L'ULTIMO FATO

di

GIOACCHINO
 
 

di Antonio Pandullo
(1858)
 


Si parla ancora di lui, di Gioacchino Murat, nel bene e nel male, non importa, ma si parla. C'è chi lo adora, c'è chi lo denigra, c'è chi lo ignora. In Italia esistono Associazioni, Gruppi, Fondazioni, Club di Giuochi di Ruolo, collezionisti di memorabilia che rendono ancora viva la figura e le gesta dell'ex Re di Napoli, che perseguì caparbiamente tra un mondo di sordi l'idea dell'unità d'Italia, portando una ventata di modernità nel Meridione che si lasciò per sempre alle spalle il Medio Evo, la feudalità, i privilegi e quindi i soprusi. In ogni dove vengono svolti convegni, simposi, ricostruzioni storiche come quella più famosa di Tolentino, veri e propri processi con giurie composte da autentici magistrati. In cantiere molte le idee, molti i proponimenti ed i progetti dai quali si prevedono nei prossimi anni eventi straordinari dedicati a questo personaggio complesso e contradditorio che invase con la sua giovanile irruenza ma anche con una dolce vena romantica la storia d'Italia. La figura di Gioacchino, umile stalliere che siede sul trono di Napoli, che trascina sui campi di battaglia interi eserciti invincibili, non ha mai finito di incantare l'Italia, il Meridione, la gente calabrese.

Lo stemma del Regno di Murat

Il 13 ottobre prossimo, a ricordare l'Anniversario della morte di Gioacchino Murat avvenuta nel Castello di Pizzo il 13 ottobre del 1815, è il Circolo Culturale L’AGORA di Reggio Calabria, presieduto da Gianni Aiello, che darà vita alla Settima Edizione del Convegno "Gioacchino Murat - Un re tra storia e leggenda". Nei precedenti incontri importanti cultori di storia patria, funzionari pubblici, operatori culturali, docenti universitari e autorità hanno ripercorso quel periodo che precedette la condanna a morte dell'ex Monarca, che Carlo Botta definì "colui che sarà benedetto e maledetto fin che vi saranno le Calabrie". Quel periodo in cui la Calabria intravide riforme, cultura, crescita sociale, strade, ponti, benessere. Alla quarta edizione del Convegno non sono voluti mancare Joachim Murat e la consorte Elise, i discendenti di oggi della casta murattiana. Ma durante gli appuntamenti annuali si parla anche di leggenda e maledizione che legano indissolubilmente la figura di Murat alla Calabria alla città di Pizzo.

Molte infatti le congetture a proposito del seppellimento della salma e del rinvenimento dei gioielli personali posseduti al momento della cattura nonchè del tesoro di guerra che rimase sulla nave nel mare di Pizzo e sulla quale Gioacchino non fece mai ritorno. Forse il corpo si trova sepolto in una fossa comune nella navata centrale della chiesa di S. Giorgio che qualche anno prima della sua morte lo stesso Murat fece edificare a Pizzo. Però c'è chi afferma che esso si trovi sepolto in una fossa comune nel locale cimitero. Altri giurano invece che il corpo sia stato gettato in mare e la testa recisa sia stata fatta recapitare a Ferdinando di Borbone che volle ricompensare, oltre alla Città "fidelissima" di Pizzo, gli abili artefici della soppressione di un personaggio che si rendeva sempre più importante e seriamente incomodo. La gente di Pizzo racconta che di notte si sentono rumori di catene nella navata della chiesa come se lo spirito di Murat chiedesse vendetta. Chiesa che è stata vista illuminarsi all’improvviso mentre una voce "dell'oltre tomba" rimbombava all'interno della navata emettendo parole incomprensibili. Ed ancora in quella chiesa una donna affermò di aver visto il fantasma di Murat coperto di ermellino aggirarsi nell'aria. Infine gli abitanti del posto asseriscono che per un lungo periodo di anni, alla stessa ora e allo stesso giorno quando la flotta del Re era stata sorpresa dalla tempesta, uno strano fenomeno atmosferico si verificava puntualmente con lampi e tuoni: era "a tempesta i Giacchinu".
E di recente lo svolgimento a Pizzo del processo per scagionare la gente del luogo dei fatti che videro Murat soccombere davanti al plotone di esecuzione sugli spalti del Castello. Il 9 luglio scorso una "Corte di Assise" composta da autentici giudici e magistrati, dopo la celebrazione del processo che vedeva nei banchi d'accusa l'intera cittadinanza per averlo catturato ed ucciso, ha emesso il verdetto di assoluzione. I Pizzitani ora si augurano che tale sentenza metterà fine alla maledizione che per due secoli ha perseguitato Pizzo e la sua gente.
Neppure TropeaMagazine vuole sottrarsi dal commemorare la figura di Re Gioacchino e lo fa in maniera del tutto congeniale al taglio editoriale della Rivista passando la parola ad uno storico tropeano di grande spessore apprezzato in tutto il Regno di Napoli: Antonio Pandullo, che ci racconta in un saggio del 1858 gli ultimi giorni della vita di Murat: L'ultimo fato di Gioacchino Murat.


Eransi due giorni rivolti che navigavan per quell'isola, quando d'improvviso abbuiasi il cielo, s'addensano le nubi, e per le folate impetuose del vento le onde orribilmente si accavallano, sì che per trent'ore corre il legno a fortuna di mare. Calmatasi la procella, abbatteronsi ad altra nave più grande, che veleggiava verso Francia; ed uno de'tre seguaci di Gioacchino pregò il piloto che volesse raccoglierli, e, per larga mercede, menarli in Corsica, appresentatogli il sofferto temporale, e'l picciol naviglio in più parti sdrucito e mal concio per gli urti de'fortunosi flutti e de'contrari venti. Ma quegli, o perchè fosse d'umanità svestito, o che temesse di aguato, o di contagio, non si curò di loro, ma guatolli, e, rigettando con disdegno l'inchiesta e le profferte, via trapassò. Indi a poco furon raggiunti que'malavventurosi dalla Corriera, che del continuo passa tra Marsiglia e Bastia; ed appena Gioacchino palesò il suo nome, fu accolto ed onorato da re. Il dì seguente sbarcò a Bastia. La Corsica era a quei giorni sconvolta da rivolture politiche, e Gioacchino per prudenza e sicurità passò a Vescovado, indi ad Aiaccio, sempre perseguitato da'reggitori dell'isola, e sempre difeso dagl'isolani sollevati in armi. I quali popolari favori l'inanimirono a far disegno, non rivelato che a'suoi più fidi, di raccogliere una squadra di Corsi, pronti a'cimenti, di noleggiare alcune barche, di approdare a Salerno, dove stavano 3000 del già suo esercito, di passar con loro ad Avellino, quindi ala Basilicata, e di riempire, procedendo, della sua fama tutto il regno, e di sconvolgerne il civil reggimento. Il lungo uso di guerra e la sua naturale baldanza gli facean perdere il ben dell'intelletto.
Anzi che movesse, lettere indirittegli dal Maceroni, da Calvi, annunziavano ch'egli a lui veniva apportatore di buone novelle; e giunto il dimani narrò brevemente i propri casi, e gli porse un foglio, che in idioma francese diceva:

<< Sua Maestà l'Imperatore d'Austria concede asilo al re Gioacchino sotto le condizioni seguenti:
1. Il re assumerà un nome privato; la regina avendo preso quello di Lipano, si propone lo stesso al re;
2. Potrà il re dimorare in una delle città della Boemia, della Moravia, e dell'Austria superiore, o, se vuole, in una campagna delle stesse province;
3. Farà col suo onore guarentigia di non abbandonare gli stati austriaci senza l'espresso consentimento dell'Imperatore; e di vivere qual uomo privato sottomesso alle leggi della monarchia sustriaca.
Dato a Parigi il 1. settembre 1815.>>
Per Comando di S. M. I. R. A.
Il Principe di Metternich.

La piccola flotta di Murat si avvicina alla terra di Pizzo<< A re caduto dal trono, disse Gioacchino, non rimane che morir da soldato. Tardi giungnesti, Maceroni; tre mesi aspettai, ma indarno, la decisione de're alleati; ho già fermo in mio cuore di riconquistare il reame di Napoli, se il vuol fortuna, istrumento di Dio. Io tento quelle vie, onde Buonaparte tornò al trono di Francia: ei fu sconfitto in Waterloo, ed ora è prigione in Sant'Elena: se correrò egual sorte, sarà Napoli la mia Sant'Elena >>. Disse ed accomiatollo. La notte del 28 settembre Gioacchino con 250 Corsi sopra sei barche salparono di Aiaccio, ed era sereno il cielo, placido il mare, propizio il vento, apparecchiata ad ogni cimento la schiera, gaio oltre l'usato Murat.
La rissa tra le fazioni murattiana e borbonica dopo lo sbarco a PizzoPer sei dì prosperamente navigò quella piccola flottiglia, poi per tre giorni combattuta da contrari venti si disperse; sì che due legni, l'uno de'quali tenea Gioacchino, erravano per fortunose onde nel golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto nei mari dalla Sicilia, ed il sesto a ventura. Gioacchino stette alquanto in dibattito, e poscia (avventato partito) ! deliberò di approdare al Pizzo per muovere con 28 seguaci al coquisto di un regno.
Agli 8 di ottobre, giorno festereccio e guardato per tutta la città, vi sbarcò seguito dai suoi, cacciossi in mezzo alla piazza col suo vessillo inalberato, sclamando: <<Io son Gioacchino, gridate, tutti: Viva il re Gioacchino Murat!>>. I circostanti tennero silenzio. Gioacchino, addàtosi delle fredde accoglienze, volse i passi verso Monteleone, città grande, ov'egli sperava giuocar di migliore. Ma nel Pizzo un tal Trentacapilli, capitano, ed una gente del duca dell'Infantado fanno tostamente accolta di aderenti e partigiani, e quando sono a gittata scaricano sopra di lui archibugiate.Murat nella cella del Castello di Pizzo Rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il tenente Pernice, si apparecchiano gli altri a difendersi con valenteria, e Gioacchino coi cenni e con le mani il vieta. Gli abitanti del Pizzo vi traggono a calca, ingomberano il terreno, sì che chiuso ogni varco, non offre scampo che il mare, e Gioacchino, aggruppandosi per balze e greppi, vi s'inerpica, sdrucciola, precipita giù, giunge al lido, chiama ad alta voce Barbarà (era il nome del condottiero), ma la sua barca più al largo correa. Murat stava a fidanza di Barbarà. Capitano TrentacapilliEcco fede d'onest'uomo! Gioacchino, disperato di quel soccorso, sforzasi di lanciar nell'acqua uno schiffo, che per avventura stava a secco in sulla riva, quand'ecco gli è alle spalle Trentacapilli con numeroso stuolo di gente armata di archibugi, stocchi, mazzeri, sassi; lo accerchiano, gli si avventano addosso, gli strappano le reali vestimenta, ed i gioielli che portava al cappello e sul petto, il feriscono in viso, e pur anche le donne si danno a tempestarlo di fieri colpi. Così sfregiato il menano in carcere nel picciol castello della stessa città insiem co'compagni, che avean presi e pur mal conci. Prima la fama e poi lettere annunziaron quei fatti al podestà della Provincia. Comandava nelle Calabrie il general Nuziante, il quale a quei giorni avea le sue stanze in Tropea: egli spedì al Pizzo il capitano Stratti con alquanti soldati. Questi recatosi al castello imprese a scrivere i nomi dei prigioni, e, dopo averne interrogati due, domandato il terzo del nome. <<Gioacchino Murat, re di Napoli >> quegli rispose. A questi accenti compreso lo Stratti da meraviglia mista a rispetto, li pregò di passare a stanza migliore, e gli si porse largo di cure e cortesie. In poco d'ora vi giunse Nunziante, sommessamente salutò Murat, e di presente il provvide di cibo e vestimenti, conciliando (malagevol opera) ! la fede al re Borbone, e la riverenza a un tempo e la pietade a Murat, caduto in fondo di fortuna.
La fucilazione di MuratIl telegrafo incontanente annunzia a Napoli i casi del Pizzo. Per via di segni e di messi fu dato immantinente comando che un tribunal militare dovesse giudicarlo. Giugne il comando nella notte del 12, si eleggono sette giudici, e quel concilio adunasi in una stanza del castello. In altra Gioacchino dormiva l'ultimo sonno della vita.Pizzo: La Chiesa di S. Giorgio Martire La dimane entratovi Nunziante, e trovatolo che dormiva come i fortunati, preso da pietà non distollo; ed allorchè per sazietà di sonno aprì le luci, quegli composto a dolore gli fe' noto che il Governo avea prescritto ch'ei fosse da una commessione militare giudicato. Cotal annunzio gli fe' velo di pianto a'lumi; ma tosto di sè medesimo seco vergognandosi, rincacciollo, e domandò se gli era dato di vergare una lettera a sua consorte, e Nunziante accennatogli il sì, scrisse in idioma francese:
<< Mia cara Carolina, l'ultima mia ora è suonata: tra pochi istanti io avrò cessato di vivere, e tu di aver marito. Non obliarmi mai: io muoio innocente: la mia vita non è macchiata di alcuna ingiustizia. Addio, mio Achille, addio, mia Letizia, addio, mio Luciano, addio, mia Luisa, mostratevi al mondo degni di me. Io vi lascio senza regno e senza beni. Siate uniti e maggiori dell'infortunio; pensate a ciò che siete, non mica a quel che foste, e Iddio benedirà la vostra modestia. Non maledite la mia memoria. Sappiate che il mio maggior tormento in questi stremi di vita è il morire lontano dai figli. Ricevete la paterna benedizione, ricevete i miei abbracciamenti e le mie lacrime. Ognora presente alla vostra memoria sia il vostro infelice padre - Gioacchino. Pizzo 13 ottobre 1815>>.
Pizzo: Il CastelloRecise alcune ciocche de' suoi capelli e le chiuse nel foglio, che consegnò e caldamente raccomandò al generale. Vietò al capitano Starace di parlare in sua difesa; e al giudice compilatore del processo, che li chiedeva, secondo la costumanza, del nome, rispose tuonando:
 
 

Pizzo. Chiesa di S. Giorgio: L'epigrafe tombale di Goacchino Murat << Io sono Gioacchino Murat, re delle due Sicilie, e vostro; partite, sgomberate di voi la mia prigione >>. Rimasto solo, non piangeva, sì dentro impetrò, tenendo fise ed immobili le sue pupille sopra i ritratti della sua famiglia. Indi a poco il sacerdote Masdea il pregò, che gli dovesse piacere d'acconciarsi dell'anima, ed egli, rendendosene agevolissimo, rispose: Io sono acconcio di ciò fare. Ei compiè daddovero gli atti di cristiano con filosofica rassegnazione, e, ad inchiesta dello stesso ministro di Dio, scrisse in idioma francese: << Dichiaro di morire da buon cristiano - G. M. >> -
Frattanto il tribunale militare profferiva: Che Gioacchino Murat, con 28 compagni avendo eccitato il popolo a civil rivoltura, e però offeso la legittima sovranità, qual nemico della tranquillità pubblica era condannato a morte, in forza di legge del Decennio mantenuta in vigore. Il prigioniero, dopo aver udito con freddezza e disdegno la sentenza, fu menato in un piccol ricinto del castello, ove lo attendeva uno squadrone di soldati attelato in due file. Il malarrivato Murat si tiene allora spacciato; e però rinverdendo in lui la natural baldanza, ricusa la benda, onde voleano far velo a'suoi occhi, guata con intrepidità serena il ferale apparecchio delle armi, sporta in fuori il petto, e da sè stesso allogandosi in attitudine da offerire il più di superficie ai colpi di archibusi: Soldati, sclama, mirate al cuore, additandolo con la mano, salvate il viso. Disse, e più non fu. Le sue spoglie in un co'ritratti della famiglia, cui, tuttochè spento, pur tenea strette in mano, furon sepolti in quello stesso tempio cinque anni innanzi eretto dalla sua pietà, quando trovandosi egli al Pizzo, il su mentovato sacerdote Masdea gli domandò un soccorso per compiere le fabbriche di quell'edifizio, e Giacchino il concesse più largo delle speranze. E così al quarantesim'ottavo anno di vita, settimo di regno, di questo mortal secolo trapassava Gioacchino Murat, addomandato l'Achille della Francia, perchè prode ed invulnerabile in guerra al par di quello della Grecia; dotato di desiderii da re, mente da soldato, cuore di amico.