Giuseppe Maria Toraldo in un dipinto ottocentesco (Casa Toraldo Serra - Tropea).

La traduzione latina
di Giuseppe Toraldo
della Divina Commedia
 

di Salvatore Libertino


Don Peppino Toraldo, classe 1809, era troppo innamorato del mondo classico fino a sentirsi parte integrante di esso. Pochi amici ma buoni, una passeggiata ogni tanto per le vie del paese, intere giornate rintanato dentro il suo studio per nutrirsi di tutto quello che di antico poteva contenere la monumentale biblioteca di famiglia. Schivo di ogni clamore propagandistico e sempre lontano da onori e ambizioni, era un uomo semplice e modesto come la sua indole che lo accompagnò per tutti i suoi ottantanni di vita retta e esemplare. Ma ciò che avvertiva di più di quel mondo lontano ma a lui così vicino e congeniale era un'autentica predilezione verso la lingua dell'antica Roma. Un vero debole. Una passione avuta da sempre, assorto e estasiato delle odi di Orazio e della musa di Virgilio fin dai tempi da quando ragazzino sedeva sui banchi del seminario, dove poi si sarebbe insediato sulla cattedra di professore di greco. Ed è proprio dell'idioma virgiliano, di cui subì il fascino irresistibile del ritmo dell'esametro dattilico catalettico, che verrà un giorno proclamato indiscusso principe, poeta, artista. Una convincente conferma la si può trovare nei suoi scritti che miracolosamente sono pervenuti a noi. Opere che per sua modestia non sono mai state pubblicate in vita, come la traduzione della tassiana "Gerusalemme Liberata" data alle stampe l'anno dopo della scomparsa, avvenuta in patria per esaurimento senile il 24 aprile 1899, su interessamento del nipote Marchese Felice Toraldo (1860 - 1924), il quale tra l'altro vi scrisse un'accorata prefazione chiedendo venia al lettore di averlo fatto in lingua italiana.
In ogni caso, alla posterità non aveva mai pensato. Per lui quello che andava scrivendo, componendo, traducendo era solo diletto intellettuale, amore al bello, culto della classicità. Niente altro che questo. La volontà di rendere ancora operosa la propria mente di canuto vegliardo. E lo dice espressamente nel Prologus della sua Hierosolyma nell'idioma più congeniale, virgiliano:

non ego sum vates, anser verum inter olores,
conditor et rudium tantummodo versiculorum

Mentiva? Può darsi di no. Eppure l'inestimabile valore culturale della sua opera è stato evidenziato a chiare lettere dalla nutrita e illustre schiera di critici che vollero unanimi esprimere a favore dell'insigne autore tropeano attestati di stima e lusinghieri consensi in innumerevoli pubblicazioni, saggi, articoli, a cominciare dal Pascoli che di latino era chiarissimo luminare e che da Messina, a cavallo dell'800/900, aveva scritto alla famiglia Toraldo due lettere di ammirazione. E pare che sia del poeta di San Mauro una timida testimonianza letteraria, da approfondire, che lo farebbe presenziare nella nobile cittadina ai funerali dell'illustre tropeano: un componimento dedicato al Toraldo trovato tra le carte del Palazzo, un "sonetto estemporaneo dettato mentre se ne trasportava il cadavere al cimiterio". Delle numerose pubblicazioni ne citiamo solo qualcuna: F. Fava, Torquati Tassi Hierosolima Liberata a Joseppo Toraldo Felicis Filio e versibus italici in latinos conversa in <<Rivista Storica Calabrese>>, 1900; E. Springhetti, S. J., L'ultimo traduttore latino della "Gerusalemme" del Tasso, in <<Civiltà Cattolica>>, dicembre, 1950; G. Funaioli, Una ignorata traduzione latina della "Gerusalemme Liberata", in <<Docete>>, anno VII, n. 3, dicembre, 1950; A. Bacci, Un insigne umanista dell'Ottocento: Giuseppe Toraldo, in <<Docete>>, luglio-agosto 1950; lo stesso nell'<<Osservatorie Romano>>, 1* maggio, 1949; V. Ussani, in <<Idea>>, 6 agosto 1950; L. Costanzo, ib., 28 maggio 1950; P. Bruno, in <<Il Giornale della Sera>>, 11 gennaio 1950; Fr. Schipani, in <<La libertà d'Italia>>, 12 maggio 1950; O. Tescari, in <<Scuola e Cultura>> 15-31 luglio 1950; Ceccorius, in <<Il tempo di Lunedì>> 17 aprile 1950; Balbino Giuliano, in <<Il Giornale d'Italia>>, 25 febbraio 1950; G. Ambrosi, in <<Il Popolo>>, 25 agosto 1950; G. Morabito, in <<La voce di Calabria>>, 15 luglio 1950; G. Cassiani, in <<Battaglia Calabra>>, 20 agosto 1950; S. Foderaro, in <<Il grido della Calabria>>, 30 agosto 1950; Carmine Cortese, Giuseppe Toraldo (umanista tropeano) in <<Parva Favilla>>, 1950; L. Guercio, in <<La fiera Letteraria>>, 18 febbraio 1951; G. De Luca, in <<Il Messaggero di Roma>>, 4 maggio 1951. La massiccia attività di critica letteraria, tutta a favore di don Peppino, era finalmente uscita al largo in occasione del cinquantesino anniversario della pubblicazione della traduzione dell'opera tassiana, come per compensare l'inspiegabile silenzio durato mezzo secolo. Silenzio che subito dopo ha ripreso ad avvolgere come nebbia del più cupo e desolante inverno una risorsa culturale a grande respiro nazionale, ancora da studiare, da analizzare, da approfondire, da assaporare, a cura degli studiosi o semplicemente degli amanti delle cose belle.
Fu ancora Felice Toraldo a prodigarsi, qualche decennio dopo la scomparsa dello zio e immediatamente prima che lo cogliesse morte improvvisa, di trascrivere parte dei testi manoscritti concernenti la traduzione di quattro canti dell'Inferno dantesco, III, X, XIII, XIV, e del "Cinque Maggio"1 del Manzoni, pubblicati - anche con il contributo del pronipote Mons. Carlo Emanuele Toraldo - nel periodo che va dal 1921 al 1939 su "Alma Roma", nelle cui pagine ci si esprimeva unicamente in latino compresi gli avvisi editoriali. Poi sulla traduzione della Commedia di Dante non si seppe più nulla. Si pensò che l'opera di traduzione fosse limitata ai canti pubblicati o si suppose che i manoscritti relativi alla traduzione dell'intera Commedia fossero andati inesorabilmente perduti.
Mons. Giuseppe Lojacono, vescovo di Ariano Irpino (1918 - 1939), tropeano purosangue e allievo del Toraldo già attempato, in una lettera inviata nel 1935 a Mons. Carlo Emanuele Toraldo, ricorda la grande stima nella quale la figura del prozio era tenuta in considerazione dal vescovo, dal clero e dal popolo. Quella sua immagine tanto paterna quanto carismatica di educatore lo ha fatto amare a molte generazioni di giovani. Tanto che quando per ragione di età e di malattia non si è più potuto recare, anche se a due passi da casa, al Seminario, il vescovo volle che i seminaristi andassero a casa sua a prendere ripetizioni di greco. Ed era inevitabile che durante gli incontri il Nostro ottemperasse a metà alle aspettative del vescovo dedicando non poco spazio alle odi di Orazio che recitava a memoria e, pregato dagli stessi allievi ammaliati dal grande fascino del maestro, alla traduzione della Gerusalemme Liberata. E fu in questo contesto che Mons. Lojacono ricorda di aver percepito dallo stesso Toraldo un timido cenno sulla traduzione, già da tempo avviata, della Commedia dantesca. Lui era così, sempre schivo di ogni forma di pubblicità e onorificenze, tanto che il vescovo riuscì a stento a fargli accettare il canonicato onorario della Cattedrale, di cui indossò solo una volta le insegne nei vespri della festa della Madonna di Romania e in quella occasione stava rannicchiato nello stallo, come se la mozzetta rossa gli desse fastidio. Prima ancora aveva rifiutato un Vescovato con grande sollecitudine offertogli da Pio IX, al quale era già pervenuta la notizia delle virtù e dei meriti del tropeano. Aveva detto di no. Gli bastava la non certo esaltante carriera sacerdotale, di cui andava fiero e che preminentemente si sviluppò in patria, ma che gli dava modo di continuare ad applicarsi agli studi sul mondo classico, che, in cambio, gli davano un profondo senso compiuto alla vita quotidiana.
Ecco le tappe ecclesiastiche di Don Peppino come risultano nei registri dei Redentoristi di cui faceva parte. Nato il 17 marzo 1809; vestito il 16 luglio 1825; professo il 30 marzo 1826 in Corigliano; ordinato in minoribus il 5 giugno 1830 in Manfredonia; suddiacono in minoribus il 21 novembre 1830 in Lucera; diacono il 19 marzo 1831 in Ariano Irpino, dove diviene sacerdote il 21 aprile 1832 nelle mani del vescovo Domenico Russo; il 26 ottobre 1842 chiede dispensa per motivi di salute; il 19 novembre 1842 richiede la dispensa; il 17 dicembre 1842 richiede dispensa nonostante le premure del rettore Maggiore Ripoli; l'11 gennaio 1843 protesta energicamente di non aver mai chiesto dispensa per attaccamento ai parenti; l'8 febbraio 1843 sollecita dispensa perchè si accrescono i disturbi; il 28 febbraio 1843 riceve e sottoscrive la dispensa per acciaccata salute.
Di Padre Toraldo e del suo Opus Maximum si era già occupata più volte TM pubblicando la biografia tratta dal 'Calendario d'Oro' del 1900 ed il saggio di Antonio Bacci, insigne latinista, che nell'occasione si chiese dove fossero andati a finire i manoscritti sulla traduzione della Divina Commedia.
E finalmente a tale proposito ci rasserena la recente notizia del ritrovamento di tutta la raccolta manoscritta, ora custodita nel sicuro forziere di un archivio privato tropeano. Ci si augura che l'intera opera dantesca tradotta in latino possa al più presto essere pubblicata rendendola accessibile ai cultori dell'antica lingua romana. Ma questo non può bastare. E' doveroso aggiungere che l'edizione della Gerusalemme, fatta eseguire in soli 400 esemplari, è stata condotta non sul manoscritto, ma su copia non del tutto sicura, da mani, per di più, non esperte. Una revisione del manoscritto, oggi custodito nella Biblioteca Vaticana, sarebbe quanto mai opportuna se non necessaria, per allineare certe divergenze di interpretazione, certi errori e refusi di stampa, certa punteggiatura che rendono precario in alcuni punti il testo finito, come suggeriscono gli stessi Spinghetti, Fumaioli, Ussani. Sarebbe uno squisito atto di pietas, quella stessa che mosse il Toraldo a scrivere, che i suoi tanto generosi discendenti compirebbero in memoria del loro illustre antenato e a beneficio della cultura latina!  Un atto quindi dovuto!
 
 

NOTE
1 La traduzione di Giuseppe Toraldo del "Cinque Maggio" fu anche pubblicata a parte in opuscolo con il titolo Latina interpretatio italici carminis Manzoniani "Il Cinque Maggio" quam Iosephus Toraldo... exaravit, nunc autem primum edidit Felix Toraldo Marchio Iosephi nepos a patre, Romae, Typis Polyglottis vaticanis, 1918.