Le
   Tragedie

Poeta lirico e drammatico, giornalista e critico teatrale, traduttore in versi dal latino e dal francese, Francesco Ruffa, forte della sua vivace fantasia supportata da una non comune cultura, produsse diversi generi letterari che lo resero meritevole di essere ricordato come uno di quelli che si distinsero nella prima metà dell'Ottocento.
La serale lettura, fatta in famiglia, delle tragedie di Voltaire e dell'Alfieri gli dovette lasciare il segno se, a soli dodici anni, palesò la sua vocazione per la poesia tragica con "Ninia", un lavoro teatrale che, rappresentato a Tropea quando egli aveva quindici anni, ebbe tanto successo; un motivo, questo, che - come afferma nella prefazione - forse contribuì a farlo perseverare sulla strada di quel genere letterario.
E difatti, appena trasferitosi a Napoli, nella quiete della Villa Belvedere al Vomero dove abitava, si faceva rinchiudere dal custode per giornate intere onde attendere assiduamente ai suoi lavori, come faceva Vittorio Alfieri quando, avendo deciso di approfondire lo studio della lingua italiana, restava chiuso in una stanza, legato su una sedia.
E fu così che, dopo aver perfezionata la tragedia "La Morte di Achille", già impostata a Tropea, meditò e scrisse nel periodo giovanile le tragedie "Codro", "Agave", le "Belidi" e "Teràmene" che pubblicò a Livorno nel 1819, tutte rappresentate con piena soddisfazione del pubblico, e quelle rimaste inedite: "S. Giovanni Battista", "Amalasunta" e la "Vendetta di un Goto", un poema drammatico, questo, per il quale Ruffa spese tanti anni di lavoro.
All'indomani della rappresentazione della "Morte di Achille" fatta al Fiorentini di Napoli nel settembre del 1822, il critico teatrale del Giornale delle Due Sicilie così scriveva: "E' noto che il nostro tragico si apre una via poco battuta nel teatro classico, per non dire quasi deserta: quella cioè della pittura dei caratteri. Ei, rispettando le orme del grande Astigiano, non le ricalca servilmente: segue il proprio genio e non le di lui vestigia, l'arte si prefigge e non la maniera".
E difatti, pur se nelle sue tragedie si avverte la conoscenza dell'Alfieri, per l'unità e la semplicità dell'azione, e dei modelli francesi per quanto riguarda la ricerca della brevità e della grazia, tuttavia si può dire che Ruffa non è corneliano, nè volterriano e nemmeno alfieriano, e lo afferma egli stesso nella prefazione del primo volume, concludendo con l'espressione oraziana: "Meo sum pauper in aere" (io sono povero, ma quel poco è mio).
Allude alla sua arte che, da sempre sua morbosa passione, lo fece eccellere nella pittura dei caratteri dei suoi personaggi.
Delle sue sei tragedie pubblicate, che trattano argomenti dell'antichità greca da cui sgorgano ansia di libertà ed amor di patria, Ruffa definisce "esercizi tragici" la Ninia, la Morte di Achille e le Belidi; delle altre tre: Terràmene, Agave e Codro, preferiva Agave e Codro, con particolare tendenza affettiva per Agave.
Infatti nella prefazione della tragedia "Codro" Ruffa dice: "In generale per l'azione, e per lo stile io credo il Codro superiore a tutti gli altri miei tragici lavori; ma per li caratteri, per gli affetti, e per lo scopo morale l'Agave tuttavia sovrasta al Codro, e non ha cessato ancora di essere la figlia, verso cui sento maggiore la tenerezza paterna".
Teràmene: personaggio politico ateniese vissuto dal 450 al 404 a. C., era uno dei "Trenta Tiranni" che amministravano il governo di Atene. Ne era a capo Crizia (460-403 a. C.), uomo politico e scrittore ateniese, apertamente filospartano che, ad un certo punto, instaurò un regime di terrore non condiviso da Teràmene, rappresentante dell'ala moderata dello schieramento politico ateniese.
Per questo suo atteggiamento fu giudicato reo di alto tradimento dal Senato che, convocato espressamente da Crizia, alla presenza degli altri "Tiranni" lo condannò a morte, facendogli bere veleno in carcere.
Teràmene pagò con la vita la sua generosità e la sua avversione alla tirannia.
Codro: ultimo leggendario re di Atene, avendo appreso che l'oracolo di Delfo, consultato dai Dori prima di attaccare battaglia contro Atene, aveva predetto che la vittoria sarebbe stata di quella parte che avesse pianto il proprio re morto in combattimento, si dispose al sacrificio della vita per la libertà della propria patria.
Egli, repressi i suoi più cari sentimenti familiari, alla testa dei suoi guerrieri, si lanciò contro le schiere doriche che, intanto, avevano duramente attaccato le mura di Atene.
Quando si rese conto che, malgrado l'impeto eroico dei suoi combattenti, il corso della battaglia stava volgendo a favore dei Dori, memore dell'oracolo di Delfo, si trasse in disparte per spogliarsi delle sue vesti regali ed indossare quelle semplici di un guerriero che gli era vicino.
Non riconosciuto dal nemico, che diversamente non l'avrebbe ucciso, si cacciò con furore nella mischia, proprio con l'intento di trovarsi la morte.
Quantunque colpito al petto dal ferro nemico, ebbe la forza di gridare ai suoi: "Io sono trafitto. E' con voi la vittoria!".
Quel grido produsse una disperata furia negli Ateniesi che, avventatisi contro i Dori ormai stanchi ed avviliti, li posero in fuga. Atene era salva.
Portato entro le mura della città, Codro spirò dopo aver lentamente detto: "Atene ha vinto...ah giorno!...oh gioia!...io moro!".
Agave: mitica figlia di Cadmo e di Armonia e mdre di Penteo, giovane re di Tebe, era guida delle Baccanti nella pratica del culto di Bacco che rendeva

"nell'ebbrezze, negli ozi e negli amori
Folli i prudenti, infingardi i forti
E disfrenate le baccanti donne".

E poichè Penteo, per il bene della patria che tanto amava, voleva un popolo forte e guerriero e perciò devoto di Marte, si mostrava ostile al culto bacchico dal quale sperava di staccare la madre Agave che, tra l'altro, non gli si mostrava più tale.
A contrapporre al figlio la madre era il  subdolo Tiresia, sacerdote di Bacco, che, mirando anche a impadronirsi del regno di Tebe per assegnarlo ad Alicandro, istigava Agave ad uccidere il figlio perchè, diceva, era un grande tiranno.
Erano così convincenti le sue parole che nemmeno il padre riusciva a convincerla del contrario.
Odio ed amore si accentravano nell'animo di Agave che s'intenerisce alquanto quando Penteo, per la pace dei tebani e per la gloria di Tebe, si mostra disposto ad accettare, oltre a quello di Marte, anche il culto di Bacco.
Ma, mentre con uno stretto abbraccio si ritrovano madre e figlio, si vedono le fiamme di incendio e si ode il tonfo di mura cadenti.
Era il tempio di Bacco che andava in rovina ad opera di Penteo, insinuava il malvagio Tiresia. A quelle parole, non sopportando che fosse arrivata a tanto la tirannia di Penteo che pur si proclamava innocente, Agave lo colpisce con un pugnale e l'uccide.
Ma quando sente dal padre Cadmo che ad incendiare il tempio era stato Tiresia, prostata per aver creduto a quell'infame, si trafigge con lo stesso pugnale e cade morta sul cadavere del figlio. La morte li aveva riuniti per sempre.
Più crudele e più irreale appare nelle Baccanti di Euripide la fine di Penteo, ordita da Bacco per vendicarsi dell'avversione del giovane re al culto dionisiaco.
Essendosi spezzato il ramo dell'albero da cui, inosservato, stava assistendo ad un rito orgiastico delle baccanti guidate da Agave, Penteo cadde in mezzo a quelle donne invasate che, vistolo in forma di cinghiale per effetto di un inganno fatto da Bacco, gli si avventarono furiosamente addosso per sbranarlo.
Ad ucciderlo fu Agave, la madre, che poi, troncatagli la testa, la infilzò in un acuminato palo.
Quando, rientrata nella reggia, conobbe l'orribile verità, la sua gioia si trasformò in lutto e la più funesta disperazione invase quella casa reale.
Ruffa si dimostra più realistico di Euripide; e difatti nell'introduzione dice che scrisse l'Agave, "altra cura non avendo che di porre in scena il fatto tale quale istoricamente avrebbe potuto avvenire".
Le sue tragedie attraverso l'attenzione del pubblico, come si è detto anche nel Convegno Foscoliano, tenutasi a Napoli il 28 e 30 marzo 1979, dove, a proposito della scarsa fortuna avuta dalle tragedie del Foscolo a Napoli, Pino Iorio nella sua relazione su "Foscolo e la polemica classica-romantica a Napoli", ha affermato che la causa era da attribuirsi anche "all'interesse suscitato da tragediografi locali, come il Ruffa o lo Sperduti o il Duca di Ventignano", cioè Cesare della Valle.
Occorre dire che, rispetto allo Sperduti ed al della Valle, Ruffa fu portato di meno sulla scena, forse perchè piuttosto scarsa era la forza drammatica nelle sue tragedie.
Infatti Ullea1 dice che Ruffa, dotato di elevate qualità poetiche, quali l'afflato lirico, il fulgore dell'immagine, il segreto dell'armonia e la strofa dal senso preciso e spesso profondo, essendo grande nel genero lirico, non poteva esserlo nel teatro tragico perchè lo stesso elevato spirito di un genere non può trovarsi in un altro che spesso richiede qualità opposte.
Ci fu chi evidenziò questo neo nelle tragedie di Ruffa in modo pungente.

Quando improvvisa Sgricci e scrive Ruffa
La tragedia diventa opera buffa

scriveva D'Urso, vice ammiraglio e quotato epigrammista.
Pronta e frizzante fu la risposta di Ruffa:

"Fra i marini vate raro
Fra i poeti marinaro.

Comunque al Ruffa va il merito di essere ben riuscito nella pittura dei caratteri dei suoi personaggi e di aver saputo portare sulla scena mitici fatti dell'antichità greca da cui si potessero trarre caldi sensi di libertà e di patriottismo in un momento di fermenti politici e letterari.
Infatti, nella prefazione al primo volume delle sue tragedie, rivolgendosi agli Italiani, tra l'altro dice: "Collo scriver tragedie io mi ho proposto di far cosa utile alla nostra patria comune, e questa idea bella e grandiosa mi ha dato forza e coraggio".
 

NOTA
1 Ullea Galà Pietro - Pensèes et Souvenirs sur la Litterature Contemporaine du Rejaume de Naples, Ginevra, 1859