Nato a Tropea (VV) il 17 febbraio 1916, Raf Vallone si trasferì ancora bambino con la famiglia a Torino, città natale del padre che vi esercitava la professione di avvocato.

Studiavo all’università, giurisprudenza, ma il mio professore di scienze delle finanze, Luigi Einaudi, non era entusiasta di me. ‘La preferisco come calciatore che come economista’ mi diceva. In fatto di insegnanti sono sempre stato fortunato: al liceo Cavour studiavo letteratura italiana con Mario Fubini: quando passò all’università, a! suo posto arrivò Leone Ginzburg. Fu lui a farmi recitare in pubblico i primi versi. Il professor Crescini di matematica, invece, mi dava 2: uno per il disturbo di essere venuto alla lavagna, uno per il disturbo di tornare al posto.
Recitare mi piaceva, però il grande divertimento era il calcio. Non avevo grandi piedi, ma tanto fiato. Il mio non era ancora il Grande Torino, anche se eravamo forti. Un anno fummo campioni d’inverno, vincendo il derby con la Juve e battendo l’Amhrosiana. Le due mezz’ali dell’Ambrosiana erano Meazza e Ferrari. Mister Erbstein, l’allenatore, mi aveva detto di giocare in mezzo a quei due fenomeni, per cercare di spezzarne il fraseggio. Al Filadelfia ci saranno stati venti gradi sotto zero. Abbiamo vinto soffrendo, 1 a 0. Verso il novantesimo mi sgancio, supero Ferrari, sto per entrare in area e lui di solito correttissimo, commette uno dei pochi falli della sua carriera e mi falcia da dietro. Cado sul prato ghiacciato, i fili d’erba sono come aculei, so!tanto negli spogliatoi mi accorgo che ho il petto ferito, il sangue si era mlmetizzato sulla maglia granata.
Smisi con il calcio dopo la finale dei campionati mondiali goliardici, a Vienna. Una delusione terribile. Sono convocato nella nazionale studentesca. Andiamo in finale con la Germania, al Prater. E’ l’indomani dell’Anschluss: l’Austria non esiste più, giochiamo contro i padroni di casa. L’arbitro ungherese non ci lascia toccar palla: appena ci avviciniamo all’area fischia un fallo o un fuorigioco inesistente. Perdiamo. Alla fine gli abbiamo sputato addosso. La rabbia è tanta che decido di accontentare mio padre, che mi voleva avvocato: basta pallone, sotto con gli esami.
Dopo l’8 settembre entro in contatto con Giustizia e Libertà tramite uno dei comandanti, Vincenzo Ciaffi, latinista appassionato di filosofia e di teatro, colto, coraggioso, forte, un uomo eccezionale. Ero militare a Tortona, e Ciaffi mi incarica di individuare e mettermi in contatto con altri antifascisti. Divento amico del soldato Bernieri, che dopo la guerra sarà eletto in parlamento nelle liste PCI. In segno d’intesa gli passo un libro, Nuova York di Dos Passos, con una frase in codice: “Abbiamo gli stessi interessi, credo che questo romanzo ti piacerà”. Ci scoprono. Mi convocano e mi sbattono in faccia il libro con il messaggio. Pochi mesi dopo vengo arrestato e portato a Como. In una palestra adibita a carcere entra un repubblichino a interrogarmi. Scelgo di dire la verità: confesserò di essere antifascista: tacerò i nomi del compagni. Tra me e il repubblichino si crea uno strano rapporto di complicità. <<Domani verranno a prenderla>> mi avverte. <<La devono portare in Germania, in un campo di concentramento. Con lei ci sarà un solo agente. La sua rivoltella non sarà carica. Veda lei>>. Riesco a scappare, gettandomi vestito nel lago di Como. Era marzo, e l’acqua fredda come il prato del Filadelfia su cui ml aveva scaraventato Ferrari. Ho poi tentato di rintracciare quel repubblichino, senza riuscirci. Molti anni dopo, facevo già l’attore, stavo sciando a Sestrière con mia moglie e i miei tre figli, quando, sulle piste del Banchetta, un gruppo di turisti mi riconosce e si avvicina. Credevo fossero ammiratori che avevano visto Riso amaro. E in effetti si congratularono, ma non per il film, per la mia fuga di Como. <<Noi la conosciamo, l’abbiamo vista gettarsi nel lago, con le SS che sparavano dalla riva...>> Da allora i miei figli non hanno più potuto prendermi in giro per i miei racconti.
Dopo la fuga torno a Torino, e Ciaffi ml affida un altro incarico delicato: fare propaganda, in vista dell’occupazione partigiana della Rai, tra i tecnici della radio repubblichina, alla Mole Antonelliana, dove andavo a leggere poesie. Riesco a contattarne qualcuno, nonostante la prudenza e la paura che li frenava. Allora Ciaffi ml dice di leggere alla radio poesie di Montale, per diffondere un segnale culturale e politico che la stagione nazifascista sta per finire.
Fu un amico che aveva letto le mie critiche teatrali a presentarmi a Davide Lajolo, che chiamavamo con il nome da partigiano, Ulisse. Così io, azionista, cominciai a lavorare per il giornale dei comunisti. Ulisse era unico per simpatia e carattere. Godeva di grande prestigio tra i partigiani, e me ne accorsi quando sulle Langhe ripresero le armi. Lajolo partì per Alba, su incarico di Nenni, che era ministro degli Esteri. Io vado con lui, su una vecchia Balilla. Appena arrivati ci tirano fuori dalla macchina, ci prendono a calci in culo e fanno per metterci al muro. Ulisse comincia a spiegarsi, con le mani in alto, e più parla più li convince. Ci lasciano andare e corriamo a Torino, in tempo per titolare l’edizione straordinaria dell’<<Unità>>: I partigiani depongono le armi.
Facevo una terza pagina con firme straordinarie. Ero molto amico di Mila: purezza, integrità, intelligenza, cultura. Pavese veniva spesso a trovarmi, andavamo a pranzo a Porta Palazzo, alle Tre Galline. Mangiavamo in silenzio: lui non parlava molto, io neppure. Credo gli piacessi per quello: assecondavo ii suo silenzio. <<Sei come un fiume che trascina pepite nascoste>> gli dicevo. Anche Calvino non era un chiacchierone, ma con lui non legavo. Come con Geymonat: troppo noioso, un mattone. Della morte di Cesare mi sentii un pò responsabile. Quando dall’America arrivò Connie Dowling con la sorella Doris, due donne straordinarie, attrici che erano cresciute nel mondo dei radical-chic americani e di Billy Wilder, Tennessee Williams, Arthur Miller, una mia amica, la regista Dada Grimaldi, che lavorava con loro alla Rai, mi invitò a cena. lo le suggerii di dirlo anche a Cesare, che era affascinato dalle donne e dall’America. Finì che lui se ne andò con Connie, e insieme partirono per Cervinia. Ma non credo proprio che Cesare si sia ucciso per la Dowling, anche se quella poesia bellissima e terribile, Verra la morfe e avrà i tuoi occhi, l’ha scritta per lei. Penso che al suo suicidio non siano estranei motivi politici. Pavese soffriva per le chiusure che vedeva prevalere nel partito, non ne approvava il rigore ideologico, ironizzava sulla miopia di certi personaggi, che gli parevano <<inchiodati alla linea>>. Farla finita era anche un modo di chiamarsi fuori.
Togliatti, però, non era miope. Veniva spesso alle riunioni di redazione. Una mente superiore. lo dirigevo la terza pagina senza essere iscritto al partito. Il motivo era semplice: possedevo l’edizione italiana della storia del partito bolscevico, centinaia di pagine in cui il nome di Trotzky non appariva neppure una volta. Per me, che venivo dal Partito d’azione, la politica era innanzitutto rigore morale. Come potevo entrare in un partito che si basava su una menzogna così grossolana? Cosi, quando Togliatti chiese se eravamo tutti iscritti, qualcuno disse: <<No, Vallone no>>. Lui mi squadrò e sorrise:
<<Però fai una bella terza pagina>>.
In effetti ci lavoravo dodici ore al giorno. Pubblicavamo versi dei classici e dei poeti di sinistra: Catullo e Aragon, Orazio ed Eluard. La rete dei collaboratori era vastissima. Ogni tanto anche Hemingway mi mandava qualcosa. Pubblicavo disegni dei pittori torinesi: Casorati, Menzio, Moreni, Spazzapan, un uomo simpaticissimo, che passava spesso in redazione. Eravamo molto attenti alla grafica, all’impaginazione, anche perché avevamo tipografi meravigliosi. Dopo la chiusura restavo fino alle tre di notte, con Lajolo, Luraghi, Rocca, che era un ragazzino, per ribattere le ultime notizie. Ci tenevamo svegli facendo scherzi telefonici. Poi andavo a casa a piedi, verso corso Francia, con Ulisse. II direttore era Ottavio Pastore. Il più indipendente dei dirigenti comunisti torinesi. Se ne infischiava della linea del partito: portava avanti la sua, con allegria. Aveva passato anni in carcere, e quando cenavamo insieme lo guardavo con un nodo alla gola: mangiava voracemente, litigava con il cibo, come per rifarsi della fame patita in galera. Una volta rischiai di fargli venire un infarto. Ci era stata affidata una parte degli scritti di Gramsci, che il partito passava all’Einaudi per la pubblicazione. Quando restarono solo poche pagine, mi venne la tentazione di tenermele. Così dissi a Pastore: <<Guarda che non le ho più, le ho dato a te>>. Ottavio era un vecchio bianco e pallido, ma in un attimo divenne tutto rosso. Gli ho detto che stavo scherzando, e l’ho abbracciato.
La classe operaia torinese era un mito. Noi dell’<<Unità>> andavamo nelle fabbriche a parlare con gli operai del problema del linguaggio: quello dei giornali era classista: come fare per farci capire da tutti? Ricordo un pomeriggio alla Fiat Ferriere, tra gli altiforni enormi, con tre giganti in tuta che mi ricordavano mezz’ala al Toro e mi dicevano: <<Qui dentro i tedeschi non sono mai venuti a trovarci>>. Fu un periodo bellissimo. L’Italia attraversava un momento eccezionale, anni intelligenti, di grandi possibilità critiche, del dubbio elevato a sistema di indagine. Torino era chiusa e non si apriva con facilità, dovevi entrarci guadagnandoti la stima degli altri. Era vera, dura, concreta: ml ha insegnato che il fare viene prima del dire. lo ci stavo bene anche perchè ero innamorato del mio lavoro. E quando si amano le cose, di colpo si aprono vie impreviste, che non si possono lasciar perdere.
Lavoravo all’<<Unità’>> e recitavo Garcia Lorca e Büchner al teatro Gobetti. Ero un attore autodidatta: le scuole di dizione erano infrequentabili: si imparava a recitare se stessi, non il testo. Così mi ero preso Stanislavskij e gli altri testi sacri dell’Actors’ Studio e me li ero studiati per conto mio. Un giorno telefona De Santis, il regista. Dice che sta preparando un film da ambientare nelle risaie del Vercellese, ha letto una mia inchiesta sulle mondine e vuole saperne di più. Ci diamo appuntamento a Torino, lui viene con Lizzani e Puccini. Andiamo a pranzo alle Tre Galline, parliamo a lungo delle condizioni di lavoro nelle risale, io mi ero documentato, avevo delle belle foto, Lui mi racconta del film, che vuole titolare Riso amaro. Poi, dopo il dolce, per gioco chiedo a De Santis se conosce ii testamento del soldato Woyzek di Büchner, e glielo recito. Lui sta cercando volti e voci nuove per il suo film, come impone la linea del neorealismo, attori in grado di diventare personaggi autentici, sinceri, onesti. Si consulta con gli altri e mi fa: <<Che ne diresti di passare di grado, dal soldato Woyzek al sergente di Riso amaro?>>. La settimana dopo ero a Roma, a firmare un contratto per cinque anni con la Lux Film. Passai notti insonni: mi dispiaceva lasciare l’<<Unità>>, a cui avevo dato tutto me stesso. Ma ormai era fatta. Cominciava, lontano da Torino, la mia terza vita.
(Passaggio autobiografico di Raf Vallone, da I ragazzi di via Po, di Aldo Cazzullo, Mondadori, Milano, 1997).


Il debutto cinematografico, al fianco di Silvana Mangano, avviene con Riso Amaro (1948) di Giuseppe De Santis, con il quale un anno dopo girerà Non c'è pace tra gli ulivi (1949). Seguono, a breve distanza l'uno dall'altro, Cuori senza frontiere, con Gina Lollobrigida, del regista Luigi Zampa, Il cammino della speranza di Pietro Germi e Il Cristo proibito di Curzio Malaparte. Ottiene, con questi due film, insieme all'attrice Elena Varzi, che sposerà nel '52, l'Orso d'argento per la migliore interpretazione al Festival di Berlino. Tra il '53 e il '55 nasceranno tre figli: Eleonora e i due gemelli Saverio e Arabella. La sua fama, intanto, giunge all'estero: accanto a Simone Signoret lo vediamo in Teresa Raquin (Thérèse Raquin, 1953) di Marcel Carné, poi in Rosa nel fango (Rose Bernd, 1956) di Wolfgang Staudte, protagonista femminile Maria Shell. In Spagna gira Ho giurato di ucciderti (La verganza, 1958) di Juan Antonio Bardem, poi El Cid (El Cid, 1961) di Anthony Mann, insieme a Sophia Loren e Charlton Heston.
A Parigi debutta in teatro, recitando in francese, con Vu du pont (Uno sguardo dal ponte) di Arthur Miller, diretto da Peter Brook (580 le rappresentazioni). Debutto in lingua inglese, a Londra, con la stessa pièce, poi nella Royal Shakespeare Company in The Duchess of Malfi (La duchessa di Amalfi) di John Webster, regia di Adrian Noble. Ritorna al teatro in Italia con Uno sguardo dal ponte, di cui cura la traduzione, la regia e l'interpretazione. Protagonista femminile è Alida Valli. Di Arthur Miller curerà e metterà ancora in scena Il prezzo, con Mario Scaccia e Ferruccio De Ceresa, e più in là La creazione del mondo ed altre cose.
Intanto ha girato Uno sguardo dal ponte (Vu du pont, 1961) di Sidney Lumet, Il cardinale (The Cardinal, 1961) di Otto Preminger, Fedra (Phaedra, 1962) di Jules Dassin, con Melina Mercouri e Anthony Perkins. Uno sguardo dal ponte gli vale una nomination all'Oscar e un David di Donatello a Taormina.
Debutta nel 1984 al Piccolo Teatro di Milano con Nostalgia di Franz Jung, cui segue due anni dopo, sempre per la regia di Klaus Michael Gruber, La medesima strada (I presocratici). Sempre nel '84 è in Luci di bohème di Ramòn del Valle-Inclàn, diretto da Mina Mezzadri. Con un altro noto regista tedesco, Peter Stein, sarà tra gli interpreti del Tito Andronico di William Shakespeare, realizzato a Roma nel 1989 presso il Teatro dell'Ateneo. Nello stesso anno mette in scena al Teatro Eliseo di Roma Stalin di Gaston Salvatore, in cui recita il ruolo del protagonista.
E' l'unico attore italiano socio dell'Academy of Motion Picture, che annualmente decide l'assegnazione degli Oscar a Los Angeles.
E' autore di diverse regie operistiche, tra cui la Norma di Vincenzo Bellini, con Renata Scotto, rappresentata al Teatro Regio di Torino; Adriana Lecouvreur di Cilea, nella direzione di Gianandrea Gavazzeni, al Gran Teatro di San Francisco, poi al Metropolitan di New York, con Renata Scotto e Placido Domingo; La traviata al Teatro Rendano di Cosenza; Uno sguardo dal ponte, musica di Renzo Rossellini, al Teatro di Montecarlo.
Nel 1992 interpreta Il presidente di Rocco Familiari, diretto da Krzysztof Zanussi. Nelle vesti di Tommaso Moro, il dramma scespiriano di cui nel 1994 appronta una nuova traduzione per il regista Ezio Maria Caserta, appare per l'ultima volta a teatro. Nei primi mesi del '95 annuncia il suo ritiro definitivo dal palcoscenico.
(Cronologia da Alfabeto della memoria, di Raf Vallone, Gremese Editore, Roma, 2001).
 
 


L'autobiografia
è in libreria
da marzo 2001.