Horace De Rilliet: Tropea (disegno a penna), 1852

Soggiorno d'un ufficiale francese in Calabria

 Una raccolta epistolare dell’ufficiale francese,
aiutante maggiore del suo battaglione, al padre
dal 20/11/1807 al 19/10/1810

Lettera XII

Escursione a Nicotera. Tropea e Pizzo.
Descrizione di queste città e dei loro dintorni.

di Duret De Tavel


Alcuni ufficiali francesi come Duret De Tavel e Augustine De Rivarol durante l'occupazione francese del Regno di Napoli (1806-1814) pernottarono in Calabria per lunghi periodi durante l'espletamento di missioni militari nel Meridione.
In particolare, l'ufficiale napoleonico Duret De Tavel, giunto in Calabria con il suo battaglione, di cui fu aiutante maggiore, girò in lungo e largo avendo cura di annotare tutto quello che osservava. Una mole notevole di appunti che il De Tavel, il quale fu anche componente di importanti commissioni militari, scrisse durante i suoi percorsi su incontri casuali di persone, paesi visitati, eventi di cui lo stesso autore si rese protagonista, su racconti della gente. Veri e propri resoconti che descrivono minuziosamente i luoghi, la storia e le tradizioni del popolo calabrese che il De Tavel annotò in trentasette lettere indirizzate al padre e che successivamente saranno raccolte in un volume e pubblicate. Viene qui di seguito riportata la dodicesima lettera che racconta della permanenza a Nicotera, dove l'ufficiale è ospitato presso una simpatica familiola, e dell'avvicinamento e dell'arrivo a Tropea, dove è accolto con grande cordialità dal sindaco della città, che allora rispondeva al nome di Francesco Fazzari.
 
 

                                                                                                        Monteleone, 17 aprile 1808

Noi partimmo il mattino del 10 aprile per Nicotera, formando un’allegra brigata di sei persone, con buone cavalcature e ben armati. Per arrivarvi si attraversa una pianura coperta delle più ricche messi e piantata ad olivi alti come querce. S'incontrano pochi villaggi, ma un numero considerevole di fattorie ben costruite e circondate da grandi olmi dove s'intrecciano ghirlande di viti i cui ceppi vigorosi s'arrampicano fino alla sommità degli alberi.
Il borgo di Nicotera1, sito a 18 miglia da Monteleone, offre dappertutto uno stupendo panorama. Dacchè il sole cominciò a declinare, io scoprii dalla mia dimora le coste altissime della Sicilia, dominate dall’Etna. Alla mia destra, vedevo in lontananza le isole Lipari e - all'approssimarsi della notte - la cima sempre fiammeggiante dello Stromboli venne ad accrescere l’incanto di questo grande spettacolo. Il tempo era superbo; i venti, rinchiusi nelle vaste caverne delle isole Eolie non agitavano affatto la superficie del mare che rifletteva in lontananza le fiamme del vulcano che sembra destinato a servire da faro per garantire i vascelli dalle rocce e dagli scogli che lo circondano.
Si pensa assai comunemente che le isole Lipari, designate dagli antichi con il nome di isole Eolie, siano di natura vulcanica. Le sorprendenti trasformazioni che esse hanno subito in differenti epoche sembrerebbero attestarlo. Gli antichi non ne enumeravano che sette ed ora ne esistono undici, le cui cime ancora fumanti non producono tuttavia nè fiamme nè eruzioni. Solo lo Stromboli, alimentato dalle materie vulcaniche che compongono queste isole, è un focolaio sempre attivo. Virgilio vi pone la fucina di Vulcano ed è in questa officina che egli fa fabbricare la divina armatura di Enea. In una di queste isole gli antichi avevano fissato la residenza di Eolo, dio dei venti, che li teneva chiusi in vaste caverne, da dove poteva, a suo piacere suscitare tempeste o meglio favorire la navigazione. Diodoro di Sicilia dice che un sapiente naturalista di nome Eolo ha dato origine a tale favola. Avendo appreso a predire il tempo in base a sue osservazioni sul fumo e su altri fenomeni vulcanici, si argomentò che i venti fossero sottomessi ai suoi voleri.
Ma io metto da parte le teorie e le favole per tornarmene semplicemente al racconto del mio viaggio.
Una parte di Nicotera è costruita sul declivio che conduce al golfo di Gioia. E’ formata da piccole case basse, sporche ed abitate da pescatori e marinai, i cui vestiti ne dimostrano l'indigenza. Nella parte alta si trova una graziosa piazza e diverse case belle, tra le quali si distingue il Vescovado. I dintorni sono ben coltivati ed anche coperti di rovine che attestano le devastazioni del grande terremoto del 1783.
Io venni ospitato in una graziosa casa, tenuta con pulitezza da due giovani signorine educate a Messina, dove esse avevano acquisito delle doti e molto saper vivere. Il genitore, vedovo da più tempo, era affabile e colto; mi disse d'aver perduto gran parte della sua fortuna in seguito alla distruzione di Scilla, dove suo padre possedeva considerevoli proprietà. Testimone di quel disastro, me ne fece lo spaventoso racconto che concorda affatto con le relazioni del tempo.
Il 5 febbraio 1783 si avvertì verso l’una del pomeriggio una violenta scossa che fece precipitosamente uscire una parte dei suoi abitanti. Rifugiatosi col padre su una vicina montagna, una nuova scossa, più forte della prima, li buttò per terra: tutto il terreno si mosse, le case crollarono ovunque; le spesse mura e le alti torri del castello, svelte dalle fondamenta, si abbatterono sulla città, frantumarono gli edifici e seppellirono sotto le macerie un gran numero di persone che ancora in essi si trovavano. Gli abitanti sfuggiti a questo primo disastro, senza sospettare il nuovo pericolo che incombeva su di loro, corsero alla spiaggia dove si affrettarono a formarsi un ricetto con i resti delle loro case. Il mare era calmo, il cielo terso e sereno, era mezzanotte ed il sonno così necessario a quegl'infelici cominciava a succedere ai gemiti ed agli accenni della disperazione, quando all’improvviso il promontorio di Campallà precipitò per intiero nel mare, senza che alcun indizio ne avesse annunziato la caduta. L'enorme massa spinse le acque sulla costa opposta, dove esse sommersero un gran numero di Siciliani, e tornando poi con impetuosità sulla spiaggia di Scilla, inghiottirono tutte le persone che vi si erano rifugiate. La luce del giorno offrì alla vista di quelli che erano scampati alla terribile convulsione della natura, una moltitudine di cadaveri orribilmente sfigurati e i tristi resti di quella infelice popolazione errante all'avventura, in preda alla più angosciosa disperazione ed alla più crudele miseria2. << Ohimè, signore! >> — egli aggiunse — << questa bella provincia può da un momento all’altro veder rinnovarsi il disastro. Noi ci troviamo al centro dei più attivi vulcani; l’Etna, il Vesuvio e lo Stromboli hanno comunicazioni sotterranee che minacciano senza sosta il nostro suolo >>. Le graziose figlie sapendo che il ricordo di quella tremenda catastrofe lo faceva cadere in una profonda malinconia, cercarono di rendere più piacevole il resto della serata accompagnando sulla chitarra gradevole arie siciliane.
Il giorno seguente presi congedo da questa interessante famiglia. Mandammo i nostri cavalli a Tropea e scendemmo sulla spiaggia, da dove, in meno di quattro ore, un peschereccio ci fece giungere a capo Vaticano, celebre per la vittoria che Sesto Pompeo riportò sulla flotta di Augusto. Prendemmo terra in un’insenatura sopra la quale è stata sistemata una batteria di due mortai e di sei pezzi da ventiquattro, montati su affusti. Un ufficiale e trenta uomini del battaglione sono incaricati della difesa del posto, stabilito per proteggere il cabotaggio.
Questo capo è coperto di mirti, di allori e dei più belli aloe che io abbia finora visti; si protende nel mare e serve da riparo ad un gran numero di  pescherecci che trovano piccole insenature dove possono proteggersi dai venti. Pranzammo gaiamente all'ombra di un albero, con pesci d’ogni specie ed una grande abbondanza di quaglie. E' ora l'epoca in cui questi uccelli di passaggio arrivano dall’Africa; essi sono così stanchi per la lunga traversata che si possono afferrare con le mani; i pescatori ne prendono a migliaia tendendo le loro reti lungo le rocce, cosa che nel paese si chiama la pesca delle quaglie.
Fermandoci qui, la nostra intenzione era di osservare più da vicino lo Stromboli. Questo picco terribile, più alto del Vesuvio, è alla stessa altezza del capo, alla distanza di solo quaranta miglia. Verso le sei della sera noi lo distinguevamo chiaramente e, dacchè fu notte, la fiamma che ne usciva sembrava averci ravvicinati. Questo vasto incendio in mezzo alle acque produce un effetto tanto stupendo quanto ammirevole.
Noi passammo la notte in una grande casa che serve da caserma per il distaccamento ed il giorno dopo, all'alba, partimmo a piedi per Tropea, seguendo la via del mare. Dopo aver percorso tre miglia su una spiaggia incolta, il terreno, estendendosi, presenta una superba campagna assai ben coltivata, ornata di bei giardini e di graziose case cinte da boschetti di aranci. Si entra poi in una bella strada che conduce fino alla città. Questa incantevole pianura - addossata ad una montagna coperta di vigneti, di oliveti e di gelsi -  è bagnata da diversi ruscelli che, cadendo, formano belle cascate e fanno girare dei mulini. Alla fine del viale, ci si trova dinanzi all'improvviso una roccia a picco che sembra sospesa sopra il mare. La città di Tropea3, costruita sulla sua sommità, fa un effetto singolarmente pittoresco. Essa non è congiunta al continente che da una lingua di terra assai stretta, anticamente difesa da un castello in rovina.
Il Sindaco ci ricevette molto garbatamente e ci procurò degli eccellenti alloggi dove fummo accolti con la più grande cordialità. Questa bella parte della Calabria, essendo interamente preservata dal brigantaggio, non ha affatto con le autorità francesi quelle penose relazioni che, ispirate al terrore e alla soggezione, mettono da parte ogni sentimento di benevolenza. Gli abitanti si affrettano a parlare agli stranieri dell’origine della loro città, che attribuiscono a Scipione l’Africano. Il suo antico nome di Trophea, divenuto Tropea per corruzione, proviene (secondo quello che essi dicono) dai trofei che l’illustre romano portò dall’Africa4.
Ci restava da visitare ancora le due compagnie accantonate a Pizzo5, dove noi giungemmo il 13. Questa cittadina ha una graziosa posizione; il suo porto, per quanto poco sicuro e poco largo, svolgeva prima della guerra un commercio notevole; gli abitanti, poco dediti all’agricoltura e ridotti ad un grave stato di miseria per la stasi del commercio, sono assai inclini a manifestare il loro malcontento; il che obbliga a tenervi un presidio molto forte.
Il porto è ravvisato in questo momento dal carico di un gran numero di mercanzie che si vuol tentare di far pervenire a Napoli sotto la protezione di alcune scialuppe cannoniere.
Il 15 noi eravamo di ritorno a Monteleone. Io mi ricorderò sempre con grande piacere dei panorami incantevoli che ho goduto, delle deliziose giornate di primavera che ne hanno accresciuto il fascino e della simpatica ospitalità che ho ricevuto in tutte le case.
 

NOTE
1 Contea della casa Ruffo e sede vescovile, con 2.702 ab. Di Nicotera era il borbonico Giuseppe De Luca, maggiore di cavalleria, caduto nella battaglia di Mileto.
2 Queste notizie generali sono anche riferite dal GRIOIS, L'occupazione francese della Calabria, 1806, p. 297. Sulla caduta del promontorio Campallà v., per tutti, G. MINASI: Notizie storiche della città di Scilla..., NAPOLI, Tip. Lanciano e d'Ordia, 1889, cap. XXII, p. 179-185. Sembra che il maremoto non sia stata conseguenza della frana del Campallà. Travolto dalle acque, perì allora pure il vecchio conte D. Fulcone Antonio Ruffo; ne dà notizia anche P. MINASI in un opuscolo contro i Ruffo, di uno stile strano quanto il titolo: La lingua di Scilla ululante; sull'esemplare che io ho avuto occasione di esaminare non appaiono note tipografiche.
3 Città regia, sede vescovile, con 4.011 ab. (compresi quelli dei sobborghi), con popolazione colta e molti nobili, territorio fertile e assai produttivo, ottimo vino.
4 Il Marafioti, invece, lo fa derivare da tropos (ritorno, retroversione) per i venti che riddano nella tropea o << Trubbea >>, ossia il vento ciclonico così detto nel gerco locale.
5 Città della diocesi di Mileto, feudo della casa Infantado, con 4.729 ab.