S. Angelo di Drapia. (da destra) Don Gerardo Ruffa, Mons. Felice Cribellati e don Giulio Spada
con il primo gruppo di bambini ospitati a 'Villa Felice' nel 1951.

Ricordo di Don Gerardo Ruffa
 

Di Saverio Di Bella

(da 'Una vita per gli altri', scitti e testimonianze per il 50° di sacerdozio
di Mons. Gerardo Ruffa, Tipografia ITER, Roma, 1987),


Don Gerardo nasce a Drapia il 3 ottobre 1910 da Teofilo e Maria Domenica Ruffa. Inizia i suoi studi presso il Seminario di Tropea e li conclude presso il Seminario di Acireale. Viene ordinato sacerdote da Monsignor Felice Cribellati nella Cattedrale di Tropea il 29 giugno 1937.
Durante gli studi presso il Seminario di Tropea, 1921-1922, don Gerardo incontra Don Francesco Mottola. E' un incontro che ne segna per sempre la vita. Entra da subito nell'opera degli Oblati del Sacro Cuore fondata da don Mottola che lo indirizza al Seminario di Acireale, lo segue negli studi, lo incoraggia e lo stimola in tutte le attività. Don Mottola annunciava così, su <<Parva Favilla>>, all'epoca mensile del Seminario vescovile di Tropea, l'ordinazione di Don Gerardo: <<E' uno dei primi, di quel gruppo, che sotto la lampada del nostro Cenacolo, sentì nell'anima, come un'arsura, i bagliori dell'Ideale, e sognò il Dono Completo>>.
Pochi mesi dopo l'ordinazione, Don Gerardo viene nominato parroco della parrocchia di Santa Lucia in Barbalaconi di Ricadi. Il 4 dicembre 1937 prende possesso della parrocchia cui rimane sempre legatissimo. Pur impegnato in altre attività, svolge le funzioni di parroco fino al 1962 quando viene nominato canonico tesoriere del Capitolo Cattedrale di Tropea. Resta tuttavia alla guida della parrocchia con l'incarico di economo.
Nel 1948 il vescovo di Tropea, mons. Cribellati, affida a don Gerardo l'organizzazione della sezione diocesana della Pontificia Commissione di Assistenza e della Onarmo, Opera Nazionale Assistenza Religiosa Morale Operai. Sono gli anni dell'immediato dopoguerra; sotto la spinta e la direzione di don Gerardo queste organizzazioni costruiscono una vasta reta di centri di assistenza morale e materiale per i lavoratori della diocesi, le loro famiglie, i loro figli. Sorgono in quel periodo i "cantieri di lavoro", le colonie estive e permanenti, le "Pie Unioni" dei lavoratori.
Nel 1951 mons. Felice Cribellati mette a disposizione di don Gerardo la residenza estiva del vescovo di Tropea, sita sulla collina di Sant'Angelo di Drapia. Inizia così l'attività di "Villa Felice", istituto che ha accolto e accoglie centinaia di ragazzi calabresi. Tra i primi ad essere ospitati a "Villa Felice", furono i bambini sfollati da Nardodipace e da Badolato a seguito dell'alluvione del 1953.
L'attività di Don Gerardo ha lasciato un segno profondo in tutta la Calabria. Su questa attività hanno voluto testimoniare quanti - amici, conoscenti, amministratori pubblici, uomini politici - hanno avuto modo di conoscere e apprezzare Don Gerardo e la sua opera.
Nella vita di Don Gerardo un posto particolare ha avuto la famiglia. La "rocca famigliare", come la definisce Pasquale Iannello, che di Don Gerardo è amico fin dall'infanzia; un universo di affetti con il quale Don Gerardo ha sempre mantenuto un rapporto intensissimo.

Ho conosciuto Don Gerardo Ruffa quando avevo nove anni.
Di nome lo conoscevo già: sapevo che era parroco di un paesino del comune di Ricadi (CZ) dal nome bizzarro, così mi sembrava, Barbalaconi, la cui protettrice era S. Lucia, venerata anche dai miei compaesani che vi andavano in pellegrinaggio, a piedi, superando fiumane travolgenti, lungo sentieri stretti e irti.
Il nome di Barbalaconi era legato, nel parlare dei miei familiari, a quello di Lampazzoni di cui era parroco mio zio Domenico, u zzu previti (lo zio prete), fratello di mio padre.
I dua paesi distavano tra loro poche decine di metri, mentre poche centinaia di metri distano Drapia, paese d'origine di Don Gerardo, e Gasponi, paese d'origine della mia famiglia.
Contadini i miei, artigiani i genitori di don Gerardo.
Comunità contadine quelle d'origine dei due parroci, comunità contadine quelle dove rappresentavano la Chiesa. Protettore di Lampazzoni era S. Michele Arcangelo (lo è tuttora), noto per avere sotto di sè uno dei più spaventevoli diavoli del circondario:
Noto in famiglia perchè i fratelli più grandi, che lo avevano visto, terrorizzavano i più piccolini minacciando la sua venuta vendicatrice per le nostre monellerie. La fantasia infantile se lo rappresentava orribile, perciò, e lo sentiva come incubo notturno. Soprattutto dopo un sogno fatto da mio fratello Antonio, sogno nel quale il diavolo gli diede un ordine terrificante: Cacciati ssu paru d'arichj e mentiti stu paru di corna! (strappati le orecchie e metti al loro posto questo paio di corna!), per cui la sera dicevamo con più fervore le preghiere, ciascuno in silenzio per paura di essere preso in giro dagli altri, ma tutti preoccupati per quell'oscura presenza capace di insinuarsi nei sogni e che solo S. Michele riusciva a dominare.
Nell'estate del 1949 mio padre mi disse che era venuto il mio turno di servizio presso lo zio prete, che io conoscevo appena. Così come conoscevo appena mio fratello Antonio e mia sorella Rosa che stavano con lo zio.
Era tradizione infatti che i numerosi figli di mio padre Carlo, classe 1884, a coppia, un maschio e una femmina, stessero con lo zio prete: la femmina per aiutarlo in casa, il maschio per fare il chierichetto e fare le commissioni. Ora toccava a me.
Avrei dovuto "dare il cambio" ad Antonio. Appresi la notizia con paura. I racconti che avevo ascoltato dai fratelli maggiori - Domenico da poco ritornato dalla guerra e dalla prigionia, Teresa appena sposata, Giulia che aveva già figli più grandi di me - erano preoccupanti: disciplina ferrea, niente svaghi, repressione del riso e dei giochi, botte ad ogni mancanza, le orecchie che crescevano a dismisura a furia di essere utilizzate come appiglio per sollevare da terra il malcapitato proprietario, una baracca come casa.
Allora non capivo che un parroco non aveva altra scelta che fare la vita dei suoi parrocchiani e non conoscevo neanche la malizia dei bambini.
Non sapevo che Teresa, cosa allora inconcepibile, era ironica e sfottente anche con gli anziani; che a Giulia il nonno paterno un giorno esasperato lanciò contro un tridente di ferro per infilzarla e la mancò per un pelo, per cui lo zio prete si trovò a domare la piccola pestifera ribelle. Nè sapevo che Domenico si giocava - e perdeva - tutti i bottoni dei pantaloncini per cui ritornava a casa con i calzoni legati con u gutimu (lo sparto); nè che andava in giro scrivendo col gesso, in base a voci incontrollate Giannini Vincenzo ladro, per cui le botte erano, per l'epoca, sacrosante e doverose.
Conclusa così la terza elementare all'inizio dell'estate del 1959 mio padre mi mise sull'asina per accompagnarmi a Lampazzoni.
Da Sciai, la campagna dove stavamo d'estate, ma io come più piccolo avevo il privilegio di scendere la sera al paese e di dormire insieme ai genitori, partimmo.
Attraversammo Brattirò, famoso tra i bambini per la fiera dei SS. Cosma e Damiano, nella quale si vendevano giocattoli e mustazzola (mostaccioli) e per i fuochi d'artificio che si sparavano in onore dei Santi martiri, e cominciammo a scendere verso la fiumara che separa Brattirò da Lampazzoni.
Io già non amavo molto gli asini, perchè i miei fratelli mi sfottevano perchè allevato con latte d'asina, dato che mia madre non aveva latte e durante la guerra non avevamo mucche.
Il gusto sadico col quale l'asina camminava proprio sui cigli del ripido sentiero, il suo fermarsi sapiente sugli strapiombi, il suo allungare il collo per razziare erbe facendo traballare il basto; e soprattutto il suo fermarsi testardo sul ponte in pietra non più largo di settanta centimetri e senza sponde che univa le due rive della fiumara che scorreva sotto, gonfia e minacciosa, mostrando scogli mastodontici e pietre aguzze, me li fece momentaneamente e fulminamente odiare.
Arrivammo finalmente a Lampazzoni.
Il paese mi sembrò piccolo e povero. Più piccolo del mio, povero quanto il mio.
La chiesa riempiva la piazza accompagnata da una fontana col fascio littorio intatto e da un monumento ai caduti della grande guerra sormontato da un'aquila con le ali spiegate.
La casa dove abitava lo zio, una casa in affitto, dato che la canonica era stata distrutta, si affacciava sulla campagna. La cosa mi piacque. Mio fratello Antonio mi istruì rapidamente sul da fare: andare all'orto per la frutta - c'era un pesco favoloso - dare da mangiare ai conigli allevati nella distrutta casa canonica, catturare quelli da uccidere, badare alle galline dello zio e imparare a riconoscerle tra le altre.
Sembra incredibile, ma anche le galline - bianche, nere, chiazzate che siano - hanno una personalità e si possono riconoscere una ad una tra decine di altre apparentemente uguali.
Zio e fratello mi insegnarono anche a servire messa, suonare le campane - a morto, all'armi ecc. - a riconoscere la lingua e i codici che presiedevano al suono.
Permisero anche, insieme alla sorella, che perfezionassi il mio gioco a carte: scopa, briscola, tresette, scopone, non ebbero più segreti.
M'insegnarono a giocare a dama. Vista la mia diligenza, ma anche per necessità, mia sorella Rosa e mio fratello Antonio mi cooptarono infine nelle trasgressioni all'ordine imposto dallo zio.
Avevo notato, infatti, che dalle 1330 circa alle 1600 mio fratello misteriosamente spariva dalla casa. Questa sparizione coincideva con la siesta dello zio.
Osservando notai che appena lo zio si addormentava mio fratello e mia sorella scendevano silenziosamente le scale e aprivano, senza far rumore, la porta: Antonio usciva, mia sorella richiudeva, sempre in silenzio. Alle 1600 in punto si ripeteva l'operazione inversa: mia sorella, sempre nel più rigoroso silenzio - le scale venivano scese e risalite scalzi - apriva la porta e Antonio rientrava, sicchè lo zio al risveglio trovava tutto in ordine.
Ebbi anch'io il permesso di uscire con Antonio come premio per stare zitto e anche perchè afferrai al volo il dato più importante: dovevo allearmi con qualcuno. Antonio sarebbe partito per ritornare in famiglia, io sarei rimasto con lo zio e la sorella. Scelsi la sorella.
In quelle ore di libertà ebbi la possibilità di apprendere molte cose. Conobbi ragazzi di Lampazzoni che aspettavano Antonio per giocare: a pirrocciolo, a tringa o suruci, a muntirussu. Per andare a nidi. Appresi che come nipote del prete avevo dei poteri e quindi dei privilegi: fare suonare le campane, fare entrare in chiesa o in sacrestia i compagni per sfuggire alle ire dei genitori maneschi, cooptare nella caccia ai nidi d'uccelli che numerosi sceglievano il campanile e il tetto della chiesa per i nidi, i compagni con i quali legavo meglio.
Conobbi anche i viottoli e le scorciatoie che portavano ai paesi vicini.
Capii così come la conoscenza dei luoghi fosse utile per guadagnare tempo da dedicare ai giochi, quando lo zio - e capitava spesso - ci spediva per commissioni varie, nei paesi vicini.
Colsi ancora meglio che al mio paese l'importanza dei soprannomi per individuare subito la persona cercata: u sergenti, masticabrodu, furmicula russa, u papa, giacchetta, u zerfinu, u mulinaru, l'africanu, u madonnaru, u colonnello, ecc. erano conosciuti da tutti.
Nomi e cognomi si ripetevano invece e portavano a confusioni incredibili.
Capii infine che c'erano delle cose che non andavano dette, ma fatte. Ci accorgemmo un giorno, io mio fratello e mia sorella, che nella siepe che recingeva l'orto era stato aperto un varco e rubata della frutta (pesche). I confinanti erano due e solo i loro figli avrebbero potuto praticare il varco.
Prima di chiuderlo, perciò, effettuammo una ritorsione analoga rubando delle pannocchie di granturco imparzialmente ai due vicini e mangiandole abbrustolite. I furti cessarono. A scusante nostra e di chi aveva preso le pesche c'è da dire che nei nostri paesi la frutta la si dà a chi la chiede e quindi è ridicolo rubarla. E anche che prendere della frutta per mangiarla sul posto, pur in assenza dei padroni ai quali chiedere il permesso, non è ritenuto furto.
Così stavano le cose quando mio fratello partì per rientrare in famiglia e Don Gerardo venne a farci visita per salutare Antonio e dare il benvenuto a me.
Avevo già conosciuto il parroco di Ricadi, abati Sibiuni (Abate Scipione), il parroco di Spilinga, abati Micheli (Abate Michele); avevo conosciuto anche uno strano prete senza parrocchia, abati Cicciu (Abate Francesco), noto per essere amante della caccia e appassionato di gatti selvatici in salmi e al quale la voce comune attribuiva una analoga passione per i gatti domestici. Erano tutti, tranne don Michele, parroci o preti anziani.
Don Gerardo mi apparve giovanissimo, con una veste nuova e linda che contrastava con quella odorosa di tabacco da naso o da pipa, dei parroci anziani. Una veste non sempre pulita e spesso rattoppata.
Qui, per non creare impressioni sbagliate, debbo dichiarare subito il mio amore e la mia riconoscenza per i parroci.
I parroci mi hanno insegnato molte delle cose che so e che ancora oggi mi sembrano importanti.
Erano poveri tra poveri, anche se rispetto alla povertà degli altri apparivano benestanti per il fatto che mangiavano pane di grano e carne più spesso degli altri o tutti i giorni.
E' alla loro quotidiana presenza e al loro ignoto diuturno sacrificio se una società misera e violenta - e violenta perchè misera, spesso - non si è avviatata su se stessa autodistruggendosi.
Sono coloro che hanno combattuto superstizioni e magie, insegnato a scrivere a chi voleva apprendere, prima che lo Stato riuscisse a creare scuole in ogni comune (in Calabria ciò si relizzò sotto il fascismo).
E soprattutto sono loro che hanno fornito una dimensione della presenza che aiutasse a vincere il soffrire dei giorni a uomini per i quali la vita non offriva se non fatica, fame, dolore e un ribellismo sterile e violento.
Certo lo facevano alla luce della cristiana rassegnazione, dell'accettazione della volontà di Dio: ma quando un prepotente infieriva sui poveri, sugli sfruttati, sugli umili, solo la loro voce tuonava contro, a ricordare che Dio della misericordia è anche Dio della giustizia e persino della vendetta. E questo in chiesa, durante la messa solenne, con nomi e cognomi perchè tutti sapessero da che parte stava Dio.
Affinchè nessuno ignorasse che il Cristo così buono da farsi carico dei peccati di tutti noi e da farsi mettere in croce senza annientare gli assassini, era stato capace di cacciare a colpi di corda dal tempio mercanti e profanatori. Mi piacque subito e mi piace ancora questo Cristo che mena le mani e amai subito questi preti non ferrati sul piano teologico - come constatai in seguito - ma capaci di discernere tra pecore e lupi e di schierarsi senza esitazioni con le pecore. Non senza rischi, come scoprii in seguito perchè bastonare questi preti nella Calabria dell'inizio del secolo, su mandato di signorotti locali, non era infrequente.
Per cui - e anche questo mi piacque - scoprii che alcuni di loro avevano portato per anni sotto la tonaca la pistola e che il diffuso amore per la caccia tra i parroci era anche un modo per fare sapere a tutti che la casa parrocchiale aveva un fucile e che chi l'abitava lo sapeva usare.
Scoprii anche che qualcuno di loro, abati Saveri (Don Saverio Di bella) parlava e scriveva di socialismo e che per questo era stato privato della parrocchia - che era stato lui a fondare dopo la guerra, la sezione del PSI al mio paese ed a me, che non sapevo ancora nulla del PSI, di don Sturzo, della Rerum Novarum, del cristianesimo sociale, questo fatto parve straordinario. Ed è certamente a queste sollecitazioni che io debbo la nascita dei sentimenti e delle idee che, più tardi, ma giovanissimo, mi spinsero a scegliere il socialismo e poi il PCI.
Don Gerardo mi apparve subito diverso, rispetto agli altri parroci. Non solo per il vestire. Era colto, era vicino al vescovo, aveva scelto di organizzare asili, di aiutare orfani o ragazzi nati in famiglie inesistenti o da ragazze madri, o con genitori in galera.
Aveva adattato a questa scelta la sua casa natale a Drapia, stava lavorando a S. Angelo di Drapia per riadattare i locali del vecchio seminario alle nuove esigenze.
Era un prete che usava la macchina quando gli altri camminavano a piedi o a dorso d'asino o sui carri da buoi. Che parlava con i politici, che voleva luce elettrica e telefono.
Fatto decisivo per me, era parroco che aveva una biblioteca non limitata ai testi sacri. Avevo già letto Bibbia e Vangeli, Vite dei santi e panegirici. Don Gerardo mise a mia disposizione la sua biblioteca.
Fu da lui che corsi nei pomeriggi afosi delle estati, mentre lo zio dormiva, per prendere in prestito libri e fu lui che diede ordine ai familiari di lasciarmi prendere tutto quello che volevo, anche in sua assenza. Aveva capito la mia passione.
Fu attraverso i suoi libri che esplorai l'Africa e l'Europa, l'Asia e le Americhe, che conobbi l'Avventura e l'invenzione, la fantasia e la cronaca, la letteratura e la storia.
Passioni incentivate da mio zio che, naturalmente, si accorse dal fatto che passavo a leggere libri sempre diversi e che d'inverno mi leggeva, a sua volta, in spagnolo le avventure del Piarata Nero (E. Salgari) per farmi capire l'importanza delle lingue e la bellezza della lingua di Cervantes, da lui appresa quando fece il missionario in Argentina, ai primi del Novecento.
Decisivo per la mia formazione fu anche l'incontro con un maestro elementare d'eccezione: Agostino Pugliese che a sua volta incentivò la mia passione alle letture e che già in quarta elementare mi fece scoprire Dante: il Conte Ugolino, la porta dell'Inferno, Caron demonio, Farinata entravano di prepotenza nei miei orizzonti culturali dilatandoli a dismisura.
Finite le elementari rientrai in famiglia per andare alle medie.
Unico su dodici fratelli potei così appagare la mia passione per lo studio. Anche alle medie furono le biblioteche di due parroci - Don Domenico De Vita e Don Lo Torto - ad alimentare la mia passione per la cultura. Incontrai il romanzo russo dell'800, Goethe, l'illuminismo, le Mille e una notte, la Rivoluzione francese...
Persi di vista Don Gerardo. Me lo ritrovai indirettamente sui banchi di scuola del ginnasio attraverso la figura di Peta, un giovane della colonia di S. Angelo (oggi affermato geriatra a Bologna) che Don Gerardo manteneva agli studi, avendone inuito le capacità.
Me lo ritrovai in politica attraverso le battaglie fatte con il nipote Teofilo, che come me, per strade sue, era diventato prima socialista e poi comunista.
Me lo ritrovai Don gerardo fraternamente vicino, tenero e silenzioso avendo capito il mio carattere, quando morì lo zio.
Fu come morisse una parte di me, un altro padre. Solo alla morte mi resi conto di quanto bene volessi a questo zio burbero e affettuoso e anche di quanto gli dovevo.
Mi ricordo di come s'illuminò vedendo venire a dargli l'ultimo saluto il vescovo, che lui aspettava senza dirlo, come se peccasse di orgoglio desiderando che il vescovo andasse da un parroco morente.
Come se fosse un premio immeritato quella visita. Ma che, se si fosse realizzata, sarebbe stata anche la testimonianza del fatto che il Signore ne aveva apprezzata l'opera, ne aveva perdonato i limiti.
Avevo già visto quella luce negli occhi di un morente.
L'avevo vista in una grigia giornata d'inverno quando, per la prima volta, avevo fatto da chierichetto allo zio per portare i sacramenti a una moribonda.
Dopo qualche chilometro di fango e acqua con me che suonavo il campanellino per annunciare il passaggio del Santissimo e dell'olio santo ai contadini che sotto l'acqua lavoravano e che al suono si segnavano interrompendo il lavoro, con le donne anziane che si inginocchiavano sulla nuda terra, entrammo in un casolare cadente.
In un angolo, su un mucchio di paglia, coperta di stracci insufficienti a coprire il minuscolo corpo, rantolava una donna che mi parve vecchissima.
Quando percepì la presenza del prete tentò di sollevarsi e si illuminò. Si sentiva sicura: moriva in grazia di Dio, col prete vicino e tutti i sacramenti. Non a tutti i poveri contadini che abitavano in campagna questo era concesso: spesso morivano prima che il parroco arrivasse.
Fu allora che capii che comunque per me non bastava che qualcuno consolasse i poveri in punto di morte: occorreva che durante la vita venisse combattuta la miseria.
Non volevo più vedere o sapere che un uomo, una donna, un essere umano poteva vivere e morire per terra, sulla paglia, come un cane.
Al funerale dello zio parteciparono in massa gli ex parrocchiani, in particolare quelli di S. Giovanni di Zambrone, che vennero con le congreghe. L'abito tradizionale venne indossato dai confratelli, a testimonianza di un legame d'affetto che nè gli anni nè la lontananza avevano allentato. Fu un atto d'amore di cui sarò perennemente grato proprio perchè nato dal cuore.
Mi ritrovai Don Gerardo egualmente vicino, qualche anno dopo, quando, alla vigilia della laurea, morì mio padre.
Era difficile accettare il venir meno della figura paterna nel momento in cui un'intera famiglia aspettava che si realizzasse il sogno di anni e di sacrifici collettivi: che uno si laureasse, che compensasse, in parte, la pena delle sorelle più grandi analfabete per mancanza di scuole, per una mentalità e un modo di vivere che avevano penalizzato le donne.
Non lo avrei più visto partire all'alba, col fucile che fuorusciva dal mantello a ruota, alto e dritto, i lunghi baffi bianchi, a passo sicuro attraversare viottoli e boschi quotidianamente per andare in campagna, a Sciai.
Non lo avrei più potuto seguire, silenzioso, in attesa che il fucile sparasse contro qualche tordo, qualche beccaccia, qualche merlo che io andavo a raccogliere felice, in attesa di avere l'età per andare a caccia da solo.
Restavano i ricordi, un esempio di dirittura morale, la testimonianza di vita e di lavoro di un uomo che non aveva mai contato le ore di fatica.
Di uno che a Caporetto non aveva buttato il fucile, che aveva fatto la ritirata armato e che sul Piave aveva lasciato una parte del proprio corpo e del proprio sangue, ma non parlava mai della guerra se non per condannarla.
Don Gerardo venne ad assistere alla laurea. Ci venne anche don Michele Lojacono, parroco del mio paese, ci venne don Domenico De Vita, parroco di Tropea.
Furono gli unici non consanguinei presenti alla cerimonia.
Credo che questo basti da solo a testimoniare come vivessimo il legame affettuoso che ci univa e ci unisce.
Mi rendo conto che il tipo di ricordi che rievoco si riferisce più a momenti tristi che a momenti lieti della vita.
Ma io sono convinto assertore della validità dell'adagio che è nel bisogno che si riconosce un amico.
E nessun bidogno è paragonabile - o pochi lo sono - alla crisi della spartenza dei propri cari.
Intanto passavano gli anni. Io iniziavo la mia carriera universitaria che Don Gerardo ha sempre seguito con partecipazione fraterna. Iniziavo a fare una intensa attività politica e sindacale.
Nel 1970 ci incontrammo, sulle cose da fare e ferme restando le differenze ideali, anche su questo terreno.
A Drapia si creava infatti una situazione nuova in assoluto: il Comune veniva retto da una amministrazione da "compromesso storico" ante litteram.
Io ero l'Assessore anziano.
Perchè una parte del mondo cattolico, la più sensibile al messaggio di Papa Giovanni, accettasse la novità si rivelò preziosa l'opera di Don Gerardo e di un altro parroco, quello di Caria, don Anastasia.
Non fu difficile incontrarsi: mancavano scuole, fognature, acqua, illuminazione pubblica nelle frazioni e specialmente nelle campagne.
Era ridicolo perdere tempo in sterili contrapposizioni quando occorreva rimboccarsi le maniche e agire.
Si vide allora per gli uffici pubblici - Provveditorato alla PI ed ai LLPP, Ministero della PI e Ministro (on. Misasi all'epoca) ecc. - una strana coppia formata da un prete e da un comunista che chiedevano con forza finanziamenti per opere assistenziali.
E li ottenevamo.
Intanto avevo avuto l'opportunità di conoscere meglio le cose che Don Gerardo aveva fatto e progettava per S. Angelo.
Mi colpì subito non tanto la cura per l'infanzia indifesa o colpita dalla vita e dagli uomini (già conoscevo abbastanza questi aspetti), quanto l'amore per la natura e per le piante dimostrato da Don Gerardo.
Confesso che il mio affetto per Don Gerardo crebbe ancora quando vidi piante di ulivo lasciate intatte in mezzo alle strade dei viali di S. Angelo e con sacrificate al culto violento delle macchine.
La pianta sacra a Minerva e che forniva l'olio santo ai credenti era tutelata con amore.
A me, che amo gli ulivi più di qualunque albero al mondo, questo fatto faceva scoprire affinità insospettate.
Mi piacque inoltre la larghezza di vedute e il gusto col quale Don Gerardo fece progettare il bellissimo ostello della gioventù, luminoso, vivo, moderno.
Una delle poche testimonianze in tutta l'area gravitante su Tropea di come si possa costruire senza deturpare la natura.
Un esempio che purtroppo è un'eccezione in una zona devastata dal costruire selvaggio e orripilante di avventurieri del turismo di massa.
A S. Angelo ed a Don Gerardo sono legate tante ore di svago - andavamo a giocare a calcio nel campetto della colonia - e di discussioni serene su tanti problemi: cultura, politica, scienza, medicina... con altri ospiti e amici che specie d'estate sulla collina trovavano ristoro.
E' legato anche un episodio che mi piace ricordare.
Dopo anni di sede vacante, a Tropea viene nominato un nuovo vescovo che unisce le diocesi di Nicotera e Tropea a quella di Mileto, Monsignor Cortese.
Viene in visita a S. Angelo: io debbo rappresentare l'Amministrazione comunale ufficialmente. Qualcuno della Curia mugugna, conoscendo la mia collocazione politica. Tra i presenti c'è un certo imbarazzo.
Finalmente arriva il vescovo e, tra la sorpresa generale, rappresentante del comune e vescovo si abbracciano.
Monsignor Cortese era un monaco che a lungo aveva soggiornato a Tropea e col quale spesso avevamo discusso lungo la spiaggia di "Marina del Convento", allora semideserta.
Riconoscersi e saltare l'etichetta fu tutt'uno.
Non so come gli altri parleranno di Don Gerardo.
Leggerò con attenzione le loro testimonianze. Io mi sono trovato a dovere parlare più di me stesso, della mia famiglia, di altri sacerdoti, di altri parroci, di un universo di affetti e di esperienze, che di un singolo amico.
Anche di questo però sono grato a Don Gerardo: ho avuto l'opportunità di riconoscere pubblicamente un debito che non si può saldare, come tutti i debiti culturali e affettivi, contratto con più persone.
Ho avuto l'opportunità di dire come io ho visto sentimentalmente e giudico oggi una categoria di persone che nella mia vita è stata fondamentale e che molti boriosamente sottovalutano: i parroci.
Anche oggi me li ritrovo accanto sulla frontiera più difficile e amara sulla quale combatte la sua battaglia di riscatto civile la società meridionale: quella antimafia.
Spesso più malvestiti rispetto ad altri, sicuramente più poveri rispetto a molte altre categorie sociali, con lo stesso sorriso candido e sicuro, con lo stesso intuito nell'individuare le pecore dai lupi, con la stessa fermezza nello schierarsi a favore delle pecore, dei parroci della mia infanzia.
Con in più rispetto ai vecchi parroci la consapevolezza che i vescovi sono apertamente dalla loro parte, oggi.
Può allora un comunista dire apertamente che li ama e li ammira, o dovrebbe tacere per non scandalizzare i benpensanti dell'uno e dell'altro fronte?
Io preferisco parlare, consapevole del fatto che dire ciò che si pensa è un dovere oltre che un diritto e soprattutto convinto del fatto che la verità è rivoluzionaria.

Messina, gennaio 1987