FELICIA CAPUTO
LA POETESSA

di G. B. Petracca Scaglione








Questa gentildonna, detta dai contemporanei la poetessa per antonomasia, nacque in Tropea dal Nob. Francesco e dalla Signora Maria Antonia Carratelli di Amantea il diciannove dicembre 1831.
Di svegliata intelligenza e di avvenenza non comune, mostrò dalla prima fanciullezza grande amore alla lettura dei nostri maggiori poeti e, non ancor decenne, manifestò il suo genio poetico nella composizione di varie canzonette sul far di quelle del Metastasio, la cui fama, più che nel resto d'Italia, era grande in quel tempo in Calabria, dove si era svolta la sua prima educazione, e molto più ancora in Tropea per l'amicizia che legava l'illustre Poeta al Vescovo locale Monsignor Felice Paù.
Per ammirare ed apprezzare meritamente questa bella ed infelice giovane, degna di miglior tempo e sorte, non bisogna dimenticare che fu quasi un'auto-didatta e dovette tutto perciò alla vivacità e prontezza dell'ingegno, all'animo prepotentemente inclinato per le lettere e la poesia. Il pregiudizio, allora dominante nelle Provincie meridionali, specie nei piccoli centri, che la donna, benchè d'elevata condizione, dovesse essere poco più che analfabeta, un mobile di casa, distinto solo dagli altri perchè animato, e men che meno una letterata, le toglievano d'aver dei maestri che l'avviassero di proposito agli studi, con una educazione volta a sviluppare completamente le belle doti del suo intelletto.
Tuttavolta, ella riuscì ad erudirsi non solo nella patria letteratura e nella storia e filosofia, ma anche nelle lingue francese e latina, e in quest'ultima a tal segno da penetrare nelle più riposte bellezze dei suoi classici poeti.
Perduta a tredici anni la madre adorata, che ne aveva dai primi versi predette il glorioso avvenire, essa ne pianse la morte in parecchi sonetti, dei quali, come d'ogni altra sua poesia, non rimane che il ricordo, cosa che parrà incredibile a tutti, trattandosi di persona così nota e quasi nostra contemporanea.
Di quell'anno infausto - 1844 - pur coltivando tuttavia gli altri generi poetici, ebbe singolare predilezione per il sonetto, e in esso - come lasciò scritto il fratello Luigi1 - <<con esercizio meraviglioso divenne maestra>>.
Fin settecento sonetti compose, oltre a buon numero di canzonette, sciolti, ottave, odi, ecc., essendo dotata di vena facile, ricca ed armoniosa. Alcune volte giungeva a dettare anche venti sonetti in un giorno; e spesso improvvisava dei versi niente privi di leggiadria di immagini e sceltezza di parole. Svariato è l'argomento delle sue poesie; quella dolce lira or rievocava i ricordi più belli della fanciullezza, o le prime ed ultime gioie degli anni passati nella casa paterna, le luminose illusioni così presto tramontate, ed or modulava un canto religioso, nelle cui note trovava conforto lo spirito addolorato e un dolce sfogo il cuore, riboccante di sincera pietà; oppure aveva accenti teneri e affettuosi per celebrare la ricorrenza di un onomastico, di un genetliaco, di un funebre anniversario di congiunto od amico. Fra le più notevoli - secondo abbiamo dallo stesso fratello Luigi - erano quelle composte nei tre giorni passati in Paola, nel gennaio del 1851, visitando il Santuario di S. Francesco e Amantea, la città natale della mamma diletta, di cui ripeteva l'anima e le sembianze.
Mortole il padre nel gennaio del 1854, andò sposa nel novembre dell'anno successivo a un Sig. Gaetano Granelli; ma s'ebbe ben tosto a pentire, indarno purtroppo, del nuovo stato. Nata per le amene lettere e la poesia, alle quali consacrava non il meglio ma tutto il suo tempo, ed usa alla tranquilla e cara libertà della casa paterna, mal si adattava la sua natura sensibilissima e appassionata alle minute e molteplici cure domestiche, molto più che il sorriso di un bambino, da lei tanto sospirato, non venne mai a confortare i tre anni di vita coniugale. Fuggevoli momenti eran quelli che potea dedicare alla poesia; e spesso, per immergersi a suo talento nella serena contemplazione dei suoi ideali e meditare dei versi, correva a rifugiarsi nella stanza più elevata o più remota della casa, dove scordava alquanto le noie e le amarezze di un'esistenza divenutale vuota, squallida, triste.
Breve tregua in quegli anni furono dodici giorni del febbraio 1858, passati nella casa avita, fra le mura testimoni delle sue gioie infantili, dei giorni lieti dei suoi vergini anni.
Pervasa tutta dal fascino soave di tanti ricordi si sentì presa da una voluttà grande, irrefrenabile di sfogare in versi l'animo suo e, non onostante il severo divieto dei medici di darsi ad occupazioni intellettuali, ne scrisse molti, tenerissimi e soffusi di soave malinconia, e forse furono gli ultimi, perchè cessava di vivere il diciassette aprile di quell'anno, di poco varcato il quinto lustro.
Pochi giorni avanti di morire, discorrendo vicino al letto della gentile inferma, il medico curante, Sig. Cognetti di Nicotera, dei sonetti del Petrarca in morte di Madonna Laura, accennò a quella che incomincia: <<Levommi il mio pensiero in parte ov'era>>. La giovane signora, a cui il male lungo e penoso non aveva per nulla menomato la forte e pronta memoria, e che sapeva fra l'altro a mente per intiero i nostri quattro grandi poeti, si affrettò a recitare con grazia e sentimento tutto il sonetto, con somma meraviglia dei presenti. Allora il Cognetti la richiese di un sonetto sul male che l'affannava e l'inferma, scheletrita dai lunghi patimenti, rispose: <<Se facessi un sonetto sulla mia magrezza vi farebbe orrore>>.
I suoi scritti che, morente, affidava al carissimo fratello Luigi, consegnandogli la chiave del baule dove amorosamente li custodiva, non videro mai la luce ed ora, come accennavamo dal principio, sono al tutto perduti.
L'or nominato Luigi, cui la sorella diletta aveva dato preghiera di ordinarli e pubblicarli, la seguì, dopo pochi anni, nella fossa, e il voto della povera morta restò insoddisfatto da parte degli altri congiunti2.
Or non avanza altro della gentile ed infelice signora che il dolce e tenero ricordo delle sue virtù, del suo ingegno, della sua fine bellezza, della quale, pallida memoria, è un piccolo ritratto dedicato a matita da una sua amica, la Teresina Basile, e che è custodito con reverente affetto dal cugino Sig. Lauro Caputo, unico ed amoroso raccoglitore, delle memorie della sua antica e nobile famiglia.

NOTE

1 Caputo Luigi (1828 - 1863). Fratello della Felicia, nacque il ventisette marzo 1828. Seguendo l'esempio di altri membri del suo casato entrò a far
  parte del S.M.O. di Malta nel dicembre 1853. Fece i suoi studi in Tropea e in Napoli e fu gentiluomo di vita integerrima ed esemplare.
  Sull'orme della sorella coltivò anche lui la poesia, scrivendo molti sonetti, di cui la maggior parte - perchè inediti - andarono al solito perduti. Ne
  avanzano appena sette: quattro pubblicati sul periodico napolitano <<la Rondinella>> (An. IV, 1858); due in morte del capitano del Genio, Cav.
  Gregorio Galli (1847) e uno in morte della Nob. Maria Caterina Defelice Protopapa (1861); i quali ultimi tre fanno parte delle relative raccolte
  funebri. Finì di vivere nella città nativa il ventitrè marzo 1863.
2 Caputo Pasquale (1825 - 1885). Fratello anch'egli della <<poetessa>>, nacque il tre gennaio 1826  studiò assieme al minor fratello Luigi in Tropea e
  in Napoli. Di lui rimase inedito un poema di argomento religioso che si conserva dai Sigg. Cipriani di Nicotera, suoi parenti da parte della moglie, e
  pubblicati per le stampe due opuscoli poetici, dal titolo:
- Rime lacrimevoli - in morte - del Maresciallo Marchese - Ferdinando Nunziante -, Napoli, nella tipografia di Gaetano Rusconi, 1852.
- La sposa del nuovo cantico, ecc., Napoli, Tipografia italiana, 1876.
  Il primo di otto pagine in 4°, contiene sei sonetti indirizzati alla Marchesa Giuseppa Gaetani, vedova del Nunziante, ed il secondo di dodici pagine in
  8°, è un'imitazione in terza rima del Cantico dei Cantici. Il Caputo chiuse i suoi giorni in Tropea il tredici aprile 1885.