Tropea. Archivio Toraldo: Padre Giuseppe Toraldo (fotocaracciolo).PADRE
GIUSEPPE TORALDO
 
 
 
 
 

dal "Calendario d'oro"
(1900)






 

Nobile patrizio di Tropea, sacerdote già della Congregazione del SS. Redentore, canonico onorario della cattedrale di Tropea, nato il 17 marzo 1809 in Tropea, figlio del fu Nobile Felice e della fu Nobile Rachele nata Nobile Fazzari.
Muore il 24 aprile 1899 per esaurimento senile in Tropea, dove fu sepolto. Gli sopravvivono il Fratello Nobile Francesco con la sua famiglia, la cognata Nobile Teresa Toraldo, vedova del fratello premorto Orazio, il nepote Nobile Felice sposato alla nobile Raffaella nata Nobile Taccone, e la nepote Nobile Rachele Toraldo, sposata al Nobile Ingegnere Antonio Toraldo.
Il venerando sacerdote di cui si piange la perdita, fu grande teologo, e grande scrittore latino, e fu esempio delle più amabili virtù. Essendo ancor fanciullo di appena tre lustri, volle rendersi Liguorino nel convento di Licata, e fu accompagnato dal dolore dei genitori, massime del padre, il quale in un sonetto gli esternò i sentimenti più teneri e delicati. Del quale sonetto ei serbò memoria perenne in tutta la sua vita. Ma la vita claustrale fu di brevissima durata, conciossiachè un'ostinata infermità di gola, cagionatagli dalla predicazione, lo forzò il dì 20 febbraio 1843 a ritornare in grembo della sua santa famiglia. Egli in tutta la vita sì di buon animo e compitamente rappresentò il buon sacerdote, che niuno, toltasi quella professione ha potuto esercitarla con più gravità e decoro. La quale lode non è punto volgare; perocchè vivere in mezzo agli uomini con leggi superiori alla natura, frenare e reggere gli appetiti, e nelle cose che gli uomini con più impeto desiderano, temperarsi a mediocrità, è proprio di animo forte e grande.
Ma se egli rappresentò il buon sacerdote con gravità e decoro, fu ancora esempio ammirando di vita operosa; conciossiachè invitato dal suo vescovo Michelangelo Franchini col lusinghiero scritto del 19 novembre 1853 a riordinare gli studi del seminario della sua città natale, v'insegnò per molti anni e gratuitamente, teologia, morale dommatica e lettere latine e greche. E di quanto utile sia stato cagione con l'insegnamento, è noto a tutti coloro che furono da lui ammaestrati. I quali discepoli gli resero sempre pubbliche lodi per la vastità della sua dottrina, per l'acutezza dell'ingegno e pel suo stile florido ed elegantissimo tanto nella prosa, quanto nella poesia latina.
Nè la sua attività si limitò all'insegnamento soltanto; perocchè ei sotto i vescovi Franchini, Desimone, Vaccari e Taccone fu nella diocesi di Tropea e Nicotera Presidente della Commissione destinata ad esaminare i concorrenti per le cariche ecclesiastiche. Ed i concorrenti erano ben lieti di un sì eccellente esaminatore, il quale essendo nello stimare gli ingegni e gli studi altrui liberali, non proponeva mai quesiti enigmatici, che sogliono essere proposti dagli esaminatori di mezzano e servile ingegno, ma proponeva quesiti, che alla ragione umana ed alla intelligenza dei più erano conformi, e quando nel 1857 fu nominato procuratore delle monache di S. Chiara di Tropea, egli non solo amministrò per molti anni e senza il minimo fine di utile le loro finanze, che poteva benissimo esser additato quale modello tra le molte maniere diverse di encomi.

La suggestiva composizione grafica (originale in Archivio Toraldo-Serra) dei fratelli Carlo e Giuseppe Toraldo
così come uscì sul "Calendario d'oro" (anno 1900), in occasione della morte di Giuseppe, a corredo dei loro cenni biografici per far
"cosa gradita alla famiglia, che desidera vedere riuniti in uno stesso volume i ricordi di questi suoi due cari".
Il cenno biografico di Carlo (m.20.1.1897) era già apparso nel periodico araldico nell'anno 1898.

Quell'anima nobilissima ignorò affatto l'invidia e credette sincerissimamente in Dio; del quale pochi dì prima di morire giacendo gravato da novanta anni e da lunga prostrazione di forze, della quale morì il 24 aprile 1899, parlò con tanta lucidità di mente che certo dovettero rimanerne attoniti tutti gli astanti. Disse che gli uomini non hanno altra idea positiva di Dio, che quella di causa, e che essendone il resto delle nozioni puramente negativo, per essere Dio fuori del tempo e dello spazio, le medesime nozioni debbono ritenersi come tentativi, per formarsi un concetto della divinità. E chiamò empi quei professori, che per questi tentativi venissero dettando dalla cattedra al volgo essere falso il Dio del suo concetto, perchè, disse, toglierebbero ai loro simili la nozione che essi possono avere di Dio, senza che ne sostituissero una migliore.
Veramente fu singolarissima la modestia, che lo accompagnò sempre in tutta la sua vita, Imperocchè sempre rifiutò ogni carica ed ogni onora, che nella sua patria dai suoi Vescovi gli venne offerto, ed anco non accettò un Vescovato con grande sollecitudine offertogli da S. P. Pio IX, alla cui notizia erano già pervenute le sue rare virtù ed i singolari suoi meriti, e così egli si stette contento al mediocre sacerdozio che tenne nella patria.
Fu latinista esimio. Gli autori latini che più predilesse, furono Orazio e Virgilio, dei quali si rese emulatore, e da cui imparò quella sublimità di stile, che regna delle sue opere. Nelle quali, massime nella traduzione della Gerusalemme Liberata del Tasso in versi esametri latini si ritrova la copia, la finezza, la varietà, lo splendore, la squisitezza e la gravità virgiliana ed oraziana. Lo stile era un'arte a lui cara molto e molto studiata.
Gli amatori delle lettere latine impareranno certo, in qual modo si debbano studiare i classici del Lazio.
Ammirabile fu poi la sua pietà verso il prossimo, perocchè ben sapendo che la medesima è la religione più accetta a Dio, e la più raccomandata ai cristiani, vi si fu esercitato continuamente non a guisa dei farisei, ma secondo il precetto Vangelico, che prescrive che nel beneficare non sappia la mano sinistra ciò che faccia la destra. Chiunque da malignità fortuna percosso, aveva in lui sicuro ed amoroso rifugio. E come testimone della sua beneficenza basta citare il donativo di cui fu liberalissimo verso l'ospedale della sua città natale. Che se la sua beneficenza è sommamente da commendare, che si dee dire di quei purgatissimi e soavissimi costumi che tanto abbellirono la sua virtù? Imperocchè ne fu tale la severità, che uno storico dell'antichità l'avrebbe certo con stupore ammirato. E certo sì austeri costumi gli procacciarono quella sicurtà della coscienza intima che gli diede sì placida ed invidiabile fin di vita. Laonde nessun terrore, nessun lamento l'accompagnò al passo, donde non fu mai ritornato, ma egli entrovvi con serena tranquillità, con umil fiducia in Dio, cui sempre aveva temuto, cui sempre avea onorato col cuore in tutta la vita. E non è da dubitare che Dio l'accolse nella eterna pace, nella compagnia dei buoni e nella immortale felicità. Ma i suoi soavi costumi furono amati cordialmente da tutti; furono amati in vita, e meglio ancora nella sua morte; perocchè, quando il corpo si riportò alle esequie, l'accompagnò una moltitudine dolente.
Ogni sacerdote, se cura di vivere caro a sè medesimo, caro alla religione, riceva nell'anima l'immagine di lui, e voglia gli venga d'imitar le sue virtù.