Frontespizio del trattato 'Delle Mascaltie  del cavallo' di Giordano RuffoUN TROPEANO POCO
CONOSCIUTO:
GIORDANO RUFFO
DI CALABRIA
 
 
 

di Giovanni Ruffo
 
 
 





In verità su Giordano Ruffo, vissuto nella prima metà del XIII secolo, non si hanno molte notizie, poichè la sua professione lo portò ad occuparsi quasi esclusivamente di tutto ciò che riguardava i cavalli: l'allevamento, la cura delle loro infermità, l'addestramento per la guerra, la riproduzione, la selezione della razza etc.. Non interessandosi di politica, di amministrazione della cosa pubblica, o di arte militare (nel senso che non fu uno dei generali dell'Imperatore), di Giordano sarebbe arrivata a noi forse solamente la semplice notizia della sua esistenza, in quanto figlio di un alto dignitario di corte, se egli non avesse legato il suo nome ad un trattato di medicina veterinaria, che per molti secoli costituì un sicuro punto di riferimento, anche oltre i confini della sua patria, per ogni cultore di tale disciplina. Alla scarsità di notizie disponibili sul personaggio si aggiunge il fatto che molti noti e stimati genealogisti1 e la maggior parte degli storici - primo fra tutti l'Anonimo, storico dei Principi Svevi2 - lo confusero con un altro Giordano dello stesso casato, suo coevo. Il Giordano di cui mi sto occupando sembra fosse nato a Tropea3, non si sa in quale anno, secondogenito di Pietro (I) Conte di Catanzaro, il quale, ai tempi dell'Imperatore Federico II, fu vicerè e gran giustiziere in Sicilia e Calabria. E' possibile che la madre avesse avuto nome Guida, come asserisce un documento del 1257 conservato nell'Archivio Vaticano, ma di lei non si conosce il casato. A causa della confusione fatta con l'altro Giordano Ruffo, nipote ex fratre del nostro, anche sulla paternità non ci fu mai accordo. Gli storici, attingendo soprattutto allo Anonimo e copiandosi tra loro gli dettero come padre Serio (detto anche Sigerio), che in verità fu suo fratello minore, e come fratello od anche zio Pietro, che in effetti fu suo padre. Per non ingenerare ulteriore confusione, è necessario che io chiarisca le origini non solamente di Giordano ma anche di suo padre Pietro I° il quale fu, a sua volta, costantemente confuso con il nipote dello stesso nome, figlio del suo primogenito Ruggero. Per non allontanarmi molto dal tema propostomi mi limiterò soltanto alla elencazione genealogica,  riportando nelle note la bibliografia4.
Dirò ancora che il fratello maggiore di Giordano**, Ruggero*, Preside del Regno di Sicilia (1235), premorì al padre, mentre il fratello più giovane, Serio***, Maestro, Maresciallo Imperiale, non ebbe discendenti (firnò come testimone, nel dicembre del 1250, assieme a suo nipote Fulcone° (+1266), il testamento di Federico II ed accompagnò a Palermo la salma dell'Imperatore6. Suo nipote Giordano^ si distinse nella guerra contro Manfredi e da questi, fatto prigioniero (1255), nonostante la promessa di aver salva la vita e gli averi, fu fatto morire mazzolato durante la prigionia. L'altro suo nipote Fulcone° il rimatore della scuola siciliana, combattè anch'egli strenuamente nella stessa guerra e, arroccato nei suoi castelli di Bovalino e Santa Cristina, tenne testa all'esercito di Manfredi ben oltre il Parlamento del febbraio del 1256, durante il quale Pietro (I°) Ruffo (+1257) fu dichiarato fellone e privato di ogni dignità e di tutti i suoi averi. Anche il nostro Giordano** non ebbe discendenti diretti ed alla sua morte, che deve essere avvenuta tra il 1253 ed il 1254, non trovandosi più sue notizie dopo tali anni, il suo stato passò, sotto il nome di stato del quondam Giordano, al conte Pietro (I°) suo padre, che a quel tempo era Gran Maresciallo del Regno di Sicilia, Governatore del Re Enrico e Vice Balio di Sicilia e Calabria.
Prima di parlare del libro lasciatoci da Giordano, credo valga la pena di aggiungere altre poche notizie in lingua latina del trattato di Giordano, così ne parla: <<Nato in Calabria da famiglia Equestre, ebbe fin da fanciullo un'indole piacevole e bellissima. Sembrava fatto dalla natura principalmente per l'attività equestre, nella quale, con il passare del tempo, fece tanti progressi che, nel domare e nel governare i cavalli, e nel curare mirabilmente le loro malattie, non ebbe uguale alcuno>>.
Cavaliere molto caro all'Imperatore Federico II ebbe da questi la carica di Maestro dei Cavalieri. Nel 1240 fu castellano in Cassino, fu Signore in Valle di Crati e Terra di Giordano (appunto dal suo nome o dal nome di un suo omonimo antenato, come alcuni affermano).
Intorno al 1250 Giordano Ruffo terminò il suo <<De medicina equorum>>, appena in tempo perchè vedesse ultimata l'opera l'Imperatore Federico, egli stesso autore di un pregevole trattato di falconeria alla stesura del quale sembra che anche Giordano avesse collaborato. La divulgazione dell'opera fu però successiva alla morte dell'Imperatore, avvenuta il 12 dicembre 1250 e ciò si desume facilmente dalla prefazione al libro, scritto dallo stesso Giordano: <<... ego Jordanus Ruffus de Calabria miles in marestalla quondam domini Imperatoris Friderici Secundi...>>. Si apprende altresì dallo stesso testo che l'Imperatore in persona collaborò alla formazione dell'opera con consigli ed aggiunte.
La passione che Federico II ebbe per lo studio delle scienze naturali fu di sicuro aiuto e giovò in vario modo e grandemente a Giordano. Non si fa fatica ad immaginare quanto Giordano abbia potuto servirsi per accrescere, confrontare e completare le proprie conoscenze scientifiche, dei messaggeri che l'Imperatore inviava in ogni parte del mondo allora conosciuto. A tali messaggeri, al tempo in cui attendeva alla compilazione del suo trattato di falconeria, l'Imperatore affidava messaggi e quesiti indirizzati ai più celebri naturalisti dell'epoca, ottenendo notizie e confronti preziosi. Molti considerarono il codice di Giordano l'esemplare più antico di lingua italiana. Secondo quanto riferito da Del Prato e da altri, l'opera originale avrebbe avuto il seguente passo di inizio:
<<Nui Messeri Jiordanu Russu de Calabria volimo insegnari a chelli chi avimu imparatu nella manestalla de lu Imperaturi Federicu chi avimu provatu e avimu complita questa opira nelu nomu di Deu e di Santu Aloi>>.
Molti cultori della materia e tra questi si annoverano storici, medici ed <<eruditi>> dei secoli scorsi, credettero invece che la lingua originale fosse quella latina, sebbene <<barbara e propria di quei tempi>>. Crescenzio, scrittore che visse 50 anni dopo Giordano, trattando delle malattie dei cavalli, riportò parola per parola quanto scritto dal nostro Autore: la lingua usata da Crescienzio fu quella latina!
Io modestamente ritengo probabile che il testo originale sia stato scritto in latino (così come in latino era stato scritto il trattato di falconeria di Federico) e subito tradotto da altri in volgare per permetterne la divulgazione in ambienti meno eruditi. De trattato di Mascalcia scritto da Giordano Ruffo sono arrivate sino a noi numerose edizioni, presenti nelle maggiori biblioteche italiane ed estere, tutte purtroppo con testi più o meno manomessi. Infatti per molti secoli, come più sopra ho detto, il trattato di Giordano fu il solo riferimento per chiunque scrisse sull'argomento. Si può dire che non ci fu autore od editore - e sono stati numerosissimi in Italia ed all'estero - che non abbia apportato aggiunte ed operato mutilazioni al testo originale.
C'è anche chi ha pubblicato il testo stesso con il proprio nome o riprodotto gran parte di esso senza citarne l'Autore.
Nella speranza di poter prendere visione almeno di uno di questi codici dei quali molti parlano, ma pochi poterono affermare di aver letto, almeno tra i contemporanei nostri, ho fatto delle ricerche che ni hanno consentito di poter disporre delle copie fotografiche di alcuni tra i più attendibili codici attualmente esistenti e conservati in Italia ed in Inghilterra.
Tra i volumi che compongono la raccolta di testi rari di scrittori di veterinaria posseduta dal medico Angelo Damiani di Venezia, morto nel 1818, si trova un codice cartaceo del secolo XV°, scritto in volgare Siculo. All'inizio di questo codice si leggono le frasi riportate da Del Prato, che ho prima citato.
Presso la Biblioteca Nazionale Marciana, diretta ai giorni nostri da Dr. Marino Zorzi, si trova il codice <<De medicina equorum>> conservato con la segnatura Lat. VII, 24 (=3677). Di questa opera si sa soltanto che appartiene alla raccolta settecentesca di Giacomo Nani. Il dott. Hieronymus Molin, docente di medicina veterinaria presso la Università di Padova, diede alle stampe nel 1818 questo codice nella originale veste latina.
Egli ebbe il grande merito di <<ripulirlo>> di quei molti errori e di quelle <<aggiunte>>, introdotte nel corso dei secoli e che chiaramente non erano appartenute al testo originale.
Operò questa ripulitura nella maniera più corretta e con rigore scientifico poichè consultò tutto quello che riuscì a trovare sull'opera di Giordano e corresse soltanto quei capitoli dei quali potè accertare manomissioni.
La Hippiatria di Hieronymus Molin è, per il suo valore scientifico, la più pregevole edizione del libro di Giordano oggi conosciuta.
Di questo libro esistono presso <<The British Library>> cinque volumi a stampa di due diverse provenienze. La prima, tradotta dal latina in volgare da Frate Gabriele Bruno, ebbe tre edizioni: Venezia 1492; Venezia 1554; Brescia 1611. La seconda ebbe due sole edizioni: Venezia 1561 (Rutilio Borgominiero); Bologna 1561 (Giovanni de' Rossi). Del libro di Giordano un sesto volume a stampa in lingua latina si trova presso questa stessa biblioteca: si tratta di una copia della stessa edizione curata da Hieronymus Molin, della quale ho prima parlato. La lettura di questi testi mi ha consentito di rilevare un errore comune a tre di queste edizioni, inconcepibile in uomini di cultura, quali presumo siano stati Fra Gabrielo Bruno e gli altri due editori. Sono le edizioni: Venezia 1492; Venezia 1554; Brescia 1611.
Lo stesso errore fu rilevato da Molyn nell'edizione in lingua latina da lui emendata. L'errore consiste nell'aver confuso la persona dell'Imperatore Federico II con quella del suo avo Federico Barbarossa!
L'aver rilevato questo errore a me è servito per poter concludere che le tre edizioni citate, pur appartenendo ad epoche diverse, si rifanno ad un unico esemplare in lingua latina: quello tradotto in volgare il 17 dicembre 1492 da <<Gabriel Bruno Venetiano di frati minori maestro in Theologia... >> e dedicato al Conte Zoano Brandolino, condottiero Veneziano. Le altre due edizioni (Venezia e Bologna 1561) fanno riferimento ad un codice posseduto a quei tempi da Messer Bartholomeo Canobio. Di questo codice il tipografo Giovanni de' Rossi scrive testualmente: << ... ho voluto stamparlo nella lingua istessa, che l'Autore l'ha scritto... >>. La lingua alla quale fa riferimento il de' Rossi è il volgare.
Neanche questa <<versione>> del libro di Messer Jordano di Calabria è tratta dall'originale e come le altre contiene evidenti manomissioni, con aggiunte talvolta di scarso o nessun contenuto scientifico ed omissioni di interi capitoli.
Giordano divide il suo libro in sei capitoli: nel primo considera la riproduzione e la nascita del cavallo; nel secondo parla della cattura e dell'arte di domarlo; nel terzo insegna il modo di custodirlo ed ammaestrarlo; nel quarto descrive il <<temperamento>> del cavallo e le <<turbe>> cui può esser soggetto nonchè i criteri per giudicarne la bellezza; nel quinto disserta sulle malattie naturali od accidentali; nel sesto tratta della terapia o dei rimedi più idonei.
Del libro di Giordano esiste, tra i tanti, un codice pergamenaceo, bellissimo, conservato ottimamente, che si fa risalire al XIII secolo (oggi appartiene ad una collezione privata).
In esso si legge: << Questo compose con immensi studi un nobile calabrese, che di tutti i cavalli bene conosceva le medicine: ciascuno leggendo impari..>>.
All'opera di Giordano, che vide la luce in un'epoca di grande risveglio culturale, furono in ogni tempo riconosciuti grandi meriti tanto in campo scientifico quanto in quello profano della pratica quotidiana. Ne cito a caso due: l'avere affrontato per primo problemi di etiologia e di patogenesi delle malattie e quello di pratica utilità, della preparzione dello zoccolo del puledro alla ferratura in età adulta.
L'opera merita certamente un più esauriente commento! E' quello che farò in un prossimo articolo.
 

NOTE
1 POMPEO LITTA, Famiglie celebri italiane; J. W. IMHOFF, Genealogiae viginti illustrium in Italia Familiarum; DUCA PROTO DI MADDALONI, Istoria della casa dei Ruffo; PIETRO GIANNONE, Storia del reame di Napoli; H. BREHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi; F. MUGNOS, Histoire généalogique de la maison Ruffo; FERRANTE DELLA MARRA, Discorsi sulle famiglie nobili; B. CANDIDA GONZAGA, Memorie delle famiglie nobili delle provincie meridionali d'Italia.
2 L'Anonimo sembra essersi chiamato Nicola de Jamsilla, ma ci sono fondati sospetti che non sia mai veramente esistito uno storico di questo nome. Infatti la paternità della Cronaca, secondo A. Karst, deve essere attribuita a tale Goffredo di Cosenza, mentre invece per lo Schirmacher ne fu autore il notaio Nicola da Brindisi e per il Capasso l'attribuzione andrebbe fatta a Nicola de Rocca. Il codice fu riassunto nell'anno 1610 da Ferrante della Marra duce della Guardia e pubblicato nel 1662 da Ferdinando Ughelli in Italia Sacra. Fu anche riportato dal Caruso nella Biblioteca Historica. L'Anonimo fu storico di parte ghibellina e grande nemico e denigratore di Pietro Ruffo, come oggi riconoscono storici e genealogisti e primo tra tutti il Karst.
3 A. MURATORI, Annali d'Italia; T. FAZZELLI, De Rebus Siculis; G. B. CARUSO, Memorie istoriche.
4 L'Anonimo al quale nel corso dei secoli fecero riferimento gran parte degli storici, fu il primo a fare dei due Pietro Ruffo una sola persona. Altri trovando citati l'uno o l'altro Pietro con il predicato al posto del cognome (Pietro di Calabria) alla maniera normanna, ritennero si trattasse di Case diverse da quella dei Ruffo e da ciò derivarono altri equivoci e nuove confusioni. Persino JACOBUS WILHELMUS IMHOF nel suo: Genealogiae Viginti Illustrium in Italia Familiarum fa mensione di un solo Pietro, figlio di Sigerio, e lo fa morire nel 1302. Pompeo Litta, nell'opera già citata, riporta lo stesso errore e così pure fanno il Duca Proto, il Mugnos, il Candida Gonzaga etc.
Per rendere maggiormente evidente l'errore nel quale incorsero tanti illustri storici e genealogisti mi basta far notare che Belladama madre di Pietro Ruffo (II°), vive ancora nel 1289, come si rileva da un decreto regio datato 12 luglio 1289, riportato da Scipione Ammirato, nel quale si stabilisce che vengano pagate <<onze 20 all'anno a Belladama madre del conte Pietro>>.
Belladama dunque, vivente ancora nel 1289, non avrebbe mai potuto essere la madre di quel Pietro già tanto avanti negli anni da essere, nel 1235, Vice Re di Sicilia e Generale comandante le truppe di Federico nella campagna di Lombardia, almeno che non si voglia ammettere che Belladama avesse nell'epoca citata abbondantemente superato i cento anni di età!
Ernesto Pontieri nell'opera <<Ricerche sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII>>, rivede alcuni errori riportati in altri suoi lavori giovanili e mette bene in evidenza la confusione creata intorno ai due Pietro. Egli indica come anno di morte di Pietro (I°) (ucciso a Terracina da un sicario di Mnfredi) il 1257 e dice ancora vivente nel 1309 Pietro (II°). Commette però l'errore, ricavando la notizia dall'Anonimo, di credere che Pietro I° non avesse avuto figli e dando come padre a Pietro II° Giordano invece che a Ruggero. Commette un altro errore dando come padre a Fulcone I° un Giovanni che dice di essere stato fratello di Pietro I°.
Esiste un diploma dell'Imperatore Federico II° del 20 aprile 1235, pubblicato dal Duca Proto di Maddaloni nel 1873 nella sua <<Istoria della Casa dei Ruffo>>, con il quale l'Imperatore concedeva a Ruggero Ruffo, preside di Sicilia, ed a suo figlio (II° ndr), in assenza del padre di Ruggero Pietro (I° ndr) conte di Catanzaro la signoria di Calascibetta.
Il Proto si serve di questo documento per dimostrare l'antichissima origine romana della famiglia Ruffo ed il possesso, da parte della stessa, della contea di Catanzaro prima del 1250.
Il Candida Gonzaga accusa di falso tale diploma adducendo delle argomentazioni forse non prive di fondamento, ma ad entrambi questi Autori, che si sono serviti del diploma soltanto per asserire o negare argomenti di scarso valore pratico, è sfuggito il contenuto genealogico che è il più importante:
Pietro Ruffo (I°) nel 1235 ha un figlio Ruggero, preside di Sicilia, il quale ha a sua volta un suo figlio a nome di Pietro (II°).
Può così essere fatta luce sui due Pietro Ruffo, entrambi conti di Catanzaro, ma il primo vissuto in periodo Svevo ed il secondo in epoca Angioina.
5 La sequenza genealogica da me schematizzata e che pubblico per la prima volta, prende spunto dalle notizie contenute nel diploma dell'aprile 1235, le quali trovano conferma in antichi documenti ed alberi genealogici conservati negli archivi dei vari rami dei Ruffo oggi viventi.
Come ho detto alcuni ritennero falso questo diploma. E falso potrebbe anche essere, come molti altri documenti del XIII e XIV secolo; ma se mai soltanto per i riferimenti alla data di titolarità da parte dei Ruffo della contea di Catanzaro. Sulla origine romana di questa famiglia nulla il diploma avrebbe potuto togliere od aggiungere a quanto fu sempre affermato da storici e genealogisti.
Rimane però da fare un'ultima considerazione sulla autenticità o meno del diploma: se si fa risalire al 1250 la prima investitura della contea di Catanzaro non si riesce a spiegare come mai i Ruffo, in ogni tempo, abbiano potuto intitolarsi <<Dei gratia comes Catanzarii>>.
6 Nel testamento dell'Imperatore Federico pubblicato da P. Ottavio Gaetano, tra le altre firme si leggono: <<Ego... Ruffus de Calabria Imperialis Maresciallus Magister interfui his, et subscribi feci>>; <<Ego Fulcus Ruffus de Calabria his interfui, et subscripsi>>. Della prima firma sembra non si potesse leggere il nome a causa del deterioramento del documento, ma la qualifica di Maestro Maresciallo ci fa pensare subito a Sigerio piuttosto che a Pietro, che si sarebbe invece qualificato come Conte di Catanzaro (ammesso che già lo fosse) e certamente Maresciallus totius Regni Siciliae,
Il Summonte infatti asserisce di aver visto nel testamento originale <<Serii Ruffi...>>.