RENATO DULBECCO,

Premio Nobel per la Medicina 1975

di Hypothesis®

(Ricerche iconografiche a cura di TropeaMagazine)
 


Renato Dulbecco, di origini tropeane per parte della madre Emma Virdia, nasce a Catanzaro nel 1914. A soli sedici anni si iscrive alla facoltà di Medicina dell'Università di Torino, dove incontra due studenti, Salvador Luria e Rita Levi Montalcini "che avranno poi una grande influenza sulla sua vita". Si laurea nel 1936, appena prima di partire per il servizio militare come ufficiale medico fino al 1938. Un anno dopo é richiamato e inviato prima sul fronte francese e quindi in Russia dove rischia di morire nel 1942 e rimane per mesi in ospedale. Rimandato in Italia, quando il paese passa sotto il controllo dell'esercito tedesco raggiunge le unità partigiane della Resistenza, sempre come medico. Successivamente avvia l'attività di ricerca e contemporaneamente si iscrive alla facoltà di Fisica, che frequenta dal 1945 al 1947, anno in cui lascia l'Italia per gli Stati Uniti.
Viene chiamato a svolgere attività di ricerca alla University of Indiana a Bloomington, e successivamente si trasferisce al California Institute of Technology. Nel 1955 riesce ad isolare il primo mutante del virus della poliomielite, che servirà a Sabin per la preparazione del vaccino.
Nel 1958 comincia ad interessarsi alla ricerca oncologica, studiando virus animali che provocano forme di alterazione nelle cellule. La scoperta più importante è la dimostrazione che il DNA del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, per cui la cellula subisce un'alterazione permanente. Dal 1972 si trasferisce a Londra, all'Imperial Cancer Research Fund, dove ha la possibilità di lavorare nel campo dell'oncologia umana, e successivamente al Salk Institute di La Jolla (California).
Nel 1964 vince il premio Lasker per la ricerca medica e nel 1975 il Nobel per la Medicina, insieme a David Baltimore e Howard Temin, per ricerche sull'interazione tra i virus tumorali e il materiale genetico della cellula.
Nel 1986 lancia il Progetto Genoma Umano, con l'obiettivo di decifrare il patrimonio genetico dell'uomo. Nel 1993 rientra in Italia e da allora lavora presso l'Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano, oltre a guidare la Commissione Oncologica Nazionale e a ricoprire l'incarico di presidente emerito del Salk Institute.
È membro di diversi organismi scientifici internazionali, tra cui l'Accademia dei Lincei, la National Academy of Sciences statunitense, la Royal Society britannica e l'IPPNW (International Physicians for the Prevention of Nuclear War).
 

Renato Dulbecco nasce a Catanzaro il 22 febbraio del 1914: "Mio padre era ligure, ingegnere e lavorava al Genio Civile; mia madre, figlia di professionisti, era di Tropea, una rocca appollaiata sopra una spiaggia immensa, luccicante sotto il sole". Un anno prima della sua nascita, i genitori avevano perso un altro figlio, il piccolo Giacomo, morto "di una malattia oscura e terribile". "Per questo mi chiamarono Renato, cioè il rinato. [...] E poiché ho cominciato la mia vita non come un principio, ma come una continuazione, i miei genitori mi hanno sempre considerato come se fossi più grande, più maturo, affidandomi più responsabilità. Forse anche per questo mi hanno idealizzato e incoraggiato. [...] Come conseguenza mi sono sempre sentito in gamba e ho guardato con sicurezza all’avvenire, anche se la mia famiglia era di mezzi modesti". È la madre a insegnare al piccolo Renato a leggere, e più avanti a fargli studiare pianoforte mentre il padre ingegnere gli insegna "a far di conto" e quando è più grandicello lo porta con sé a visitare i cantieri e gli mostra i suoi progetti di case, ponti e strade: "Direi che i miei genitori versavano nel mio cervello di bambino un mucchio di cose nuove, un concime ricco che forse favoriva il proliferare di quelle cellule nervose che, a giudicare dalla dimensioni della testa, possedevo in grande quantità".


Comune di Tropea. Il Prof. Dulbecco con zia Amalia Virdia
ed il Sindaco Giuseppe Maria Romano, in occasione
della concessione della Cittadinanza Onoraria.

Alla fine della prima guerra mondiale la famiglia Dulbecco si trasferisce in Liguria, nella casa paterna di Porto Maurizio. Ed è qui che il futuro scienziato vive per la prima volta il terrore della morte: prima è la sorellina Emma ad essere colpita da una grave polmonite che fortunatamente si risolve senza drammi, poi un male inguaribile colpisce Peppino, "un ragazzino di sette anni come me, che abitava vicino a noi. [...] Mi accorgevo della debolezza della medicina, della sua difficoltà nel combattere malattie serie come la polmonite e della sua impotenza di fronte a cose più serie, come i tumori.
Quelle esperienze certo ebbero un ruolo importante nella successiva scelta della carriera".
Quando comincia la scuola, a sei anni, Dulbecco sa già leggere e scrivere, e il direttore decide di iscriverlo direttamente in terza. Agli esami finali risulta il migliore della scuola e si iscrive al ginnasio, e poi al liceo. Al tempo stesso, come tutti i suoi compagni, diventa avanguardista e indossa la camicia nera, anche se in famiglia – il padre è "un liberale con tendenze socialiste" – il fascismo è appena tollerato. Le passioni del giovane Dulbecco comunque sono altre: l’Enciclopedia dei Ragazzi che gli insegna a riconoscere le costellazioni e il sismografo gestito dall’amico farmacista, il signor Carlo, di cui diventa subito assistente-collaboratore: è grazie ai suoi consigli che costruisce, tra l’entusiasmo dei familiari, una radio a galena e poi un sismografo elettronico. "Il successo del sismografo mi incoraggiò ad essere aperto alle idee nuove, alle nuove tecnologie, e a mantenere un atteggiamento progressista. [...] Tutti mi incoraggiavano a studiare elettronica all’università, dove mi sarei dovuto iscrivere l’anno dopo. Io stavo a sentire, ma non facevo progetti definitivi".

La scelta della medicina

"Finito il liceo, nel 1930, dovetti prendere due importanti decisioni: a che facoltà iscrivermi e in quale Università". Alla fine Dulbecco opta per Torino, e per la Facoltà di medicina: "La medicina [...] mi attraeva: a parte il connotato romantico dello zio chirurgo, avevo constatato quanto fosse imperfetta e quanto ci fosse ancora da fare. Inoltre era un campo che mi incuriosiva più di altri, proprio perché ne sapevo poco". Il primo impatto è con un severo, prestigioso docente di anatomia, il professor Giuseppe Levi, e con una compagna di studi di eccezione: Rita Levi Montalcini: "Mi attraeva moltissimo, sia per la sua intelligenza brillante, sia perché era molto elegante, di un’eleganza innata, e molto femminile. Ero troppo timido per dirle quello che pensavo di lei. [...] Mi accontentavo di averla come compagna di lavoro". In seguito Dulbecco lascia il laboratorio di Levi per quello di Anatomia patologica di Vanzetti: "Mi pareva che l’anatomia patologica fosse molto utile per formare la cultura e la personalità del medico, mettendo in luce gli errori in cui è facile incappare". La passione per la ricerca lo porta a studiare le applicazioni mediche dell’elettronica, ma il primo articolo pubblicato porta come primo nome quello del cardiologo che ha autorizzato l’esperimento. E non è questa l’unica delusione: "Ero un po’ deluso della mia tesi, che conteneva molte osservazioni, ma null’altro. Mi rendevo conto chiaramente [...] che se si vuol capire ciò che succede bisogna ricorrere alla sperimentazione. E in anatomia patologica di esperimenti non se ne fanno, per definizione". Discussa la tesi, Dulbecco tenta senza riuscirci di specializzarsi in chirurgia, ma nel frattempo deve partire militare: "I due anni di servizio, prima come allievo e poi come ufficiale di fanteria, furono lunghi", anche se in questo periodo trova il tempo per pubblicare due ricerche. "Nel 1938, finito il servizio militare, [...] mi preoccupai di ottenere un lavoro che mi permettesse di sposarmi". La prescelta, conosciuta sulla spiaggia a Porto Maurizio, si chiama Giuseppina. Ma nel frattempo scoppia la guerra: "Così fui nuovamente chiamato alle armi, come ufficiale medico del novantesimo reggimento di fanteria, di stanza a San Remo".
Sono anni intensi: nonostante i suoi impegni con il reggimento, mandato a presidiare la frontiera francese, riesce a ottenere la libera docenza, e nel 1941 assiste alla nascita del figlio Piero: "Fragile, leggero, delicato, tutto occhi neri e peluria sulla testa. [...] Molte cose cambiarono in me con la sua nascita: d’improvviso non guardavo più alla guerra come a un’avventura avvincente, ma con ansia, finalmente ne capivo il pericolo".
Poco dopo il reggimento viene destinato in Russia: dopo mesi di stenti e un lungo ricovero in ospedale Dulbecco torna in patria in tempo per assistere, nel marzo 1943, alla nascita della figlia Maria. Poco dopo si trasferisce con la famiglia nelle Langhe, dividendosi tra l’assistenza ai nuovi compaesani e l’Istituto di Anatomia patologica dell’Ospedale Le Molinette di Torino. "Dopo l‘armistizio dell’8 settembre cominciai ad avere per clienti dei giovani che non erano del paese. Li riconoscevo subito, perché erano un po’ goffi, forse un po’ imbarazzati e diffidenti. Erano partigiani, che accorrevano in quella zona boscosa dove potevano nascondersi facilmente. [...] Naturalmente li curavo gratis". In seguito lo stesso Dulbecco, che ha ormai abbandonato l’esercito, comincia a interessarsi alle organizzazioni antifasciste clandestine: "Una in particolare, il Movimento dei Lavoratori Cristiani, mi sembrò specialmente promettente. Era un gruppetto d’avanguardia con due caratteristiche che credevo indispensabili per il futuro del paese. Era di sinistra e al tempo stesso cristiano. [...] Si era stabilito un Comitato di Liberazione Nazionale per la città di Torino, e Mottura [un collega medico, n.d.r.] e io ne facevamo parte come rappresentanti del Movimento".
La gioia per la fine della guerra è incrinata da una notizia drammatica: la morte del padre di Giuseppina, coinvolto nell’amministrazione fascista e massacrato dai partigiani per rappresaglia. Dopo una breve presenza nel Consiglio Comunale di Torino, Dulbecco lascia la politica per dedicarsi a tempo pieno alla scienza. Collabora con Rita Levi Montalcini e, dietro suo consiglio, si iscrive alla Facoltà di Fisica, per approfondire gli effetti biologici delle radiazioni. Risultato: "due anni di lavoro intenso, molti esami, tutti superati benissimo". Ma poi un nuovo incontro modifica i suoi programmi.
"L’incertezza sul corso futuro degli avvenimenti fu risolta definitivamente da [...] l’arrivo a Torino di Salvador Luria, che [...] era stato studente alla scuola di medicina di Torino un anno prima di me e di Rita. [...] Fu una grande, piacevole sorpresa scoprire che tra noi c’era una comunanza notevole di interessi e di intenti, sebbene lui fosse già un maestro ed io un principiante. Dimostrò di apprezzare le mie idee offrendomi la possibilità di andare a lavorare per un anno o due nel suo laboratorio di Bloomington, nell’Indiana. [...] Andai a casa pieno di entusiasmo per annunciare la novità a Giuseppina. [...] Decidemmo che sarei partito da solo; se la mia permanenza negli Stati Uniti si fosse prolungata lei e i bambini mi avrebbero raggiunto.
[...] Salpai nell’autunno del 1947 per New York da Genova col Sobieski, una nave polacca su cui era anche Rita, che aveva ottenuto una borsa di studio per continuare le sue ricerche di embriologia sperimentale alla Washington University. [...] Durante la traversata ci vedemmo spesso, la sua presenza dava più significato al viaggio".
 
 


Comune di Tropea. Il momento della decretazione
della Cittadinanza Onoraria.

L’arrivo negli Stati Uniti

Arrivato a Bloomington, Dulbecco comincia a lavorare in un laboratorio sistemato in una grande soffitta, con Luria e con James Watson – il futuro scopritore del DNA, "uno studente intelligentissimo ma dai modi un po’ strani". "In quel periodo le ricerche di Salva erano concentrate su di un fenomeno che aveva scoperto coi batteriofagi, virus che crescono nei batteri, chiamati ‘fagi’ in laboratorio: colpiti da radiazione ultravioletta, sopravvivono più facilmente se parecchi di essi entrano insieme nello stesso batterio, perché si aiutano l’un l’altro". In breve tempo, Dulbecco riesce a dimostrare i limiti di questa ipotesi, guadagnandosi la stima del maestro: "Salva non mi fece sapere direttamente quello che pensava di me, ma un giorno [...] disse ‘forse il mio contributo più grande alla biologia è di avervi portato Renato’. Ma io ero dubbioso, sapevo che amava fare dell’ironia, perciò non credetti di essergli piaciuto veramente finché più tardi mi rinnovò il contratto e mi raddoppiò lo stipendio".
Ormai definitivamente stabilito in America, Dulbecco viene raggiunto dalla famiglia, e prosegue le sue ricerche sul comportamento dei fagi, scoprendo che dopo essere stati uccisi per irraggiamento ultravioletto essi vengono "resuscitati" dalla luce visibile, un fenomeno definito "fotoriattivazione". "La mia nuova scoperta ebbe grandi ripercussioni. [...] Un giornale di Hollywood la pubblicò con grande rilievo come la base di un processo cosmetico per guarire la pelle raggrinzita dal sole. [...] Ma l’effetto più importante per me fu che Max Delbrück mi offrì di andare nel suo laboratorio, al famoso California Institute of Technology, noto come Caltech. Quell’invito mi tenne sulle spine, non sapevo cosa fare. [...] Palesai il mio dilemma a Jim Watson, che aveva sempre le idee chiare. Stralunò un po’ gli occhi e senza esitazione mi disse ‘Il Caltech ha la migliore scuola di biologia del mondo, devi accettare’. [...] Così lasciai quel piccolo, amato laboratorio. Partendo non sapevo che gli individui che lo occupavano, Luria, Watson e io stesso, avrebbero tutti e tre ricevuto il Nobel, sebbene in tempi diversi e per ragioni diverse. C’era forse un’epidemia in quella stanza sotto il tetto?".
Dopo un lungo, avventuroso viaggio, una vera "scoperta dell’America", Dulbecco e i suoi arrivano al Caltech, "una grande università popolata da un’autentica costellazione di celebrità. [...] Mentre mi dedicavo ai miei esperimenti osservavo quello straordinario mondo [...] quasi monastico: l’Istituto era la chiesa o il convento, e il laboratorio di ogni ricercatore la sua cella". Il capo sacerdote era Max Delbrück, "per tutti Max. Quello che diceva era legge, era il punto di partenza per nuove esplorazioni, nuovi pensieri, nuovi esperimenti".

Nasce una nuova scienza

È proprio Delbrück a chiedere a Dulbecco di dedicarsi a un nuovo studio sui virus, insieme al suo collega Seymour Benzer: "Accettai; senza esitazione abbandonai i fagi, dirigendomi verso il mio nuovo obiettivo di trasformare lo studio dei virus umani in una scienza. [...] Decisi che per prima cosa dovevo visitare i laboratori dove si studiavano i virus che infettavano cellule animali ed umane e specialmente quelli in cui si utilizzavano colture di tessuti. Così organizzai un lungo viaggio in treno che per alcuni mesi mi portò in quasi tutte le maggiori città degli Stati Uniti. [...] Venni alla conclusione che la maggiore difficoltà in quegli studi era la mancanza di un metodo adeguato di saggio. [...] Così decisi di trasferire ai virus animali la tecnologia molto precisa delle placche usata per saggiare i fagi. [...] In breve tempo feci gli esperimenti necessari per dimostrare che il metodo era adatto per saggiare il virus".
Il cosiddetto "metodo delle placche" – utile per misurare le quantità di virus presenti in un determinato tessuto animale – viene immediatamente applicato agli studi sul virus della poliomielite. Durante gli esperimenti Dulbecco e i suoi collaboratori riescono anche a isolare un mutante del virus: entrambe queste scoperte si sarebbero rivelate fondamentali per la preparazione del relativo vaccino da parte di Albert Sabin. "Raggiunsi una discreta fama, e la mia posizione al Caltech divenne molto forte. [...] Un caldo giorno dell’estate del 1952 incontrai Beadle [il direttore della divisione, n.d.r.] che mi portò nel suo ufficio e mi domandò a bruciapelo: ‘le piacerebbe tenere un corso di microbiologia?’. [...] Avevo alcuni mesi per farmi le ossa, e mi buttai a capofitto nel nuovo compito. [...] Il giorno della prima lezione mi sentivo come se avessi dovuto sostenere un esame. [...] Spiegai a grandi linee il progetto del mio corso e mi lanciai immediatamente in un soggetto di grande attualità, il ruolo biologico del DNA, che era piuttosto contrastato, perché i fatti non erano ben chiari. [...] Quel corso tolse ogni dubbio, e venni promosso professore associato, una posizione permanente presso il Caltech.
Quello era il vero principio della mia carriera, molti anni dopo la laurea, dopo molte sorprese e molte avventure".

Alla caccia dei geni del cancro

"Dopo un anno di lavoro sul virus della poliomielite allargai il mio orizzonte, accettando nel laboratorio un virologo veterinario, Harry Rubin, che si occupava dei virus che provocano i tumori nei polli. Harry portò nel laboratorio un nuovo concetto, quello dei virus che attaccano le cellule senza ucciderle, anzi facendole proliferare e diventare cancerose. Lavorava con noi un giovane ma bravissimo studente, Howard Temin [...]. Harry pensava che studiando quei virus si poteva forse capire come ha origine un cancro, anche senza l’intervento di un virus. Io condividevo la sua idea: ero convinto che il cancro fosse dovuto a un’alterazione dei geni, e che perciò si dovesse studiare per mezzo dei virus, che hanno pochissimi geni, piuttosto che con cellule cancerose, come si faceva allora, che di geni ne hanno moltissimi".
Nonostante lo scetticismo di Delbrück il nuovo filone di ricerca comincia a svilupparsi, mentre Dulbecco deve affrontare una grave crisi personale: la fine del suo matrimonio con Giuseppina. "Prima la guerra ci aveva rubato il prezioso periodo dopo il matrimonio, quando avremmo potuto aprirci l’una all’altro e conoscerci davvero; poi per molti anni eravamo stati separati o uniti solo in modo temporaneo o precario. [...] Poi il mio lavoro mi aveva incatenato sempre di più, la mia vita era stata il laboratorio e lei non ne faceva parte. Il divorzio fu la conclusione inevitabile. Ne iniziammo le pratiche nella primavera del 1962, dopo ventidue anni di matrimonio. Per fortuna i nostri figli erano grandi, avevano una vita indipendente e non furono colpiti troppo da quel fallimento".
Nello stesso periodo comincia a frequentare una giovane ricercatrice arrivata negli Stati Uniti dalla Scozia all’età di 17 anni, Maureen Muir: "Quando il mio matrimonio stava naufragando le chiesi aiuto. Maureen capì la situazione perché mi conosceva bene e potemmo parlare tranquillamente. Con calma mi disse che avrebbe lasciato gli studi e sarebbe ritornata a lavorare al Caltech con me. [...] Però mise delle condizioni. Niente vite separate, avremmo lavorato insieme, viaggiato insieme, studiato insieme, se necessario. [...] Fui veramente colpito dalla perspicacia di quella giovane donna, che aveva individuato esattamente le cause del fallimento dei mio matrimonio e voleva evitare lo stesso errore".
Proseguendo il lavoro coi virus dei tumori, intanto, Dulbecco si convince sempre di più che la sua teoria è corretta: "ci doveva veramente essere un’associazione permanente tra i geni del virus e quelli della cellula, sebbene non fosse dimostrata". I primi esperimenti sono insoddisfacenti, mentre riceve offerte di lavoro da parecchie università, che lo vorrebbero come responsabile del dipartimento di microbiologia o virologia: "L’idea di diventare capo di dipartimento dapprincipio mi attraeva, ma poi, pensandoci bene, conclusi che sarebbe stato un errore. Io non ero fatto per la carriera amministrativa, ero troppo impaziente. [...] Nel 1962 però mi arrivò un’offerta speciale, di tipo molto diverso, che non potei rifiutare. Jacques Monod, il famoso scienziato francese, venne a trovarmi e mi parlò di un nuovo istituto ideato da Jonas Salk, il primo ‘conquistatore’ della poliomielite. L’istituto, dedicato alla completa realizzazione del potenziale umano, avrebbe fuso insieme la scienza e l’umanistica. [...] I ricercatori non avrebbero dovuto sprecare tempo ed energia per richiedere, com’era abitudine, i fondi necessari, l’istituto li avrebbe provveduti. [...] Monod mi invitava a far parte del primo nucleo di membri di quell’istituto. [...] Senza troppa esitazione accettai ed annunziai al Caltech la mia prossima partenza".
In attesa di trasferirsi al Salk Institute di La Jolla, che per il momento esiste solo sulla carta, Dulbecco accetta un invito dell’Università di Glasgow: "Mi accinsi a partire con Maureen, che nel frattempo era diventata mia moglie, sul France, il grande bastimento francese". Lì prosegue le sue ricerche sull’azione tumorale dei virus, e conosce i parenti scozzesi della moglie.
"Di ritorno a La Jolla nell’estate 1963, trovai un laboratorio nuovo. [...] L’istituto era temporaneamente costituito da baracche di legno, proprio accanto al sito dell’edificio in progetto. I laboratori erano pratici, funzionali e ci si lavorava bene: avevo con me un giovane appena laureato, Lee Hartwell, [...] con cui continuare il lavoro cominciato a Glasgow. [...] I risultati ampliarono le osservazioni precedenti. [...] Il virus non solo stimolava i meccanismi biochimici della moltiplicazione delle cellule, ma agiva anche direttamente sul loro DNA". Alla fine del 1965 l’équipe di Dulbecco si trasferisce nei nuovi laboratori e affronta il problema principale dei virus dei tumori, "cioè capire cosa fanno i loro geni, in che modo alterano le cellule. Tutto il lavoro precedente era stato preliminare per aggredire questo problema centrale". Prima di tutto Dulbecco si impegna per trovare traccia del DNA del virus all’interno delle cellule tumorali: "Il risultato era chiarissimo: il DNA del virus rimaneva nelle cellule dopo che erano diventate tumorali, anche se sembrava che non ci fosse". Sono i primi mesi del 1968: il risultato ottenuto segna il principio di una nuova era per la virologia.
 
 


Comune di Tropea. Il Prof. Dulbecco con Mons. Vincenzo De Chiara.

L’era della genetica

"Fino ad allora i virus si erano studiati osservandone le conseguenze che provocavano nelle cellule. [...] Da quel momento in poi divenne imperativo usare criteri molecolari, come l’identificazione dei geni del virus e lo studio della loro funzione attraverso i messaggeri e le proteine corrispondenti. Nasceva la biologia molecolare dei virus dei tumori e dei geni, non solo del virus, ma anche delle cellule. [...] Un’altra informazione importante derivata dall’esperimento fu che le cellule tumorali contenevano solo una molecola di DNA virale". Era un fatto notevole: "Come era possibile che quella molecola rimanesse in tutte le cellule per mesi ed anni, dopo che si erano moltiplicate centinaia di volte? L’unica spiegazione era che il DNA virale era diventato parte del DNA cellulare, comportandosi poi come un gene della cellula. [...] Però bisognava dimostrarlo, e bisognava farlo subito, senza perdere un attimo".
Per farlo, Dulbecco e i suoi collaboratori tentano di separare il DNA cellulare dal DNA virale: "Se il DNA virale era diventato come un gene della cellula, sarebbe stato impossibile separarli". I primi tentativi falliscono, poi finalmente si riesce a scoprire che tra i due DNA esiste un legame chimico indissolubile: "Era un risultato sensazionale. Dimostrava che lo stato tumorale causato dal virus persisteva perché i geni del virus persistono nelle cellule. Siccome sapevamo dagli esperimenti precedenti che questi geni provocano la moltiplicazione del DNA cellulare, potevamo dedurre che le cellule sono mantenute in uno stato di moltiplicazione persistente dall’azione dei geni virali installati nel DNA cellulare. C’era perciò un’interazione reciproca tra i due DNA: quello virale diventava ospite di quello cellulare, con i suoi geni attivava i geni cellulari necessari per la moltiplicazione cellulare e la provocava". A questo punto si trattava di identificare i geni virali attivi nei vari tipi di cellule: "Non era facile, ma il fatto stesso che il problema della trasformazione tumorale si potesse ridurre a questa domanda ben delimitata rappresentava già un progresso enorme". Nuovi esperimenti consentono di individuare nel virus due tipi di geni, "quelli trasformanti che rendono le cellule tumorali e quelli killer. I geni trasformanti sono circa la metà di tutti i geni e [...] funzionano per primi, mentre quelli killer funzionano più tardi. [...] La reciprocità di azione tra i geni del virus e quelli della cellula diventava ancora più completa col riconoscimento che i geni cellulari controllano quelli del virus e questi ultimi controllano i geni della cellula".

Verso Stoccolma

La lunga serie di esperimenti è interrotta da una pausa piacevole: una visita a Yale, per ricevere la laurea honoris causa assegnata a Dulbecco dalla prestigiosa Università: "Da Yale si informarono della misura della mia testa, per fornirmi il copricapo accademico necessario per la cerimonia. Io usavo dei cappelli enormi, della misura più grande esistente, che erano molto difficili da trovare; [...] Scoprii in seguito che la notizia aveva creato un certo scompiglio, perché non avevano copricapi di quella dimensione e ne dovettero ordinare uno apposta [...]".
"La laurea honoris causa non fu che uno fra i molti onori che mi furono tributati. Ripensandoci adesso, mi viene da sorridere ricordando quando ero al Caltech: sapevo di aver fatto già delle scoperte importanti e tutti i giorni andavo a vedere nella cassetta della posta per vedere se c’era qualche lettera interessante per me, qualche incoraggiamento. Non si vive di solo pane, ma dovetti attendere a lungo... Poi un giorno una lettera di quel tipo arrivò, e poi altre e altre ancora e alla fine furono talmente tante che non andai più nemmeno a cercarle. Un altro premio importante che rammento con piacere fu il Lasker, il più ambito riconoscimento americano per le scienze mediche e biologiche: molti dei premiati ebbero poi il Nobel".
Sarà proprio il Nobel il prossimo premio? È il padre di Dulbecco a sollevare il discorso, in occasione di una visita dello scienziato in patria: "Papà era ormai anziano ma stava bene, [...] la mamma sempre la stessa, un po’ irrequieta [...]. Entrambi ascoltavano affascinanti i miei racconti, si commuovevano dei successi, dei premi e poi invariabilmente papà chiedeva: ‘E il Nobel, quando te lo danno? [...] In realtà non ci pensavo poi molto, mi veniva in mente solo nell’ottobre di ogni anno, quando stavano per essere annunciati i nuovi premiandi: chissà, forse qualche possibilità l’avevo".
Intanto nella vita di Dulbecco si inserisce una novità: "Maureen rimase incinta". La nascita di una bimba, Fiona, alla fine del 1970, e il diffondersi delle ricerche sui virus dei tumori spingono lo scienziato a cambiare campo – "volevo dedicarmi allo studio del cancro in modo più vicino alla realtà" – e paese: "Michael [Stoker] voleva che andassi ad aiutarlo a dirigere l’istituto di Londra [l’Imperial Cancer Research Fund Laboratories, n.d.r.]. Quella possibilità mi attraeva perché là la ricerca seguiva diversi indirizzi, sia di base sia clinici". Dulbecco decide di dedicarsi al cancro del seno, "per la notevole diffusione e malignità di quel cancro e per la sua localizzazione in un organo superficiale, facilmente accessibile alla biopsia. [...] L’istituto era molto ben organizzato e attrezzato. Io avevo un grande laboratorio che ospitava un buon gruppo di ricercatori".
Un mattino di ottobre del 1975 arriva in laboratorio in ritardo e la segretaria gli consegna il telegramma di un collega svedese: "Congratulazioni, ci vedremo a Stoccolma". "Cosa significa?", chiede la donna. "Non osavo dirlo, ma facendomi coraggio mormorai: ‘Il Premio Nobel’". La conferma arriva dopo qualche ora di ansiosa attesa: il prestigioso riconoscimento gli è stato assegnato per le sue ricerche "sull’interazione tra i virus tumorali e il materiale genetico della cellula". "Fu il principio di una pazzia che durò tutto il pomeriggio. [...] Ad un certo punto recapitarono il telegramma della Fondazione Nobel che annunciava ufficialmente il Premio. Non vi prestammo quasi attenzione, ormai era una banalità. [...] A casa Fiona, che ormai aveva cinque anni, stava aspettando [...]. Mi guardò con aria perplessa e chiese ‘dov’è il tuo Premio?’. Mi misi una mano in tasca [...] e tirai fuori una moneta da 50 pence, tutta luccicante".
Nel caos dei festeggiamenti Dulbecco sente il peso di una responsabilità enorme: "Avevo ricevuto il Premio Nobel per il mio lavoro sui virus del cancro [...]. Col Premio mi avevano accordato una grande fiducia. Ora dovevo fare qualcosa per meritarmela questa fiducia, dovevo fare qualcosa per il cancro vero [...] qualcosa di pratico, di concreto".
 "Al principio di dicembre Maureen e io partimmo per Stoccolma. [...] Il primo avvenimento di quella settimana strapiena fu una conferenza stampa che io tenni insieme ai miei antichi allievi, Howard Temin e David Baltimore, che dividevano il Premio con me. Forse mai il Premio Nobel per la medicina era stato assegnato a due allievi e al loro mentore". Ma la conferenza è anche un’occasione preziosa per affrontare un tema che gli sta a cuore: "il ruolo del fumo nell’insorgenza dei tumori". Dopo la settimana di festeggiamenti la famiglia Dulbecco torna alla normalità: "Quella vita tutta basata sulle apparenze va bene per una settimana, di più diventerebbe insopportabile. [...] Pensavo al futuro, al tumore della mammella che sarebbe diventato il mio unico obiettivo".
Per proseguire le ricerche Dulbecco decide di rientrare negli Stati Uniti: "Manifestai le mie intenzioni a diverse università americane e immediatamente ricevetti diverse offerte in California. Anche il Salk, il mio vecchio istituto, mi rivoleva. Quell’invito mi interessava più degli altri, e [...] raggranellai le somme necessarie al trasferimento.
[...] L’idea di tornare a La Jolla per immergermi in un nuovo programma di ricerca mi entusiasmava. Con mia grande felicità sarei stato anche professore alla scuola di medicina dell’università di California, nel dipartimento di patologia. [...] Mentre io riprendevo il mio lavoro la famiglia si riadattava dolcemente all’America, senza scossoni".
Comincia a lavorare sugli anticorpi monoclonali. "Con il passare del tempo la ghiandola mammaria cominciò svelarmi i suoi segreti: la sua organizzazione, i tipi cellulari, il suo sviluppo. [...] Ora potevo cominciare a studiarne i tumori nei ratti. [...] Studiando l’evoluzione di quei tumori verso la malignità, ottenni un risultato sorprendente: scoprii che ogni tumore porta in sé sin dall’inizio la misura della sua malignità potenziale. [...] Diventava importante conoscere la ragione di quelle differenze. [...] Per far ciò la ricerca doveva spostarsi sui geni".

Il Progetto Genoma

Nasce così l’idea di sequenziare il genoma umano, determinando l’ordine in cui si susseguono i tre miliardi di basi del DNA, che sono l’alfabeto dell’informazione genetica: "Anche se la strada era lunga, bisognava imboccarla. [...] Mi incoraggiava il pensiero che quell’indirizzo non sarebbe stato utile solo per il cancro, ma sarebbe servito per studiare tutti i sistemi cellulari complessi, come per esempio il cervello."
Accolto inizialmente con scetticismo, il Progetto Genoma Umano parte nel 1986 tra mille difficoltà, grazie anche all’impegno del CNR: su invito dell’allora presidente Luigi Rossi Bernardi, Dulbecco accetta di coordinare lo sforzo italiano in quel campo cominciando a fare la spola tra il Salk Institute, del quale è Presidente Emerito dal 1993, e l'Istituto di Tecnologie Biomediche del CNR di Milano. Il suo rientro in patria, in controtendenza rispetto alla generale "fuga di cervelli", lo porta all’attenzione dell’opinione pubblica. Un’attenzione rafforzata nel 1999 da un evento insolito – la partecipazione, in qualità di ospite, al quarantanovesimo festival di Sanremo. E più avanti dalla conclusione, nel giugno scorso, della prima fase del Progetto Genoma. "È un grande giorno, un punto di arrivo. Ma anche di partenza", commenta Dulbecco in un’intervista. "Non è tanto la fine di una impresa quanto l'inizio di molte. Avere, come oggi abbiamo, la possibilità di raggiungere tutti i geni è importantissimo, ma ancora più importante è sapere che cosa fanno i singoli geni o gruppi di geni. Ora che disponiamo della sequenza completa siamo in grado di estrarre un pezzo di DNA, isolare un determinato gene e lavorare su questo".

La ricerca in Italia

A mitigare la soddisfazione, arriva il dispiacere per il progressivo disimpegno dell’Italia dal progetto. Che a partire dal 1996, persi i finanziamenti del CNR, è sostenuto solo da associazioni come Telethon: "L'interruzione dei finanziamenti da parte del CNR, o meglio da parte del ministero della Ricerca, è avvenuta senza una ragione e senza una spiegazione. Tutto è proceduto fin quasi alla fine, e poi ci siamo trovati davanti a un muro", spiega Dulbecco. "L'Italia ha fatto quello che ha potuto. Come sequenziamento, occorre riconoscerlo, non abbiamo partecipato un granché. Ma abbiamo contribuito parecchio alla fase successiva, quella relativa all'analisi della funzione dei geni".
Senza risparmiare critiche ai politici italiani per lo scarso sostegno alla ricerca – "l'Italia non arriva all'uno per cento, e anzi oggi spende in ricerca meno di dieci anni fa" – Dulbecco continua a impegnarsi in prima persona, occupandosi "dei geni preposti al differenziamento della ghiandola mammaria, insieme con il gruppo di Paolo Vezzoni, che recentemente ha scoperto il gene per la osteopetrosi".
E a sfruttare la propria notorietà per portare avanti la sua battaglia a favore della libertà della ricerca: "Una delle regole fondamentali della scienza è che non si può e non si deve porre un freno al progresso delle conoscenze. Ogni tentativo in questa direzione porterebbe alla rottura dell'antica alleanza tra società e ricerca, un evento certamente non desiderabile".