Omaggio a

Giuseppe Lo Cane
 
 

di Ludovico Fulci
 
 



Bisogna amare veramente la filosofia per sapere quanto costi scrivere un libro su certi argomenti. Se un romanzo può considerarsi un po’
come l’estendersi, ovvero il contrarsi di una materia attorno a un nucleo che freudianamente potrebbe riconoscersi in un "motto di spirito", un libro di filosofia ha al suo interno delle tensioni che assai più difficilmente emergono e gli estremi dentro i quali il filosofo si muove sono, salvo nostro errore, il pudore e la spudoratezza. Quanto Cartesio è cautamente severo, altrettanto risolutamente si avventura a raccontare sé stesso Rousseau, che tra i filosofi è uno che ha un cipiglio più da narratore, fantasioso, esuberante, scandaloso, paradossale, elegante, in certo modo antifilosofico, proprio perché scrittore.
All’insegna di una generosità, fatta di un impegno tutto volto a mettere a fuoco la propria verità, si muove anche Giuseppe Lo Cane, il cui filosofare è, nel suo principio, inquetudine che nasce da interrogativi profondi.
P. Galluppi (1770 - 1846)Il professor Giuseppe Lo Cane, il quale si dedica alla meditazione filosofica in una chiave tra l’ascetico e il metafisico, suscitando una compunta ammirazione negli allievi del liceo tropeano che lo hanno avuto a maestro, si è rivolto nei suoi studi alla ricostruzione del pensiero di filosofi dell’Ottocento italiano troppo presto dimenticati dalla cultura ufficiale. Francesco Acri, Francesco Fiorentino e Pasquale Galluppi sono alcuni dei filosofi che più ama, forse a ragione di una loro difficile collocazione all’interno di una tradizione culturale nazionale dove certi echi si disperdono, dopo essere stati per lo più fraintesi, impropriamente assorbiti e quindi accantonati. Si tratta in realtà di pensatori robusti e originali, che si dedicarono alla filosofia secondo delle loro personali cifre, e la cui affrettatamente decretata uscita di scena dal panorama degli studi attualmente condotti in Italia ci appare fatto scandaloso. Così, se Galluppi è in qualche modo rimasto nell’Olimpo dei grandi fino alla prima metà del Novecento, il suo astro si è gradatamente andato spegnendo come quello di altri convenzionalmente minori filosofi del nostro passato anche recente.
Qui va fatta una precisazione. In quella che ci pare una forma di onestà intellettuale che si apprezza nell’uomo e commuove nello studioso, Lo Cane pone una particolare attenzione nello studio delle vicende culturali e filosofiche che hanno interessato i personaggi della sua terra, vicende che egli ricostruisce con scrupolo di filologo. Il recupero da lui operato del Volgarizzamento dell’ Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura da Bagnoregio, scritto da Francesco Fiorentino a soli diciannove anni, può essere uno degli esempi di questo suo impegno. L’operetta del Fiorentino, che consiste in una traduzione in italiano del bonaventuriano testo medievale, documenta un momento particolare della storia spirituale del filosofo calabrese, il quale la pubblicò nel 1858 a Messina quando aveva ventiquattro anni ed era agli inizi della sua carriera. Particolarmente interessante è la ricognizione che Lo Cane fa circa il pensiero di Fiorentino, riproponendo anche polemiche che impegnarono il filosofo calabrese con Acri e con un altro grande dimenticato, Felice Tocco, i cui studi su Platone dovrebbero bastare a rendere urgente una rivisitazione di tutta l’opera, se è vero che Platone è un punto di riferimento per tutti noi.
Opera poi assolutamente meritoria compiuta in questi anni da Lo Cane è l’apparizione di un’importantissimo lavoro di Galluppi rimasto inspiegabilmente inedito finché egli non ne ha provvidenzialmente curata la pubblicazione. Alludiamo a La filosofia della matematica, stampata nel 1995 per le Edizioni Mapograf di Vibo Valentia.
Se intendiamo bene, la scelta di ripercorrere fino ad inseguirne le tracce nascoste, il passato della filosofia dei grandi pensatori calabresi nasce nel caso di Lo Cane da un obbligo morale, sorretto dall’istanza di chiarire il ruolo che la storia stessa di un territorio ha nelle origini del nostro filosofare, che, se non è occasionato da velleità politiche e di carriera come pure assai frequentemente accade, ha le sue radici nel mondo in cui siamo nati. Ma se a noi la questione interessa anche su un piano che vorremmo definire più latamente antropologico, Lo Cane intende restare nell’ambito di una meditazione filosofica anche quando si interroga sul passato, in ciò tenendo fede a un assunto che ha titoli di nobiltà che noi per primi riconosciamo. Ci riferiamo a quell’unità del sapere di cui la filosofia è oggi ultima frontiera e che rischia di disperdersi qualora ci si ponga per un sentiero che si articola secondo i rivi molteplici a cui dà vita un sapere specialistico.
Sicuramente in quell’apparentemente quieto meditare del filosofo -quale Lo Cane lo intende- si rispecchiano, magari assumendo forme assai lontane da quelle originarie, i conflitti sociali, le aspirazioni, i pensieri della comunità alla quale egli sente di appartenere. E’ un’operazione i cui confini si restringono e si allargano a seconda del respiro che ci sentiamo in grado di dare a una riflessione, alla quale, spesso inconsapevolmente partecipano anche i nostri amici. Esistono anche i luoghi di un filosofare come puntualmente ci ricordano i manuali di storia della filosofia a proposito degli Stoici e degli Epicurei, che tra colonnati e giardini hanno ricercato le loro verità. E noi siamo sicuri che, se Atene non ci fosse stata, i destini della filosofia sarebbero notevolmente mutati, perché lo scenario che fa da sfondo al pensiero di un filosofo, sia Socrate, sia Platone, sia qualunque intelletto dotato di tenacia e sostenuto da una sua forza morale, non si limita certo all’architettura più o meno edificante o alla convenzionale sacralità di un luogo in cui ci sentiamo in maggiore sintonia con la natura. Esiste un impegno, per così dire civile, del filosofare. Se questo sia "sublimazione" è quanto non pretendiamo di decidere. Una cosa ci appare sicura: nella terra di Calabria, dove nacquero Telesio e Campanella, la riflessione filosofica si innesta su una pianta resa feconda da una robusta tradizione in cui il ragionare "alto" dell’uomo di cultura non disdegna le ragioni di una vita quotidiana che specialmente in un passato recente è stata caratterizzata da conflitti sociali, da gravi tensioni che, secondo una nostra vecchia opinione, un filosofo come il tropeano Galluppi seppe interiorizzare. Togliamo le severe architetture dei palazzi gentilizi tropeani; prescindiamo da quella sorta di magico isolamento in cui la città, a quel tempo munita di mura, viveva di fronte a una campagna desolata; ignoriamo la storia dei conflitti che si erano accesi tra Tropea e i suoi casali e le pagine di Galluppi si svuotano di quella severità sdegnosa e austera, fatta di un silenzioso e sacro rispetto a quella forma di verità che il lettore attento fa presto a riconoscere nella coerenza delle conclusioni con le premesse. Galluppi non civetta con la verità filosofica e non ha alcuna forma di snobismo, tenendo piuttosto fede a un ideale vagamente cavalleresco per il quale il filosofo si fa coscienza degli altri e per gli altri, ma con un’assoluta discrezione e rifuggendo dal chiasso della piazza. Cosa che ha erroneamente, come giungevamo a stabilire in una conversazione con Giuseppe Lo Cane, indotto a vedere Galluppi "defilato" sul piano di un impegno politico, che coerentemente ai propri convincimenti, lo stesso filosofo non avrebbe mai fatto trasparire quale passione disdicevole all’abito del severo pensatore.
Che Lo Cane sia sorretto nel suo lavoro da un amore profondo per la speculazione filosofica, emerge chiarissimamente dalle conversazioni che si hanno con lui. Lo Cane crede a una cosa come la funzione che la filosofia ha nel tessuto sociale. Per lui, se bene ne intendiamo il pensiero, la filosofia è una divagazione rigorosa con percorsi di andata e ritorno su verità morali profonde incise nella spiritualità dell’uomo, verità alle quali fatalmente si torna.
Se la sua cifra può non essere condivisa, sarebbe tuttavia errato non riconoscerle un’alta dignità ascritta nel segno di una tradizione che tutti i filosofi dovrebbero meglio conoscere. In particolare il rapporto di tanta parte della cultura di oggi con il pensiero metafisico, oggetto troppo spesso di un rifiuto aprioristico, meriterebbe secondo noi d’essere più indagato, senza contare che infine c’è metafisica e metafisica.
Noi siamo i primi a dire che ci annoiano (perché veramente ci annoiano) i pregiudizi di coloro i quali indugiano per partito preso su questioni ormai superate, ma abbiamo un sincero interesse a confrontarci con quanti propongono in modo intelligente e creativo problemi a cui, conveniamo, corrisponde qualcosa che potremmo chiamare l’orizzonte della nostra vita, spesa anche a interrogarci su vecchie questioni la cui delegittimazione è in linea teorica sicuramente possibile, ma va comunque a sua volta legittimata. Il capriccio non abita nella mente del filosofo, che non può con un colpo d’ala cancellare il passato di una tradizione.
Così, che la verità sia un concetto filosofico e comunque rilevante nella storia del pensiero è cosa che nessuna persona intelligente oserebbe negare. E nel modo in cui Lo Cane si pone in cammino seguendo prudentemente le tracce dei filosofi del passato, la verità si cerca con una passione e una costanza ammirevoli. A noi in particolare sta bene un atteggiammento che rifiuta l’idea di una storia della filosofia intesa quale ricognizione di ciò che è vivo e di ciò che è morto di un filosofo, quasi a voler certificare l’inattualità e l’insufficienza di quanti onestamente si sono prima di noi dedicati alla soluzione di problemi intorno ai quali una saggia e penetrante osservazione è già grande guadagno e su cui si è tentato troppo spesso di dire cose nuove e originali. Vogliamo dire che il pregiudizio idealistico che in Italia ha appiattito le filosofie precedenti e contemporanee nella presunzione che tutte fossero superate e da superare, ha contribuito a impoverire artificiosamente il quadro di una realtà assai più varia per cui a fronte dei Varisco e Vailati che hanno trovato modo di essere rivalutati, di un Carabellese e di uno Scaravelli noti anche a un pubblico più ampio, restano da rivalutare un Orestano, un Carlini, un Renzi, un Baratono per limitarsi ai primi nomi che ci vengono alla mente, tutti campioni di una cultura filosofica etichettata ora come positivismo, ora come spiritualismo e che rischia di essere travolta in un grande dimenticatoio. Ma poi i nomi si moltiplicano e a quelli già fatti potrebbero aggiungersi Michele Federico Sciacca, Augusto Guzzo e, per venire a illustri studiosi della terra di Calabria, Tideo Acciarino, Antonio Anile, Vito G. Galati, Antonio Serra e Nicola Taccone Gallucci. Per cui ben vengano le iniziative volte alla rilettura attenta, amorevole, onesta di testi dimenticati.
T. Campanella  (1568 - 1639)Tralasciando questioni che possono interessare gli specialisti e venendo a quanto può richiamare invece la curiosità di un pubblico colto che segue le cronache della filosofia per il gusto di un aggiornamento su problemi di interesse generale, vorremmo dire che sarebbe anche da indagare quanto la verità preceda il cammino lungo il quale l’uomo si pone, se cioè la verità non si possieda normalmente già prima di averla trovata e se si possa dare una verità così totalmente posta al di fuori di noi da essere riconosciuta oggettivamente, come riconosco la strada che quotidianamente percorro.
Ci pare che in fondo questi interrogativi fossero, sia pure in varie forme, presenti alla considerazione dei filosofi italiani che fuori del solco indicato da Gentile e Croce, si posero sulla via di una loro ricerca. Noi siamo convinti che anche su questo punto si giocasse la differenza tra kantismo e galluppismo e abbiamo ragione di credere che Lo Cane convenga con noi su questo punto per cui l’apriori in senso kantiano e in senso galluppiano appaiono simili, ma sono poi irriducibilmente diversi.
B. Croce (1866 - 1952)Ci chiediamo insomma quanto l’idea stessa della verità che ancora alimenta il pensiero metafisico sia di per sé costitutiva e fondante della prospettiva filosofico-metafisica alla quale infine, non foss’altro che per i suoi aspetti formali, anche noi siamo indotti a guardare con interesse. Infine, su un terreno antropologico a cui siamo sospinti dal bisogno di una ricostruzione storica ci chiederemmo se un tale concetto di verità, così importante nella cultura del nostro meridione, dove si colora di toni ascetico-mistici, non descriva i percorsi interni esperibili da chi esplori il mondo ricco dei valori della tradizione contadina.
G. Gentile (1875-1944)E a proposito di tradizione contadina siamo pienamente consapevoli di toccare un punto difficile perché nulla in Italia ha contrastato con la filosofia come la tradizione contadina che dalla filosofia è stata beffeggiata e insultata per secoli in un rapporto di reciproca incomprensione di cui sono testimonianza i luoghi comuni intorno al filosofo e quella sapienza di proverbi che legittimamente infastidisce chiunque abbia voglia di ragionare con la propria testa rifiutando l’ovvietà delle frasi fatte. Ma tant’è, di tradizione contadina dobbiamo ragionare con una cautela maggiore di quanto non si sia fatto in passato. Quella certezza un tempo diffusa per cui la società borghese si costruisce su valori diversi da quelli atavici non è forse illusoria, frutto di categorie mentali imposte da un evoluzionismo che in sede di antropologia ha trovato smentite clamorose, che passano anche, negli spazi sociali della vecchia Europa attraverso il recupero di certe tradizioni vive in quelle che fino a ieri si chiamavano aree depresse? Socrate non era forse anche lui un contadino?
E che dire delle stesse metafore, come meta, cammino, percorso, punto di partenza che ricorrono nel frasario del filosofo il quale nel tempo le ha travestite con parole apparentemente più difficili, ma che nella loro origine significano sempre la stessa cosa? E’ stato Deridda a ricordarci che metodo non è altro se non un termine che al divagare allude non diversamente da discorso, per cui la filosofia moderna nata con Cartesio non renderebbe altro omaggio se non alla capacità di orientare i propri passi con la dovuta accortezza, sapendo fra l’altro che aggirare l’errore è pretesa alquanto sciocca di chi ha dimenticato come si procede nel cammino di tutti i giorni.

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In ricordo di Giuseppe Lo Cane

di Ludovico Fulci
(16 dic 2003)


L'onestà, tanto morale quanto intellettuale, è la dote fondamentale per cui Giuseppe Lo Cane resterà a lungo nella memoria di chi lo ha conosciuto. Come studioso, ha avuto molti meriti e fra i maggiori quello di aver disseppellito dal buio di circa centocinquant'anni un'opera delle più significative di Pasquale Galluppi, filosofo che oltre a Rosmini egli studiò con passione. In tempi in cui gli studi di filosofia sono irresponsabilmente negletti e troppi italiani, specie quelli che "contano", sono dediti ai più vari purché redditizi commerci, duole la scomparsa di chi, per la serenità del suo spirito e le doti della sua cultura tanto ancora avrebbe potuto dare alla sua terra che ha amato con la generosità disincantata di un nobile cuore.