LA
   VITA
 

Nato a Tropea il 26 aprile 1792 da Tommaso, dotto medico, e da Gaetana Paladini, svolse i suoi primi studi sotto la guida del canonico Francesco Polito e del proprio zio Raffaele Paladini, teologo della Cattedrale di Tropea.
Nella prefazione al primo volume delle sue tragedie pubblicate a Livorno nel 1819 ci rivela qualche momento della sua età puerile: " La sera leggevansi in casa mia le tragedie del Voltaire e dell'Alfieri ed io rimaneane così incantato, ch'ogni studio o fanciullesco trastullo abbandonava per immergere la mia attenzione in quella lettura, che a sè traeami possentemente, e ch'era divenuta per me la più possente occupazione".
Ci rivela anche che amava ascoltare certi fatti che generalmente colpiscono la fantasia dei fanciulli: "Le geste dei fuorusciti erano la materia dei racconti di tutti i crocchi. La volgare credenza alle fate, alle magie ed alle ombre degli uccisi, dette con vocabolo calabrese spirdi, aggiungeva a quei racconti tale aria meravigliosa e poetica che gli stessi animi più increduli ne rimanevan dilettati. Io compiaceami di udire e di narrare io stesso geste sì fatte e godea d'essere dai fanciulli dell'età mia con piacere ascoltato".
Aveva sette anni, Francesco Ruffa, quando l'8 febbraio 1799, come segno di adesione alla Repubblica Partenopea instaurata a Napoli nel gennaio dello stesso anno, fu eretto nell'attuale Piazza Ercole, di fronte al Sedile di Portercole che per i rivoluzionari era il cuore della conservazione, l'Albero della Libertà che rappresentava la caduta dell'assolutismo e della tirannia.
Si svolsero per l'occasione dei festeggiamenti con cui il popolo esprimeva la propria gioia, pienamente condivisa dal padre di Francesco, grande spirito liberale.
Quella gioia, che aveva accomunato popolo e patrioti rivoluzionari, si tramutò in furore di persecuzione contro i patrioti quando, di lì a poco, il cardinale Fabrizio Ruffo restaurò il vecchio regime in Calabria prima, a Napoli poi.
Quanto all'Albero della Libertà, si corse in piazza per abbatterlo e bruciarlo perchè era corsa la voce che nelle notti precedenti vi era penetrato lo spirito maligno.
E poichè si riteneva spiritato anche un cerchietto di ferro che si era liberato dall'albero ormai in cenere, nessuno osò impossessarsene, nè lo si volle toccare con le mani per cui si dovette fare uso di un bastone per raccattarlo e lanciarlo da una ripa il più lontano possibile. Francesco Ruffa vide quelle scene ed assistette pure ad una conversazione, ora animata ora serena che, in merito, Pasquale Galluppi, allora di 29 anni, teneva con Luigi di Francia, Nicola Toraldo, Ignazio Barone e Goffredo Fazzari, colti tropeani, e ne restò fortemente impressionato, egli che, con la lettura delle tragedie di Voltaire e dell'Alfieri e per l'atteggiamento "carbonaro" del padre, incominciava a dischiudere il suo animo alla libertà.
Ultimati gli studi classici a Tropea, si stabilì a Napoli presso lo zio paterno Giuseppe Antonio, dotto medico e dotto naturalista, prefetto della biblioteca universitaria di Napoli e socio di varie Accademie e di Società Scientifiche; uno zio pieno di affettuose attenzioni che Francesco ricambiò sempre con tanta devozione, come si evince anche da una lapide in latino che si legge sul muro esterno della Cappella Galluppi nella Cattedrale di Tropea.
Non sentendosi portato nè per la medicina, nè per gli studi giuridici cui si era avviato, si volse al mondo della letteratura, particolarmente della poesia, realizzando così la sua grande vocazione. Lo zio lasciò fare.
A 18 anni era Referendario presso la Suprema Cancelleria di Napoli e poi, intrapresa la carriera nella magistratura, nel 1820 fu nominato Giudice del Tribunale di Catanzaro, posto che perse ben presto perchè, già compromesso con il Borbone per gli effetti devastanti prodotti dalla rappresentazione della tragedia "Teràmene", il cui motivo dominante era la libertà greca, appena giunto in Calabria, pubblicò sull'Imparziale del 18 agosto 1820 l'ode "Alla tomba del padre", dove, dopo aver espresso la propria angoscia per il "rio servaggio" in cui era vissuto e morto il proprio padre, il poeta eleva un canto alla libertà chiesta dal popolo con voce tremenda ed ottenuta:

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Gran pena è un padre spento,
Ma ch'ei sia morto al rio servaggio in seno
E' il mio più fier tormento.
..........................
Là ove riposi,
Padre, non è più serva. Eccelsa ammenda
Dei lacci vergognosi
Il popol fè. Voce innalzò tremenda
Che fra gli astri pervenne:
Libertà chiese e libertade ottenne.
Il popolo sovrano
Ta' dighe impose alla regal possanza
Che il più temerla è vano.
...........................

Ritornatosene a Napoli, dove risiedeva al Vomero, per vivere fu costretto ad impartire per tanti anni, lezioni private di letteratura, storia e filosofia, continuando ad alzare la voce con coraggio e con franchezza contro l'ignavia e la viltà dei tempi.
Era tanto stimato negli ambienti culturali che, ancora giovane, fu accolto nelle più importanti Accademie, come la Florimontana di Monteleone dove era conosciuto con lo pseudonimo di Labindo Terodonio, la Pontaniana di Napoli, l'Accademia della Valle Tiberina Toscana, ed appartenne anche alla Società Aretina di Scienze, Lettere ed Arti.
Dal Congresso degli Scienziati di Napoli, di cui faceva parte e dove tanto si era distinto come storico, critico e filosofo, ebbe una medaglia.
In un certo momento,nel 1832, forse per le sue condizioni economiche tanto disagiate, forse perchè aveva creduto alla liberalità che Ferdinando II1, salito al trono nel 1830, aveva osteggiato nei primi anni di regno, Ruffa divenne poeta di corte, e come tale scrisse un canto epitalamico "In occasione delle faustissime nozze di S.A.R. la Principessa D. Maria Cristina", il sonetto "Per l'immatura morte di Maria Cristina di Savoia", il sonetto "L'Addio della Regina al Figlio" ed altri componimenti ancomiastici della casa reale.
Probabilmente per questo motivo fu nominato Regio Revisore delle opere teatrali e redattore del Giornale delle Due Sicilie che era la gazzetta ufficiale del regno.
Sarà stato per questo suo atteggiamento verso il re, se quella gente, che l'aveva prima ammirato e stimato, incominciò a non tenerlo in considerazione, causandogli una profonda crisi, tanto che, non volendo stare nè con i conservatori, nè con i reazionari, dato un taglio netto al mondo politico, si aprì completamente alla fede.
Sembrava che il destino gli avesse fatto imboccare quella strada che, lastricata di piccoli e grandi dispiaceri, rattrista ed abbatte la vita di un uomo.
E difatti, poco dopo aver provato la pungente tristezza per il voltafaccia dei suoi amici, nel 1840 fu sconvolto dalla morte della giovane moglie Enrichetta Langer, un fiore di bellezza e di virtù, tanto rimpianta da quelli che l'avevano conosciuta.
L'epigrafe, dettata dal marito e posta sulla tomba marmorea nel camposanto di Napoli, sintetizza una storia di amore bella ma breve, come bella e breve è la vita di una fulgida meteora:

Qui giace
Enrichetta Langer moglie di Francesco Ruffa
Chi amore intende
Consideri il loro.
Simpatia lo accese
Breve felicità lo rese possente
Sventura immensa
Morte eterna!

Nell'immediatezza di quel triste evento, poichè non gli sfuggiva il dramma dei propri piccoli figli che con la morte della mamma avevano perso per sempre il suo caldo amore e le sue dolci carezze, compose il sonetto "Ai Figli" con cui esprime queste sconsolate riflessioni:

Stringetevi al mio sen, pegni diletti
Del più soave e più infelice amore.
Io per voi serbo anche i materni affetti,
Tenera eredità del mio dolore!
Ella lo disse ed io ne' vostri aspetti
Diviso palpitar sento il suo core.
Di lei trovo in ciascun dei vostri aspetti
Qualche sembianza, e in tutti il suo candore.
Voi mio conforto...Ma perchè torcete
Gli occhi, e poi tristi gli abbassate? Insano
Ch'io son!...Comprendo ciò che dir volete.
Se di altro labro i baci e di altra mano
Voi le carezze solite attendete,
Miseri figli, ah li attendete invano!

Ai primi del 1851, abbattuto e con la fibra minata da un morbo, Ruffa si ritirò nella sua terra natia, la piccola Tropea della sua fanciullezza ed adoloscenza, nella cui quiete, rotta soltanto dalla risacca del mare, sperava di ricuperare la salute e la pace interiore.
Ma tanto era stato il tempo che lo aveva tenuto lontano da Tropea per cui vi trovò una realtà diversa che lo faceva sentire "tra nova gente novo", come dice nel sonetto "Ritorno di un vecchio alla patria", dove esprime il suo struggente rammarico di non riuscire a ravvisare niente del suo vecchio caro mondo, di cui erano rimasti ricordi, solo nostalgici ricordi:

O patrie rive, o patrie mura amate,
Io vi ricalco, io vi riveggo alfine!
Ma quanto, ohimè, quanto si son mutate
A me le sorti col mutato crine!
Ben rivivo tra voi l'ore beate,
Ma è dolce illusion che tosto à fine;
Chè ovunque arresto il piè voi mi mostrate
Di un'età che fu mia l'alte ruine.
Non son che nudi nomi in marmo impressi
I miei più cari, etra lor tombe io movo
Là dov'ebbi i lor baci e i loro amplessi.
E mentre ch'io, tra nova gente novo,
Pochi ravviso tramutati anch'essi,
Sento quel che mi manca a quel ch'io trovo.

Tuttavia ebbe modo di gustare alcuni momenti di serenità quando, affascinato dalla ubertosa campagna tropeana, prestava orecchio a quel concerto rurale che, eseguito da vari originali elementi dalle voci diverse, lo spinse a comporre, il 18 aprile 1851,il sonetto "Una sinfonia in campagna":

Il cinguettio del cardellin, l'accento
Monotono del passaro salace,
Del rosignuolo il gorgheggiar, che piace
Più per quanto più meste è il suo lamento.
D'acque il suon roco, il zufolo del vento,
Dalle tortore il murmure loquace,
Il sussurrare in suo tenore tenace.
D'un popolo d'insetti in gran fermento.
Del villan la canzone, il ragghio istesso
Dell'asinello, in questo orto, in queste ore,
Forse all'orecchio dissonanti spesso,
Anno acordo che sentesi dal core;
Poi che dà a sinfonie di tal complesso
Natura orchestra, e la compone Amore.

Fece, con quello, il suo ultimo dolce canto, come aveva fatto il mitico cigno prima di morire.
Infatti, di lì a poco, e precisamente il 17 luglio 1851, le sue speranze di guarire furono spezzate dalla crudeltà del morbo che lo portò alla tomba tra il vivo compianto dei suoi concittadini.
Grandi furono le onoranze funebri rese dai tropeani alla sua salma che ebbe sepoltura nella Cattedrale; inoltre si volle che la sua immagine fosse collocata, e lo è tuttora, nella stanza del Sindaco, accanto a quella di Pasquale Galluppi, tale era la stima che gli si portava.
Due figli illustri di Tropea, simili per la loro profonda fede religiosa, per la loro vasta e profonda cultura e per l'amore verso la loro terra natia, di cui amavano riportare il nome nel frontespizio delle loro opere.
Non passò inosservata la sua morte nè in Italia nè all'estero. Lo pianse tanto l'Accademia Pontaniana di Napoli che lo ricordò nella tornata del 14 settembre 1851 con una orazione funebre fatta dal segretario di quel consesso che così concludeva: "Noi saremo paghi di ricordare il nome di Francesco Ruffa come quello di un valoroso poeta, e non dubitiamo che questo titolo fosse da lui preferito a qualunque altro perchè da molti preteso ma da pochissimi è meritatamente ottenuto".
 

NOTA
1 Il 14 aprile 1833 Ferdinando II venne a Tropea dove poi, in gran segreto, ritornava spesso per trovare un pò di pace nel convento dei padri Redentoristi che raggiungeva mediante la scala intagliata nella rupe rocciosa, allora lambita dal mare.