Mappa topografica della terra e castello di Scilla in cui si additano i luoghi ne quali avvennero i fenomeni
del tremuoto. Disegno di Pompeo Schiantarelli, incisione di Antonio Zaballi
 

I Terremoti Calabro-siculi del 1783
e un curioso libro di Onofrio De Colaci
 

di Gaetano Pizzuti
(1947)


Il terremoto che nel 1783 desolò le Calabrie e la provincia di Messina, uccidendo circa trentaduemila persone, duecento paesi distruggendo e provocando danni che a quei tempi furono valutati a trenta milioni di ducati, produsse anche un'abbondante letteratura sui fenomeni sismici. In molte città d'Italia (come a Lucca, a Pavia, a Bologna), in Francia e in Germania, quello che fu detto il flagello richiamò la mente degli studiosi di scienze sui tremendi effetti dei movimenti tellurici e volse le indagini sul mistero delle cause ond'essi sono prodotti.
Tra gli scrittori cosentini, l'accademico cratilide Gaspare Romano pubblicò nel 1794 (Napoli, Aniello Nobile e C.) un suo Sistema universale delle scienze, nel quale tratta anche dei vulcani e dei terremoti di Calabria.
Più importante è la monografia dell'altro cosentino Francesco Salfi (Saggio de' fenomeni antropologi relativi al tremuoto, ovvero riflessioni sopra alcune opinioni pregiudiziali alla pubblica e privata felicità fatte per occasione de' tremuoti avvenuti nella Calabria l'anno 1783. Napoli, Vincenzo Plauto, 1783), che, sulle orme del Vico, investiga intorno all'influenza dei terremoti sui sentimenti e sul pensiero umano.
Sette mesi durò il flagello, dal febbraio sino ai primi di agosto: <<tempo infinito - dice il Coletta - perchè misurato per secondi>>.
Nè quì cessarono le sciagure della Calabria: ai terremoti successe una fiera epidemia, prodotta, si disse, dai miasmi che ad ogni scossa si effondevano dallo sconquassato ed aperto terreno, e certo favorita dal pestilenziale fetore degli insepolti cadaveri, sicchè i lutti durarono sino all'ottobre di quell'anno e il numero delle vittime ascese a sessantamila.
Al flagello sismico altro se ne aggiunse di natura letteraria, ad opera di rimatori d'occasione che, fin da quello sventurato anno 1783, si affrettano a licenziare alle stampe i loro parti poetici in latino e in volgare, in ottave e in sciolti, come in gara per arrivar primi al traguardo della celebrità: così sempre nelle calamità pubbliche. A dare un'idea di siffatta produzione basterà citare alcuni titoli di quei libricciattoli.
Giacomo Campagna pubblicò, stampata a Messina e composta in ottava rima una Istoria funesta delli terremoti accaduti in Calabria Ultra in quest'anno 1783. Quello stesso anno, sullo stesso metro, un anonimo compose un poemetto pubblicato a Napoli col titolo La natura irata. E del 1783 pare debbano essere anche l'alegia latina del canonico Nicola Bardani, Terraemotu Calabriae, stampata senza indicazione di luogo nè di data, e i versi sciolti Sopra il Tremuoto occorso in Sicilia ed in Calabria il 6 febbraio 1783, anonimi anch'essi privi di note tipografiche, ove inoltre è da notare l'errore della data.
L'anno appresso il Pensante Peloritano, pseudonimo del principe di Biscari, licenziò la Descrizione del terribile terremoto de' 5 febbraio 1783 che afflisse la Sicilia, distrusse Messina e gran parte della Calabria (Napoli, 1784), preceduta la prefazione e accompagnata da note di Michele Torcia, onde la forza di resistenza del lettore è messa a dura prova per 118 pagine in 8°.
Ancora in ottava rima apparvero a Napoli, nel 1787, le Memorie fisico - tragiche su la storia del terremoto e suoi fenomeni accaduti nella provincia di Calabria Ult. nell'anno 1783 di Antonio Faccioli; e due anni appresso è la volta di uno Spina che sollecita le Muse a cantargli La Calabria distrutta o sia l'istoria genuina e veridica del terremoto de' 5 febbraio 1783 in Calabria (Napoli, 1789).
Il diluvio di versi si abbattè, che io sappia, sino al 1805, allorchè un Giovanni Palamara non seppe più tenersi dal dare alla luce il suo Divoto libbretto in lode della miracolosa immagine di Maria SS. sotto il titolo de' Polsi: nel quale si premette un'Ode dallo stesso composta intorno l'origine del S. Luogo, ed altra in aggiunta parimente dello stesso sopra il tremuoto nel 1783, l'una e l'altra Composizione ornata dalle necessarie note (Napoli 1804, pp. 80 in 8°).
I danni cagionati a Cosenza dal flagello sismico si possono dire non eccessivamente gravi, se paragonati a quelli della provincia di Calabria Ultra, ove dalle voragini si videro, sorgere colline, altre sparire; i fiumi mutar corso e nuovi laghi formarsi, le cui acque stagnarono poi per molti anni, rendendo insalubri vaste contrade; onde nel 1810 Giocchino Murat, con decreto dato a Scilla il 24 giugno, ne ordinò in disseccamento: <<Saranno disseccati nel più breve tempo possibile i laghi detti di Seminara, Sinopoli, S. Cristina, Terranova, Sitizzano, e gli altri formati dal tremuoto nella provincia di Calabria Ulteriore>>.
In quel funesto anno, ricopriva a Cosenza la carica di Regio Consigliere e Uditore del Tribunale l'avvocato Onofrio De Colaci, cui le cure dell'ufficio non distoglievano dal culto delle Muse. Letterato anch'egli, e illuminato, gli tornò buona l'occasione per mostrare che, se l'Algarotti aveva esposto l'ottica newtoniana ad uso delle dame, anche le sciagure del terremoto potevano piacevolmente esser narrate alle dame e al loro corteggio di cicisbei. Per i tipi di Vincenzo Mazzola - Vocola vennero così alla luce in Napoli, con licenza dei superiori, i Dialoghi intorno a' tremuoti di questo anno 1783 scritti da Onofrio De Colaci Regio Consigliere e Uditore nel Tribunale di Cosenza (pp. 79, in -16°).
Poichè di un esemplare, apparso recentemente nel mercato dell'antiquariato librario, ho potuto prender visione, e poichè il libretto offre qualche interesse per il particolare modo dell'esposizione e per le ultime vicende dell'autore, non sarà del tutto inutile darne qualche ragguaglio.
Lugubri canti o trattati scientifici: in questi due generi, si è visto, era divisa la letteratura sismica del tempo. Il De Colaci si pose in mezzo tra i due generi per discorrere intorno ai fenomeni sismici in cinque dialoghi che si fingono tra un cavaliere e una dama. Accettando una moda già stanca, egli ne ripete tutti gli atteggiamenti più fittizi. Lontani erano ormai i luoghi del flagello, perchè il magistrato si era trasferito da Cosenza a Napoli: nella gaia capitale, la sua condizione di sopravissuto lo poneva in uno stato di superficiale euforia, che in tanto luttuoso argomento gli consentì manierismi da cicisbeo. Alla prima battuta di dialogo, il cavaliere, come proseguendo un discorso già avviato, domanda: <<Io dunque nella mia lontananza meritai qualche vostro sospiro?>> E poichè la dama lo assicura che non solo in sospiri si esternò il suo compianto, ma <<in qualche lagrima ancora, quando pervennero le notizie de' Tremuoti che inabissaron la Calabria>>, il cavaliere galante, pur avendo perduto <<la patria, le case e gli arredi>>, mette in conto di guadagno quelle lagrimucce.
E' tra questi madrigali, tra infiorettature di stile e spiritosaggini, con un apparato di erudizione spesso arbitrariamente sovrapposta, che il De Colaci disserta intorno ai segni premonitori e alle cause dei terremoti.
Il canto dei galli ad ore inconsuete, l'irrequietezza degli animali domestici erano (e tuttora sono) per il volgo avvisi di imminenti scosse telluriche. Se questi avvertimenti sono suggeriti agli animali dall'istinto, quali fenomeni fisici accompagnano i terremoti? I calabresi ebbero tempo, per lungo spazio di sette mesi, di osservare l'aspetto del cielo e i perturbamenti atmosferici che precedevano le scosse: così a taluni parve di poter trarre la regola che il terremoto era vicino se le nubi si disponevano a fasce; altri invece ritennero che <<il tremuoto venisse indicato da un vento, che sopra la terra spiri subitaneo ed impetuoso, che sorga improvviso, e cessi all'istante>>. Segno più sicuro fu creduto <<il rimbombo grave e cupo>>: senonchè esso procedeva di così poco il terremoto da perdere ogni efficacia di avvertimento. Fiammelle, razzi, lampi, aliti maligni e fetidi erano simultanei alle scosse, e perciò ancor meno premonitori.
Ma il cavaliere non si limita all'osservazione del fenomeno: vuol ricercarne anche la causa. E così unemdo ai veri della scienza i lumi dell'arte egli spiega perchè, secondo le teorie correnti, i terremoti sono più frequenti nella parte meridionale della penisola italiana e nella Sicilia. Questi due lembi di terra, che un tempo forse furono uniti e che un grave rivolgimento tellurico avrebbe divisi, poggerebbero sopra enormi volte sotterranee ricolme di zolfo: esse, alimentando il fuoco nel loro seno, sprofondano ogni volta che non hanno forza di resistergli.
Altri invece ha immaginato che, imprigionata sotterra, anzi <<congregata come in una spogna entro il seno di un monte>>, vi sia un'enorme quantità di acque che ne fanno crollare la cima, se accresciute per abbondanti pioggie.
Ne' alla dama nè al cavaliere siffatte teorie paiono accettabili. Sarà allora nell'aria da ricercarsi la causa? Si torna alle grandi volte sotterranee: ivi l'aria, messa in moto per forza di calore, diventa vento, <<il quale infuriando per gli antri cupi, e tempestando più del mare per uscir dal suo carcere, urta e fracassa, e fa il Tremuoto>>.
Ma la dama è ancora scettica: <<oh! il nostro secolo illuminato!>> ella ironizza. Se dunque non è l'acqua e non è l'aria, non resta che tornare al fuoco, unico elemento imputabile, giacchè non può alla terra stessa imputarsi la cagione dei suoi rivolgimenti. Questo fuoco il De Colaci, per bocca del suo cavaliere, definisce filosoficamente <<materia ignea ed accensibile o sia Pirite>>: tutti i corpi portano in sè <<i semi del fuoco detto puro>>, onde <<percosse le pietre scintillano, stropicciati i legni accendono, il ferro si riscalda>>; allo stesso modo si può concedere che anche la terra sia pregna di moltissimi sughi, e sali acidi, di tante sostanze crasse e oleose, e di tanti diversi minerali; <<incontrandosi i sughi acidi con le sostanze oleose>>, fanno un misto ch'è il zolfo; colle terre crasse fanno invece il bitume; e così trascorrendo troverete come s'ingeneri il Pirite>>. A questo punto la dama se la sbrighi da sè: il cavaliere adduce solo prove indirette alla sua tesi, e cioè le fiammelle, i lampi, i razzi, gli aliti maligni e fetidi che accompagnano i terremoti.
Ma correva a quel tempo un'altra teoria che attribuiva i terremoti all'elettricità atmosferica o fluido elettrico. Il cavaliere confessa che quante più opere si è provato a leggere sull'argomento, sempre meno è riuscito a capirne una maledetta; gli sembra poi che gli assertori di quella teoria ne capiscano ancor meno di lui, e che ammantino di matte astruserie i loro discorsi per mostrar di sapere quel che non sanno.
Queste sono le cognizioni scentifiche che si apprendono dai cinque dialoghi. Sarà forse meno disutile trarne una cronaca dei luttuosi avvenimenti; per il valore di testimonianza diretta, e trascurando perciò le notizie riguardanti fenomeni che il De Colaci non potè personalmente osservare, quale ad esempio, lo spaventoso maremoto di Scilla, ove le acque divenute calde, dopo esservi sollevate come due montagne, si abbatterono improvvise sulla marina, travolgendo quegli abitanti.
La prima scossa si ebbe il 5 febbraio, di mercoledì alle ore 19. <<Sopravvenne improvvisa e repentina, ma di un polso e di una forza inesplicabile. Chi scampò attonito, smarrito, stupefatto mirava divenuto in un punto un mucchio di pietre la patria, poc'anzi florida e felice>>.
Il giorno appresso fu avvertita un'altra scossa, ma non troppo forte. Il 7, si succedettero tanti scuotimenti e di tanta violenza <<da atterrare i miseri avanzi del mercoledì>>.
Intanto, anche il cielo si era conturbato e per tutto il mese di febbraio tempeste di acqua, grandine e vento si abbatterono sulle case sgretolate: sicchè mentre il terremoto cacciava dalle cadenti dimore i miseri abitanti, la furia del cielo li batteva sulle carni malcoperte o ignude. Furono avvertite in quel mese esalazioni tossiche, che per fortuna non si sollevavano molto dal suolo, onde si videro morire solo alcuni annusanti tra le macerie.
Il 26 febbraio, poichè il cielo, di aspetto pauroso, era solcato da una sola nube a forma di striscia, che alcuni chiamavano milza, altri lingua di bue, il popolo atterrito prevedeva un'altra scossa, che infatti avvenne fortissima <<alle undici ore del dì nascente ventisette>>, accompagnata da pioggia e grandini e tuoni e lampi.
Lo scuotimento tellurico del giorno successivo (venerdì 28 febbraio, alle ore 11/2) fu avvertito fino a Napoli. Di nuovo una striscia di nube apparve nel cielo, tristo presagio di imminente calamità, che infatti si verificò il primo di marzo.
Dieci giorni dopo, di notte un vento impetuoso agitò le aqcue dei tre mari, divelse le quercie più robuste e frantumò le baracche, cominciate a costruire per riparo dalle intemperie, durando ormai da trentacinque giorni il flagello. Qualcuna fu vista addirittura volare.
Sino alla fine del luglio, non ebbero tregua gli sventurati abitatori delle Calabrie, benchè le scosse che si succedettero numerosissime dal 1 marzo al 28 luglio non avessero raggiunto la violenza delle precedenti.
In questo tempo, altri fenomeni furono osservati. La sera del 3 giugno, un razzo <<corse così grande e bello sopra Cosenza, che simile non si era più veduto. Sull'aurora di quel dì si era fatto sentire il Tremuoto, onde scapparon fuori assai aliti infiammatori>>. Negli ultimi giorni di giugno e nei primi di luglio i fenomeni sismici furono accompagnati da nebbie caliginose e dense che opprimevano il respiro; e poichè era comune convincimento che una nuova scossa le avrebbe diradate, l'afflitta popolazione invocava un nuovo tremito della terra.
I razzi notturni, i tuoni strepitosi e terribili lampi crebbero d'intensità e di frequenza nella notte del 29 luglio, e <<dopo cinque ore, secondo l'orologio d'Italia, cioè scorsa quasi un'ora dopo la mezzanotte, e perciò cominciato il giorno trenta, sopravvenne una orribile scossa>>.
Le notizie che il libretto ci tramanda sulle sciagure calabresi del 1783, si limitano dunque alle sette scosse principali, nè soddisfano di molti particolari la curiosità dei posteri, così come difettano di vaglio critico le sue osservazioni e teorie. Il genere ibrido tra la dissertazione scientifica e la cronaca artistica, secondo la moda che s'illudeva di conciliare i veri della scienza ai lumi dell'arte, scema ai cinque dialoghi il valore di testimonianza scontata che pur conserva qualche rozza cronaca. Manca inoltre in essi quello che più si desiderava di trovarvi, e cioè una osservazione diretta, riferita da un uomo di buona cultura, sugli effetti morali del terremoto. Quei fenomeni che il Salfi chiamò <<etici>>, o le perturbazioni psichiche osservate nel 1783 e che Mario Pagano raccolse e illustrò al lume delle teorie vichiane, sono oggetti estranei alle riflessioni di Onofrio De Colaci. Ond'è che il suo libretto appena si distingue dalla inutile produzione letteraria che in quell'anno e nei successivi si ebbe sull'argomento.
Ma Onofrio De Colaci ben altra testimonianza di sè ci ha lasciata fuor di questo libretto e del poema Il Tobia. Regio Uditore, come si è visto, e ligio al trono, negli stessi dialoghi trovò modo di paragonare Ferdinando IV a Tito e di estendere l'adulazione alla regina, giacchè se Tito ebbe la fortuna di un impero, più fortunato di lui il re di Napoli aveva una consorte che nessun impero poteva uguagliare. Ma sul finire del secolo aderì alle nuove idee di libertà e mise il suo sapere giuridico al servizio della Repubblica Partenopea, onde il 30 piovoso del 1799 fu nominato giudice dell'Alta Commissione Militare che doveva conoscere i delitti di lesa sovranità del popolo. Arrestato dalla reazione e detenuto in Castelnuovo, la notte del 20 ottobre, essendosi pronunciata contro di lui sentenza capitale, fu trasferito nel Castello del Carmine. Salì il patibolo il 22 ottobre.
Diomede Marinelli annotò nei suoi Giornali che <<Onofrio De Colace, Ministro, Avvocato Fiscale in Vicaria, fu decollato per aver dato sentenza contro un ladro, che aveva rubati gli arredi sacri in un Monastero, e la sentenza era appoggiata sulle Regie leggi.
Aveva 53 ani, essendo nato a Parghelia il 25 aprile del 1746>>.