Una novella ambientata a Tropea

'Lao e il sillabario'

 

di Leonida Repaci

(da Racconti della mia Calabria, 1931)

 


 

Il vecchio Lao malediva in cuor suo la superbia e la scapataggine, di cui s’era reso colpevole davanti a me. S’egli avesse messa la mordacchia alla lingua ed alla “guapperia”, il guaio di dover imparare a leggere alla bella età di settantasette anni suonati, non gli sarebbe capitato tra capo e collo. Tant’è! Il ritenersi da più del proprio stato, il sapersi in credito verso l’avvenire, il cercar nella caligine d’oggi il fulgore d’una stella, il restare tra i “se” ed i “ma” come con gli unici compagni, se pur inquietanti, di un ingiusto mancamento od esilio: son, queste, felici colpe abbastanza diffuse nell’umana famiglia. Le troviamo nei grandissimi: in Colombo, la notte che precedette l’arrivo a Guanahani; in Galileo, dopo l’abiura famosa davanti al Tribunale dell’Inquisizione; in Napoleone alla fine della campagna in Russia; in Disraeli, all’indomani del suo primo scacco elettorale; in Wagner, alla vigilia della chiamata provvidenziale di Luigi di Baviera: ed in tutte le aquile nidificanti sulle rocce, nell’attesa del grande volo che vincerà gli oscuri voleri dei fati. E le troviamo anche in Lao, il quale, poveraccio, non era un’aquila, neppure un falchetto, ma un ottimo cane da pastore affezionato al padrone, un caro vecchio, di quelli che se n’è perduto lo stampo, oggi. Egli aveva spinto la sua boria ed il suo rimpianto del passato fino a deplorare di non aver appreso a leggere e a scrivere, da ragazzo, per potermi magnificare degnamente le bellezze e le grandezze di Tropea, sua patria. Aveva detto:

- Vedesse, signorino, che paese… Cielo e mare, vigne e ulivi… C’è sempre il sole; si esce tutto l’inverno senza soprabito… Io nacqui davanti alla casa di Galluppi, di Galluppi, suonate campane… Mio padre era suo servo; il professore gli voleva un bene pazzo… Non vi parlo di sua madre… Una santa. E quest’è niente… C’è la Cattedrale con la Madonna di Romania, tolta ai turchi, e portata al vescovo di Tropea… E poi c’è il Crocefisso nero, che io non potevo guardare, perché mi faceva paura… E quest’è niente, signorino… Nella chiesa di San Demetrio, si vede la bella statua della Immacolata, di cinquecento anni fa, e la cappella di S. Pietro, di settecento. E poi c’è la statua di Galluppi, in una grande piazza, piena zeppa di bei palazzi; e la sede vescovile che data dai primi tempi di Cristo. Quante meraviglie. Certo a sentirle dette così, le cose non fanno effetto… Io non so parlare, non so leggere, non so scrivere… Maledizione a quando non ascoltai le parole di mio padre: “Lao, prenditi il sillabario – mi ripeteva sempre – Non finir servo come me, diventa cristiano con sale e zucca, lingua pronta, e fogli da cento in tasca”. Io mi turai le orecchie, e così finii servo bacucco… Non è che mi lamenti troppo, ché, con la famiglia di Vossignoria, me la passo bene, non mi manca niente. Però se avessi imparato l’abbiccì sarebbe stato meglio. Potrei ora leggermi, da solo, sui giornali, la cronaca nera e quella giudiziaria, tutti i discorsi della Camera, che invece sono costretto a sentir dalla bocca del primo che capita. E’ brutto dipendere dagli altri in certe cose, esser come Ciccio l’orbo, che un bambino  lo manderebbe a gambe levate. Se rinasco, signorino, questo ve lo giuro, prima ancora di succhiare il capezzolo della mamma, mi piglio tra le mani il sillabario. Diventerò qualcuno anch’io… Così, quando sarò davanti ad un signorino, buono ed istruito come Vossignoria, potrò parlare di Tropea e di Galluppi come si conviene, potrò dire la mia sul Seggio dei Nobili, e su Santa Maria dell’Isola, sullo scoglio di San Leonardo e su tante altre cose belle del mio paese… Non parlerò a vanvera, come ora…

Questo aveva detto Lao, non sospettando quale bufera le sue parole gli avessero addensato sul capo. Io non ero disposto ad aspettare la sua reincarnazione, per mettere all’opera il mio improvviso ed insospettato ardore di maestro, e la voluttà di potermi rifare su qualcuno delle angherie e degli spaventi che altri maestri avevano fatto subire a me. Fulminai il vecchio con una proposta che, lì per lì, lasciò senza fiato me pure.

- Lao, niente è perduto, credete a me. Vi insegnerò io a leggere e a scrivere. Sarò felice di sacrificare per voi qualche ora della mia ricreazione…

- Signorino, a questa età… Voi volete scherzare… - obiettò con flebile voce il vecchio.

Io traducevo allora, essendo alunno di quarta ginnasio, il “De senectute” di Cicerone. Ricordavo di aver letto, in quel bell’elogio della vecchiaia, che non c’è vecchio, per quanto rifinito, il quale non speri di vivere ancora un anno. E’ giacchè un anno, con l’amo dell’ultimo giorno, anzi d’ogni giorno, ne tira un altro, a quella stregua, i vecchi erano, se non immortali, qualche cosa di molto vicino alla vita perpetua. Questo per i vecchi sfasciati, che strappavano il fiato coi denti, che giocavano d’astuzia, all’illuminello, con la Morte. Trattandosi poi d’un uomo, che, malgrado i suoi sessantasette anni, era rubizzo, entusiasta, vispo, immaginoso come un fanciullo, la vita perenne era più sicura della mia promozione in quinta. Da questa certezza scaturiva un sincero sentimento di gioia per il caro vecchio, e la coscienza dell’utilità dell’insegnamento che io mi proponevo d’impartire a Lao.

- A questa età? Che credete d’essere, con un piede nella fossa?! Incominceremo domani… Io procurerò il sillabario…

Il vecchio avrebbe voluto ribattere, ma io gli troncai ogni parola, ripetendogli:

- Lao, non fatemi pentire di volere il bene vostro… Io v’insegnerò in poche settimane a leggere sui giornali le cronache giudiziarie. Mi benedirete. A domani.

Da quel momento Lao aveva perduto la sua pace.

 

Il giorno dopo, io mostrai al vecchio esterrefatto un piccolo sillabario che avevo pescato tra le scartoffie di casa. Per quanto qua e là strappato e macchiato d’inchiostro, faceva perfettamente al caso nostro, per le belle illustrazioni a colori, che l’ornavano quasi in tutte le pagine. La copertina in tricromia, con, nei diversi riquadri, la luna nera dagli occhi giallissimi, appesa con un filo all’albero, ed urlata dal canino; l’oca intenta a  beccare le tenere vergogne del ragazzino svogliato e disubbidiente; il Pinocchio in atto di fare, col suo interminabile naso, una gran riverenza a Colombina, incurante del gendarme dallo sguardo fosco; infine il topino, danzante un minuetto sulla cappella d’un fungo ceppatello, alla presenza d’un girasole innamorato e di una schiera di gnomi: Quella copertina era così suggestiva, a mio giudizio, da invogliare chiunque a entrare nella Casa dell’Alfabeto, come in un padiglione delle meraviglie. Chiunque, tranne Lao, il quale, vedendo farsi critica la sua situazione, aveva messo su un viso giallo raperino da fare spavento.

- Ecco qua, Lao. Questo è il miglior sillabario delle scuole. E’ servito a me. S’impara in un batter d’occhi.

- Signorino, vorrei dirvi… Voi vi disturbate, ed io…

- Non ci pensate, Lao… Lo faccio con piacere, perché vi voglio bene.

- Vi ringrazio, figlio. Ma sarebbe meglio… Io forse mo sono spiegato male… Io non volevo dire che oggi alla mia età… Voi mi capite…

-Vi capisco benissimo… Cominceremo questo pomeriggio… Meglio non perdere dell’altro tempo prezioso. Del resto non spaventatevi se i primi passi vi parranno duri… Poi, tutto diventa facile…

- A sessantasette anni, signorino? Io credo…

- Non c’è niente da credere… Proveremo. Io non sicuro del fatto mio. Alle tre, dunque. Oggi non vado a scuola e possiamo incominciare… Guardate di non mancare.

L’avevo lasciato cogitabondo e disgustato di se stesso. S’era ripromesso, durante la notte, che aveva trascorsa insonne, di farmi desistere dal proposito temerario, e appena là, davanti a me, la paura di ferire il mio amor proprio, il mio affetto per lui, gli aveva imbrogliata la lingua, l’aveva incantato. Ormai, se qualche fatto nuovo, mandato dalla Provvidenza, non stornava l’estro di quell’animoso padroncino che ero io, egli non vedeva via di scampo. Rischiava di lasciar le penne maestre, non solo nella mia considerazione sulla sua prontezza e capacità di mente, ma anche nelle conseguenze, subite o remote, che un mio gesto d’insofferenza avrebbe potuto creare. Chi sa, magari, il licenziamento, forse la fame.

Soprattutto un ricordo lo abbatteva, togliendogli qualunque barlume di speranza: quello della sua prima esperienza fatta sull’alfabeto, circa sessant’anni prima. Non era vero, ed egli me lo disse più tardi, che il sillabario, lui, allora, l’avesse avuto per un rospo od uno scarafaggio, che non si toccherebbero con mano, per la promessa di un regno. Egli, invece, ci s’era messo sull’alfabeto con buona volontà, desideroso di contentare suo padre e di non finire servo bacucco. Ma, ahimè, quei segni neri e tortuosi, quelle parole attaccate insieme, come tanti vagoni di un treno, sperso per una squallida e buia rotaia, l’avevano respinto senza remissione. Egli aveva finito col preferir loro la corsa pazza fino al Belvedere di Tropea, donde si dominano due golfi, l’oziare al sole, seduto sulla soglia di casa, o l’accompagnare il padre nelle sue faccende. C’era tornato dieci e dieci volte sul sillabario, deciso a far le capate coi muri; e quei segni neri e tortuosi l’avevano, ancora, respinto, gli avevano quasi dato il capogiro. Allora, egli ci aveva rinunziato per sempre, accettando il suo destino di seno bacucco. Come avrebbe potuto riuscire, ora, là, dove aveva strafallito la sua fresca mente di sei anni? Era una pazzia il volerlo pretendere, un cercar guai col lanternino.

Alle tre del pomeriggio, Lao non si fece vedere. Io chiesi a mia madre se lo avesse mandato fuori per qualche commissione, ed ella mi disse che aveva avuto bisogno di far recapitare un biglietto a mio fratello Mariano, che era alle Fornaci. Più tardi seppi che il povero vecchio si era raccomandato a lei, perché lo salvasse dal disastro, lo allontanasse da me, all’ora fatale. Ma io ero più cocciuto che lui non immaginasse. Lo attesi in casa fino alle quattro, e, come egli ritornò, leggermente pallido e vergognoso al punto da non osare di guardarmi, gli dissi: “Eccoci, Lao, vi aspetto dalle tre. Venite”.

Lao mi seguì nello studio come un bue portato a mattare. Sedette davanti a me, al tavolino, ed attese, sperso, che io cominciassi la mia lezione. Mentre io sfogliavo il sillabario con aria pensosa, di là, nella camera di una mia sorellina, si sentì improvvisamente piangere. Nella speranza che quel pianto fosse la tavola di salvezza, mandatagli dalla Provvidenza, Lao fece per accorrere sul luogo dell’accaduto. Io lo fermai con una mano, e lo costrinsi a risedere.

-Non curatevi né di questo, né di altri consimili rumori.

Durante la lezione voi siete dispensato dal servizio. Assumo la responsabilità di tutto.

A queste parole, Lao volse il pensiero a Dio e si abbandonò nella voragine.

- Queste son le vocali – dissi, sfogliando le prime cinque pagine del sillabario e mostrandogli le figure illustrative. – Una per pagina: A,e,i,o,u”. Ripetete con me.

Il vecchio ripetè: “A,e,i,o,u” con voce così flebile, che parve un peccatore, in atto di confessare al prete, nel momento dell’estrema unzione, un terribile delitto.

Benissimo! Ripetete ancora, ma più forte.

-“A,e,i,o,u”.

- Ripetete ancora dieci volte.

Lao ripeté dieci volte le vocali, meravigliato che io insistessi su quei suoni, tuttavia animandosi al timbro della propria voce.

-Ora passeremo alla giustificazione pratica di queste vocali. Consideriamo l’”a”. Guardate questo bambino che sta davanti alla fiamma del camino. Carino, vero? Che cosa gli suggerisce il fatto di potersi scaldare al fuoco mentre, fuori, la neve copre di frange bianche la terra? Un’esclamazione di contentezza… “Aaaaaa” – egli fa. Ed anche noi faremo lo stesso. “Aaaaaa”! Ripetete!

-“Aaaaaa”.

-Va benissimo. Passiamo alla “e”. Guardate questo vecchio che fa campana all’orecchio per sentir le parole del nipotino. Che cosa gli dice?

-Gli dice di gridare più forte.

-Ma prima di questo?

-Veramente non saprei…

-Gli fa: “Eeeee”? Non facciamo lo stesso, noi? Eh?

-Anche noi facciamo così.

-Ed allora ripetete: “Eeeee”, dieci volte.

Lao ripetè dieci volte “e”, dando alle vocali la piega interrogativa voluta da me.

-Benissimo. Finora va benissimo. Dov’è la difficoltà? Me lo dite?

Passiamo alla “i”. Questa bambina ha rotto la bambola… Non sa come giustificarsi davanti a sua madre, ed allora scoppia a piangere… Come si piange?

-Con le lacrime, signorino…

-Con le lacrime, certo. E che cosa si dice tra le lacrime?

-Che cosa? Si maledice la sorte.

Non basta… Prima della maledizione si fa “iiiii”, ed ogni “i” è una lacrima. Anche voi avrete fatto così, quand’eravate ragazzo ed avevate rotto qualche cosa: un giocattolo, un carro, che so io…

-Io non avevo di queste cose, signorino. Eravamo poveri…

-Non significa. Avrete fatto “iiiii” quando vostra madre vi batteva. Ora ricordatevi di allora. Fingete che vostra madre alzi la mano su di voi, che vi batta…

-Così fosse, signorino. Vorrebbe dire che è ancora viva… - mormorò tristemente Lao. Poi ripetè “iiiiiii” e nel ripetere quelle vocali ruppe a pianger per davvero.

Lao si asciugava gli occhi con la pezzola, e continuava a singhiozzare forte. Non era possibile andare avanti. Dopo averlo considerato un momento, io decisi di rimandare la lezione al giorno dopo. Gli assegnai alcune aste da tracciare su un foglio, in lungo, e largo e trasversalmente, e la ripetizione delle tre prime vocali.

-Finiremo, domani, le cinque vocali. L’”o” somiglia a un uovo, indica meraviglia. E’ una vocale buona, cordiale, la si studia con vero piacere. Tutti i bambini davanti all’albero di Natale, pieno di tanti bei regali, fanno “oooooo” e benedicono il Bambino Gesù. Vero? E poi c’è la “u” la quale, però, è meno simpatica; sembra una sedia zoppa; indica, sì, sorpresa, ma una brutta sorpresa, alla larga. Tuttavia bisogna impararla lo stesso, giacché, se di per sé sola, è odiosa, quando entra in certe parole, che son squisite come le cose che esprimono, per esempio, “aurora, frutta, spumone, susumella” eccetera, allora è ottima come tutte le altre. Inteso?

Il vecchio chinò la testa in segno di assenso, è così finì quella memorabile lezione.

 

Né il giorno dopo, né quello appresso, fu possibile riprendere il corso iniziato con tanto ardore da me e tanta temenza da parte di Lao. Il vecchio dovette, dalla casa paterna, spostarsi all’ufficio di mio fratello, per sorvegliare i manifattori, che facevano alcune riparazioni; ed è superfluo dire con quanta gioia mi sfuggisse. Il terzo giorno io domandai alla mia vittima se avesse pensato alle vocali ed alle aste, e ne ebbi una risposta evasiva.

-Le avete fatte o no? Vi prego d’essere esplicito. Ci ho pensato, ma ho avuto da fare, signorino…

-Non occorre un gran che a fare due aste. Comunque, aspetterò fino a domani, anche a dopo domani, se così preferite.

-Facciamo dopo domani, signorino. Certo, vi ripeto che io non ho più la testa di una volta. Forse sarebbe meglio abbandonare ogni cosa…

Io ebbi uno scatto, ed egli ammainò le vele, promettendo di prepararsi per il giorno fissato. Difatti, il giorno stabilito, egli mi fece vedere un quaderno pieno di rette, di orizzontali, di diagonali. Eran tracciate con mano tremante, tuttavia, come primo saggio, potevano andare.

-Benissimo. Sono un po’ ineguali, ma non importa…

Ora passiamo alle due ultime vocali, dopodiché affronteremo le sillabe…

Quel giorno esaurimmo le vocali ed i diversi gruppi di esse. La prima lettera illustrata dal sillabario, era, ricordo benissimo, la “n”. Io la spiegai facendola precedere dalla storiella della mamma, che vede il piccino rubare una mela, e gli grida un “no” tanto forte, da far balzare atterrito, non solo il bambino, ma anche Lao sulla sedia. Dopo la “n” vennero, quel giorno, ed i seguenti, la “m” con la spiegazione della mucca che muggisce; la “t”, col tic tac dell’orologio; la “v”, col vento che vola via il cappello, la “r”, col rumore dell’arrotino; la “p”, col pio pio del pulcino; la “d”, col dondolio della campana; la “l”, con la luce della luna piena.

-La “l” è anche la prima lettera del vostro nome. Somiglia una candela col lucignolo contro vento. Dovreste esser contento di vederla. E’ come se fosse una persona di casa…

-Sono contento, signorino. Certo se avessi avuto un maestro come voi, allora, sessant’anni fa, ora non sarei a questo punto.

-Lasciate stare il rimpianto… Pensiamo al sodo. Mi raccomando gli esercizi. Quelli lasciano troppo a desiderare.

Alla fine della terza settimana, tenuto conto dei giorni, in cui, per una ragione o per l’altra, non si poté dar lezione, s’era finito l’alfabeto, determinandolo, alla meglio, non solo nella figurazione formale, ma anche in quella materiale. Io mi azzardai a chiedere al vecchio che mi tracciasse a memoria qualche lettera. Fu un disastro, anche perché, non avendogli io, ancora, insegnato le lettere in corsivo comune, richiedevo da lui che mi riproducesse il carattere di stampa del sillabario.

-Ma come non ricordate la “b”? Quella indicata dal botolo che abbaia, quella che somiglia ad una pancia gonfia come una botte? Provate, Lao, provate…

-E’ inutile, signorino… Non ricordo…

-Proviamo la “f”: quella del fumo del treno, quella che sembra il portoncino di casa nostra tagliato per metà. Animo, non ricordate più?

Lao si provò e disegnò una specie di tarantola. Abbattuto levò il viso verso di me.

.-Maledizione, non ricordo… A sentirla dalla vostra bocca ogni cosa pare facile, poi si stenta a raccapezzarsi…

-Non scoraggiatevi… Proviamo con un’altra un po’ facile. Per esempio la “s”. Questa l’avete sempre vista nelle feste, fatta di marzapane. Sembra un signore inginocchiato con la testa china sul petto. Lao si provò a fare una “s” e venne fuori un uncino da macellaio.

Un altro si sarebbe subito scoraggiato, non io; che la testa dura sapevo di averla per qualche cosa. Decisi di ritornare daccapo, pretendendo una maggior diligenza negli esercizi, da parte di Lao.

Il quale, da quel momento, le inventò tutte, per costituirsi un alibi davanti a me, divenne irreperibile. Da quel giorno chi lo trovò in casa poté dirsi bravo. Era sempre allo sbaraglio per le strade, sempre pronto a cogliere l’occasione di andare su e giù, alla ricerca di persona o cose, che sapeva, magari, di non poter trovare, ma che tuttavia gli servivano a dimostrarmi la impossibilità d’ogni sua applicazione allo studio del sillabario. Egli aveva sempre avuto a vile l’andare ad attingere acqua alle fontane pubbliche, - mansione, questa, di serve o di massaie, non di un antico cameriere di Rispoli, quale lui era stato. Ebbene, era Lao, ora, a pregare mia madre e i miei che lo mandassero alle fontane con una piccola brocca, anche con una bottiglia; lui a ricordare, ogni cinque minuti, il gran caldo che faceva . e s’era appena ai primi di maggio – allo scopo di rintuzzarlo con una bella bevuta ghiacciata.

Soprattutto, nelle ore in cui stavo tornando dalla scuola, la sua ricerca del pretesto di uscire di casa si faceva ansiosa. Mia madre sapeva il suo affanno, e lo aiutava, mandandolo qua e là per una ragione o per l’altra. Egli usciva dalla trincea in tutta fretta, impaziente di svoltare dalla piazzetta, e non si sentiva sicuro che quando era fuori del tiro del mio percorso. Allora perdeva quel suo fare di cospiratore aggrondato, e ritornava il Lao sereno di sempre. S’infoscava nuovamente, quand’era di ritorno, in previsione dell’incontro fatale. Appena in casa filava in cucina, e non era facile stanarvelo.

Una sera, avendo mio fratello esternato il desiderio di avere Lao con lui, permanentemente in ufficio, il vecchio, a momenti, cadeva fulminato dalla gioia.

-Vengo, Don Mariano, con voi andrei in capo al mondo. Anche perso di tutt’e due i piedi…

-Io non ti chiedo tanto, Lao. Basta che tu mi tenga in ordine l’ufficio.

Lao s’era illuso di avermi vinto, ma io gli tolsi ben presto qualunque illusione. Il giorno stesso ch’egli si spostò definitivamente nello studio, venendo solo a mangiare e a dormire in casa, io, alla solita ora pomeridiana della lezione, feci la mia comparsa in ufficio.

-Lao, son venuto per ricominciare le lezioni. Da un mese siete irreperibile. Che vi succede mai?

-C’è tanto da fare, signorino – rispose lui con accento disperato.

-Veramente non ricordo più nulla del sillabario… Che cosa penserete di me, e di questa zucca che ho al posto della testa?

-Non penso nulla. So che voi dovete imparare a leggere, a gustarvi con i vostri occhi le cronache giudiziarie dei giornali. Son disposto a ricominciare… Sta a voi seguirmi con un po’ d’attenzione.

-Non è la volontà che manca, signorino… Si trattasse solo di quella…

Il tono di voce con cui parlava Lao indicava chiaramente che lui mi aveva ormai identificato col suo destino, con qualche cosa che una volta nata in te, o fuori di te, non ti abbandona più; che si nutre d’ogni tuo più inconfessato sentimento, d’ogni tua più segreta paura; che ti succhierà, fino all’ultimo respiro della vita, ogni pace, ogni conforto.

Chinò la testa, un’ultima volta, e si lasciò mettere il capestro al collo.

-Eravamo, dunque, rimasti alla lettera “s”. vero, Lao? Questa lettera somiglia, nello stampato, ad un signore inginocchiato, e nel corsivo, che ora vi insegnerò, a un serpe ritto… Va bene?

-Si, signorino. Un serpente inginocchiato, o un signore ritto. Almeno così mi pare…

L’ottenuta promozione in quinta ginnasiale, e le vacanze che seguirono, moltiplicarono, col maggior tempo disponibile e la cessata cura degli esami, il mio ardore di maestro.

Svanita anche quest’ultima speranza, che cioè, finita la scuola, mi decidessi a mettere sotto chiave ogni sorta di libri o di scartafacci, e mi liberassi d’ogni abitudine didattica, Lao, impotente ad ottenere da mia madre e da mio fratello l’abolizione del “corso”, pensò seriamente a cercarsi un posto, dove finire in pace gli ultimi anni della sua vita: questo essendo ormai reso impossibile nella mia casa, a causa di quel diabolico sillabario che gli amareggiava tutte le ore della giornata.

Né mia madre né Mariano avevano poco insistito perché io desistessi dalla vana fatica. Io avevo opposto loro che Lao faceva, ogni giorno, i più grandi progressi, e che presto avrebbe potuto scrivere il proprio nome, senza alcuna guida, anzi con facilità: “Ma che gli serve, pover’uomo?”

-aveva detto mia madre; e quella considerazione, che era semplicemente dettata dalla compassione del vecchio, ma che trascurava la cosa in sé, il lato squisitamente morale della mia opera, mi aveva costretto a fare un vero discorso sui benefici della cultura nella più tarda età dell’uomo.

Mariano mi prendeva in giro con molto garbo:

-Dunque, quando sarà in grado, Lao, di scrivere il primo tomo? Noi tutti si aspetta la sua “Opera omnia”. C’è già un monte di prenotazioni in paese…

-Tutto sta a vedere quante decine d’anni camperà… Comunque, una lettera, per il giorno del tuo compleanno, spero di fargliela scrivere, nell’aprile prossimo. Ti morderai la lingua dalla rabbia…

-Staremo a vedere… Per intanto il vecchio mi pare malato di stomaco… - E giù una bella risata che gl’illuminava la faccia.

Di queste beffe, io, poi, mi rivalevo sul povero Lao, pretendendo, sempre con maggior rigore, i suoi esercizi. Finché si trattava di andare a tentoni tra le varie lettere, per indovinarne una su dieci, con l’aiuto della Provvidenza, egli ancora se la cavava. Ma quando era il momento di far sprizzare il segno dalla memoria visiva, o da un elementare processo discernitivo, allora eran guai per davvero.

Il quaderno di Lao era una lastra di microscopio, piena di stranissime colture di batteri, d’infusori, di cellule. Trovavi organismi misteriosi ed elementari, a forma di cilindri, di spirali, di globi, di filamenti; da questi si passava alle prime coppie di microrganismi; da questi ancora a grappoli, a catene di protozoi, e via via, da essi, fino alle combinazioni più impensate della materia organizzata. Il tutto, ricoperto di macchie fino all’inverosimile.

La lettera che gli riusciva meglio era la “t”, perché il ricordo della croce col gancio (la croce lui, il gancio io) gli si presentava evidente alla memoria. Un’altra lettera che gli era entrata bene in testa era la “l”, non già perché somigliasse, nel carattere di stampa, ad una candela con lucignolo contro vento, ma perché si rimediava nel corsivo con una “e” più grande, cioè a dire con un cappio più lungo e la staffa più bassa. Anche la “m” e la “n”, a furia di mostrargli le due o le tre dita della sua mano, perché la rifacesse, era riuscito a mettersele in mente. Ma quando arrivava alla “f”, alla “g”, alla “z”, alla “p”, alla “q”, era da sbattere la testa contro il muro. Egli diventava pallido pallido, dava un’occhiata da morituro alla gente che passava fuori della porta nella vampa del sole, tremava, e lievemente sospirando, buttava giù l’ultimo scarafaggio che gli stillava la penna. Spesso io perdevo la pazienza, e gridavo a piena gola:

-Lao, ho capito… Voi lo fate apposta… Non sarebbe possibile, altrimenti, tanta testardaggine.

-Apposta, io signorino? Che dite mai. Non ricordo, invece. Le parole che voi mi dite, le spiegazioni che mi fate, le capisco, poi, al momento di metterle in carta, son come vento che va via…

-Non importa – dicevo rabbonito dal suo accento doloroso, - il mondo non s’è fatto in un giorno, naturalmente! Dunque, la “f” che nello stampato pare il portoncino di casa nostra tagliato nel mezzo, invece nel corsivo, cioè nel carattere in cui dovete scriverla, somiglia a un capestro doppio, per due teste, insomma… Capito?

-Si, signorino… Per due teste…

Assentiva, forse pensando che la “f” era una lettera inutile, dato che lui aveva una sola testa da offrire al capestro. E si metteva all’opera per organizzare una “f” che pareva una cavalletta.

Passarono così parecchi mesi. La tela di Penelope era, se non proprio allo stesso punto del primo giorno, certo molto vicina a quel punto. A volte, Lao mi dava qualche speranza, ma, il giorno dopo, faceva di tutto per levarmi qualunque illusione. Riapertesi le scuole, io dovetti ridurre le mie lezioni, da quattro la settimana, a due, e ciò contribuì a disperdere, nella testa di Lao, le fumate lasciate dalle mie parole. Era sempre da ricominciare. Un altro che non io, o avrebbe ucciso il caro vecchio, o avrebbe rimandare le lezioni all’altra vita, con una bella risata. Io insistei cocciuto, per l’onore della firma, e anche perché i sorrisi ironici di mio fratello Mariano ferivano il mio amor proprio di maestro.

-Dunque, tra quattro mesi è il mio compleanno. Aspetto la lettera di Lao. Quel giorno ci saranno due regali. Uno per te ed uno per lui… Va bene?

-Va benissimo. La lettera ci sarà… Senza queste maledette scuole che mi rubano tanto tempo prezioso si farebbe assai più presto.

-Capisco… Comunque un maestro come te non si farà vincere da questa difficoltà… Ci faresti una bella figura…

-Non dubitare… A costo di farmi bocciare alla licenza ginnasiale Lao dovrà scriverti la lettera.

-Sarebbe meglio non farsi bocciare e ottener di scrivere la lettera, lo stesso. Del resto, miglior giudice di te non c’è…

Avvicinandosi l’aprile e constatando io, dai minimi progressi di Lao, l’assoluta impossibilità di vincere la posta nei confronti di mio fratello, divenni più cattivo ed insofferente col povero vecchio. Il quale un giorno, col viso di chi è all’olio santo, mi disse:

-Signorino, io non ne posso più… O voi mi lasciate in pace con questo sillabario, o io mi butto dalla Motta… Questa non è più vita…

Io scoppiai in un grido d’indignazione:

-Così mi ringraziate dopo un anno di fatiche? Vi volete buttare dalla Motta! Bene, benissimo. E credete di essere libero di ammazzarvi? Troppo comodo, mio caro.

-Figlio, ma se non si può, se la mia testa è più dura del sasso? Come rimediare?

Aveva parlato con le lacrime agli occhi, e ciò fece cadere tutto il mio risentimento.

-Ora non piangete, via. Io vi chiedo scusa se ho passato il segno. Ma anche voi, santo Dio, cercate di studiare, di applicarvi un pochino. Sarebbe niente, ve lo assicuro… Voi non avete la testa più dura di un altro… Si tratta solo di pensarci un po’ più.

-Cercherò, cercherò… - mormorò lui, pensando alla morte, come ad una liberazione. E così la fatica di Sisifo fu ripresa con lena.

Ma non era questione di volere. Si trattava di un vero orrore del vuoto che Lao provava davanti alle parole, ai segni neri e tortuosi. La sua convinzione di battersi contro una muraglia cieca, la soggezione che gli dava la mia presenza, infine la paura di vedermi scattare come un cricco, alle sue malefatte, gli toglievano qualunque lume, qualunque ricordo visivo o logico. Andava a caso, cercando con la fervida preghiera, più che col cervello. Qualche volta coglieva nel segno, mi galvanizzava, ma ciò avveniva perché qualcuno aveva esaudita la sua preghiera, gli aveva suggerita miracolosamente la lettera, la sillaba, la parola. Aveva indovinato, ecco, ma non sapeva, seguitava a non saper nulla. Il mio insegnamento era stato un camminare sull’acqua.

Il cinque di aprile, alla vigilia del compleanno di Mariano, io ottenni di far scrivere a Lao la lettera famosa. Mi riuscì facilmente. Gli guidai la mano, e la lettera venne fuori con bella sveltezza. Mio fratello la vide sul comodino, la mattina dopo, svegliandosi, e mi chiamò per congratularsi vivamente con me:

-Mi dichiaro vinto. Non avrei mai creduto. Manterrò la mia promessa…

Mi pareva che avesse parlato senza ironia. Però il seguito degli avvenimenti mi convinse del contrario…

-Non è stato facile, sai… Anzi dichiaro che da oggi riprenderò le lezioni con maggior lena. C’è ancora tanto da fare.

Quel giorno io vissi di gloria. Mariano aveva comunicato a tutti la mia vittoria, e, da ogni parte, mi piovevano sorrisi e lodi. Lao, che io avevo costretto a quel piccolo falso, ingiungendogli di non tradire il nostro segreto, e di non farsi vedere durante la giornata, era andato a trovare una sua vecchia parente malata, cosicché non era presente alle lodi che, anche su di lui, ognuno largiva con la schietta generosità di chi vuol bene.

A tavola, Mariano mi chiese che cosa volessi per regalo, ed io:

-Niente. Io ho insegnato non per avere un dono, ma per sentimento.

- Questo ti fa onore ma anche il regalo ti spetta… Io ho perduto e son disposto a pagare.

- Non voglio nulla, ti dico. Il dono lo pretenderò quando Lao sarà in altre condizioni. Per quei due scarabocchi che ha buttati giù, non è davvero il caso di farla tanto lunga.

Io speravo, con questo, di sminuire l’importanza della lettera, di far scadere, anche se non in tutto, gran parte della mia colpa. D’altronde io avevo solo voluto anticipare, guidando la mano di Lao, quello che era fatale, cioè la scrittura autonoma della lettera. Dato che questo risultato era fatale, tanto valeva aver fatto la prova generale di esso, in occasione del compleanno di Mariano.

Il vecchio ritornò a notte alta, e andò a letto senza aver veduto nessuno. L’indomani, al momento di andare a scuola, lo chiamai da parte e gli dissi:

-Se per caso qualcuno v’invitasse a scrivere davanti a lui, dite che vi trema la mano, che non state bene. Una scusa qualunque, mi raccomando.

Lao promise ed io me ne andai a scuola relativamente tranquillo. Ma la speranza di averla fatta franca era destinata a durare un mattino. Verso sera, essendo capitato in ufficio, mio fratello mi disse.

-Ma lo sai che Lao non sta bene? Gli tremano le mani ed anche gli occhi. Gli ho data da leggere la testata del giornale, e non è stato in condizione né di prendere in mano il foglio, né di guardarlo. Speriamo che il tuo “corso” non gli abbia rovinata la salute…

-Sarà una cosa passeggera… - risposi evasivo.

-Speriamo bene, pover’uomo!

In quel momento, lupus in fabula, entrò Lao che era andato fino alla posta.

-Come ti senti? – gli chiese affettuosamente Mariano.

-Le mani ti tremano sempre?

-Sempre, signorino… Guardate.

Il vecchio tremava per davvero. E non era il parletico, ma l’emozione per la parte che io gli avevo data da recitare.

-E la vista? – gli chiese ancora Mariano.

-Quella un po’ meglio, signorino…

A queste parole io mi sentii morire. Perché Lao non accusava anche il male agli occhi per esimersi da qualunque prova?

- Meno male – esclamò Mariano. – Sono contento che ti vada rimettendo dallo strapazzo intellettuale. Qui, in due buste, c’è un regalino per ciascuno. – E’ così dicendo porgeva due buste: una a me ed una a Lao.

- Questa è per te, Lao, e quest’altra per il tuo maestro.

Io presi la mia busta e lessi avidamente le parole scritte dalla mano di mio fratello: “I fichi acerbi hanno il latte in bocca”. Su quella del vecchio, sbirciando in tralice, potei leggere: “Manda al diavolo il tuo maestro, se vuoi campar felice”. Eravamo spacciati.

Lao prese la busta, la rigirò tra le mani, finse di leggere, e sorrise.

-Grazie, signorino. Siete troppo buono.

-Leggi anche alla rovescia, Lao. Ma è prodigioso – disse lietamente Mariano.

Rosso in viso come un pomodoro, il vecchio seguitò a rigirare, nelle mani che gli tremavano, la busta diabolica, mettendola, finalmente, per diritto. Puntò gli occhi sullo scritto e rispose:

-Avevo la testa nelle nuvole, signorino.

-Dunque, ti pare che io abbia ragione?

A questo punto, vinto e avvilito, io feci il gesto di andarmene, ma mio fratello mi trattenne per un braccio:

- Fermati… Te ne vuoi andare proprio ora?

-  Uff! Lasciami andare… Cosa sto a fare qui? E smetti di canzonarmi!

- Canzonare un maestro come te. Ma ti pare!

Io non ebbi più la forza di ribattere, ed allora Mariano, dopo avermi attirato a sé affettuosamente, si rivolse ancora a Lao:

-Dunque, Lao, ti pare che abbia ragione? Su.

-Voi avete sempre ragione, signorino… - mormorò Lao che ti sentiva finire.

-Ed ora fàgli l’invito in piena regola, con tutto il cerimoniale…

Lao puntò un’ultima volta gli occhi sulla frase di Mariano, cercando di organizzare nella sua povera testa qualcuno dei più importanti ricordi di quei segni neri che io m’ero sforzato d’insegnargli. Era un versar acqua in vasi senza fondo. Egli frugò veramente nella sua memoria, chiamando Dio e tutte le legioni dei santi, in suo aiuto. Nessuno rispose al suo appello, ond’egli, sopraffatto dall’emozione, disse:

-Lu santu ch’è di marmuru non suda… Gliel’ho sempre detto a vostro fratello, ma lui non l’ha voluta capire… Ecco in quale stato ci troviamo…

-C’è scritto di mandare al diavolo il tuo maestro, se vuoi campar felice. Ecco Lao – disse ridendo Mariano, spingendomi nelle braccia del vecchio. – Ed ora pigliatevi il regalo, e non parliamone più…

In entrambe le buste mio fratello aveva messo cinquanta lire.