Spirito malvagio
Padre della menzogna,il qual non vuole,
Che per me s'oda la tua voce, e come
Di spavento lo ingombri il tuo gran Nome.
Il sacro laccio fu tessuto in Cielo,
Donde disceso con mirabil modo
Rafaele, e vestito il nostro velo,
In Ecbatana strinse il dolce nodo.
Ma premetter conviene il santo zelo
Del padre di Tobia. ch'io canto e lodo,
Chiamato pur Tobia, che a Dio fedele,
Fu quanto Abramo, Isacco ed Israele.
 

Incontro di Tobia con l'angelo
(II, 34-40)

Il giovanetto uscì per la contrada,
E in un grazioso giovane s'avviene,
Sucinto nel vestir, che sulle mosse
Di porsi in viaggio allor parea che fosse.

Biondo era il crine, e del candor del giglio
Misto alla rosa tinti e sparso il viso,
E negli occhi loquaci, e nel vermiglio
Labbro ugualmente scintillava il riso;
E sulla fronte; e nel modesto ciglio.
Sedea la maestà del paradiso,
Così leggiadro il moto, e così dolce
La voce, che ogni cor lenisce e molce.

Rafaele è costui, che al varco attende
Il giovane Tobia, che ivi perviene,
E in quelle vaghe forme il guardo intende,
E pien di meraviglia il piè trattiene:
Cortese lo saluta, e que' gli rende
L'avvenente saluto, ed ogni bene
Gli annuncia in modo, che da un dolce incanto
Tobia rapitose gli asside accanto.

E preso cuor gli dice, troppa ardita
Se non ti sembra, giovane cortese,
La mia dimanda, e in grado ti è, m'addita
Di qual gente sei tu, di qual paese?
L'Angiol rispose, io sono Israelita,
Son vostro confratello: E que' riprese,
Fosti mai nella Media, e per destino

In Rages, che ad Ecbatana è vicino?
Replicò Rafaele: Ho camminato
Quel regno tutto, e scorso più d'un giorno
In Rages, e in casa ho dimorato
Del pio Gabelo, e fò colà ritorno:
Dice Tobia, che incontro fortunato!
Per quanto sei di belle doti adorno
M'ammetti del tuo viaggio in compagnia,
Che in Rages debbo andar, nè so la via.

E Rafaele a lui. sarò tuo Duce,
E compagno fedel, più che non pensi,
E sfavillò d'un'imprivvisa luce
Come lampo, che fugge a' nostri sensi;
O non s'avvede, o altro suppone che luce
L'altro, e dice, a' favor, che mi dispensi,
Non sarò ingrato; intanto soffri, ch'io

Di tutto ciò ne avvisi il padre mio.