I PRETI
NELL'ARTE
DI REGINALDO
 

di Mariano Meligrana




E' stato Gramsci, tra gli altri, a notare come <<il contadino meridionale, se spesso è superstizioso in senso pagano, non è clericale>> e che <<l'atteggiamento del contadino verso il clero è riassunto nel detto popolare: "il prete è prete sull'altare; fuori è un uomo come tutti gli altri">>, <<cioè un uomo sottoposto alle passioni comuni (donne e danaro) e che pertanto spiritualmente non dà affidamento di discrezione e di imparzialità1>>.
Dell'atteggiamento popolare verso il clero - in verità, più complesso e variegato di quanto le rapide notazioni gramsciane consentano di stabilire - si rende interprete Reginaldo D'Agostino che in una serie di sculture e dipinti traccia una tipologia del clero meridionale, che è anche uno spaccato di vita morale e religiosa.
Il corpo come segno è la traccia che D'Agostino assume dalle culture tradizionali per proporci una semiologia del corpo clericale, che si costituisce come fonte di verità, luogo di svelamento della menzogna e di decantazione dell'ipocrisia.
Non che il corpo sia, lombrosianamente, responsabile delle azioni degli uomini, anzi esattamente il contrario; come se nello spazio corporeo si iscrivessero, con ineludibile precisione, i pensieri, le parole e le opere che ciascuno di noi pronuncia nella propria coscienza, prima di distenderli - senza il segreto ultimo che li sostiene - nella propria e comune storicità.
Il corpo del prete è il registro della sua anima, della sua coscienza, l'inventario dei suoi vizi e delle sue virtù, filtrate e ricomposte dall'immaginazione folklorica, che, certo, storicamente ha subito condizionamenti profondi nell'incontro con il clero e con la religione cattolica.
Si potrebbe dire, utilizzando un'espressione che dà il titolo a un recente libro di poesie2, che Reginaldo tracci, sulla scorta dell'atteggiamento popolare verso il clero, una <<geometria del disordine>>, una mappa fisico-spirituale della presenza del clero nei paesi della Calabria, prima del Concilio, prima dell'omologazione, prima del regime democristiano.
Sono figure di preti che condensano e verificano nei loro corpi la verità che il mondo contadino ha intuito e affidato alla fabulazione, alla metafora, alla forza rammemoratrice e sentenziale dei proverbi, sempre separando - anche quando il prete diviene e ancor più diveniva operatore magico-religioso, più vicino, quindi, alla concezione e alla sensibilità popolari - la funzione religiosa-sacramentale da quella privata, in cui l'umanità irrompe con implacabile e imparziale urgenza, a dispetto delle differenze e dei giudizi che il prete istituisce e pronuncia o di cui è garante. I proverbi invitano alla distinzione, a non confondere, a mettere tra sè e il prete una distanza di sicurezza:

Di monaci e previti sèntiti 'a missa e fuj;
Previti 'n casa mia Ddiu mu li scansa;
Cu' monaci, previti e cani statti cu' lu vastuni a li mani;
Di previti e di monaci e di cumpari di Surianu, libera nos a malo3.

E' una restituzione all'umano - la propria umanità storica - che la cultura subalterna compie nei confronti del prete, azzerando la sua presunta superiorità o differenza con la denuncia, il sospetto, la satira e risolvendola in quella dimensione comune che si vuol salvare contro gli astratti rigori e gli anatemi che non conoscono la pietà. E' un invito alla coerenza per chi, si avverte, dovrebbe testimoniare con maggiore trasparenza il proprio discorso.
Quel che colpisce nelle raffigurazioni di D'Agostino è, come si diceva, la geometria che il corpo del prete definisce, le forme che delinea, i rapporti che evoca e che denuncia. Nel corpo, spesso, si configura una parte egemonica, cui tutte le altre soggiacciono, a riprova plastica che si è perduta la primitiva armonia e si è instaurato - per riprendere il linguaggio platonico - il dominio dell'anima concupiscibile.
La pancia ricorre spesso in queste figure come punto di ricapitolazione e di confluenza di linee e tragitti asserviti, di vizi e abitudini inutilmente nascosti. Il resto del corpo si rattrappisce, si incurva, si piega, si contrae, si assottiglia, si distende, si organizza, insomma, in funzione di questa parte emergente; ne vengon fuori movimenti ed equilibri, posizioni e fughe tutte giuocate in funzione di questa grottesca centralità. Le figure di D'Agostino potrebbero intitolarsi <<Del clero o del trionfo della pancia>>.
Il motivo della pancia ingrossata, rotonda, tale da attirare, in un sistema di contrappesi sapientemente realizzato, tutto il resto del corpo, si riferisce con ogni verosimiglianza a due caratteristiche, che la cultura popolare meridionale e segnatamente calabrese attribuisce al prete: l'avidità alimentare e la voracità sessuale.
Un canto popolare calabrese le unifica in una sola denuncia:

Amaru chi ha lu previti vicinu,
u vicinanzu non si vici bene;
a duvi jungi nun ci vo lu 'nginu,
cu la vesti ti scappa lu terrinu.
U chiù chi curri 'ncuollu è alli cattive,
o puramente alli fimmini prene4.

Che il prete sia ricco, avido, vorace è motivo ricorrente nella cultura folklorica; proverbi e racconti lo riprendono frequentemente, inseguendolo in tutte le articolazioni e in tutte le situazioni in cui può esplicarsi.

Cu havi lu parrinu in casa, havi lu porcu appisu,

ricorda un proverbio siciliano5, mentre un altro, calabrese, raccomanda D'i previti 'e soru e d'i ciciari 'u brodu6. Molti racconti popolari insistono su questo tema, spesso presentando situazioni di aperta conflittualità e di sconfitta dell'avarizia. dell'accumulazione. Così, in un racconto popolare calabrese, Fra Macariu7 - ma ricordo un'altra versione che si raccontava al mio paese, Parghelia, in cui protagonista era 'n arcipreviti e antagonista il sagrestano - <<chi s'ammantenia di megghiu e megghiu e avia tutti i commudi>> viene derubato di <<tutte le cose del porco>>, che aveva ucciso e lavorato nei modi tradizionali. L'unica possibilità, per i paesani, di impossessarsi di tutto questo <<ben di Dio>> è di ricorrere al linguaggio del prete e di far sì che la loro richiesta appaia come richiesta di Dio, invito ad andare, beni e prete, in paradiso. Così, come quelli del paese, con chitarra, fischietto, organetto e zampogna vanno a suonare sopra il comignolo della casa, facendo così assumere alla loro voce un timbro angelico e alla loro richiesta la perentorietà divina. L'ascensione delle cose avviene, mentre quella di Fra Macario si interrompe bruscamente vicino alle tegole, chè i paesani tagliarono la corda, con cui avevano fatto salire la roba, facendo precipitare Fra Macario, <<comu 'nu mazzu 'i cavuli>>.
In un altro racconto calabrese. Non amplius!8 - tutto giuocato sul linguaggio (in questo caso, trattandosi del clero, il latino) come strumento di potere - un arciprete, per risparmiare sull'olio con cui condire la minestra da dare ai <<vangoti>> che potavano gli ulivi, si mette d'accordo con la serva: <<Quando io doco non amplius tu devi lasciare di mettere olio>>. Uno dei vangoti, una sera, appena il prete ebbe pronunciata la parola, quasi come grottesca risposta liturgica, prese il braccio della donna e disse: <<ampra, ampra llocu!, chè credeva che amplius voleva dire di metterne più>>. Un altro racconto popolare9, infine, ci presenta un arciprete che teneva una giara piena di denari in una camera chiusa, denari che saranno sperperati, dopo la morte del prete, da un nipote - che si era accorto spiando di questo tesoro nascosto - secondo la regola annunciata dai proverbi secondo cui

'A robba d'avaru vaji a manu d'u spregaru;
'a robba du carrucchianu s'a mance lu sciampagnuni10.

La pancia, in una situazione storica caratterizzata dalla fame, dalla scarsezza dei beni per le classi subalterne11, è un segno del potere, una delle proiezioni attraverso cui l'immaginazione popolare incarna e definisce il potere. E nella raffigurazione popolare il prete è vorace, mangione, grasso e rotondo.
Ma, oltre la voracità alimentare, vi è un'altra ragione (ma, spesso, nella costruzione folkloristica si confondono, per cui si arriva all'equivalenza indigestione-gravidanza, defecazione-parto) che alimenta la pancia del prete e che si rifà al mito dell'uomo incinto. Il prete, per la frequentazione con le donne, che ad altri uomini è - ancor più lo era - inibita, per il fatto che indossi la veste, per il suo celibato è assimilato, per certi versi, alla donna; o, meglio, viene avvertito come una sorta di ermafrodito culturale, una figura in cui, in qualche modo, si realizza l'indistinzione dei sessi, ripetendo il mito arcaico dell'androginia. Il motivo dell'uomo gravido vede spesso nel folklore letterario, come protagonista appunto il prete, che, attraverso il suo ermafroditismo, può porsi come fonte e garante dell'ordine fondato sulla distinzione dei sessi12.
Una sorte di legge del contrappreso - alimentata dal gusto satirico popolare - lo condanna a subire in corpore le conseguenze della sua voracità sessuale. E' una rivincita della corporeità, contro la svalutazione che di essa ha fatto la chiesa cattolica. Attraverso il motivo del prete gravido la satira folklorica inchioda a una paradossale coerenza e riporta a radicale demistificazione la <<doppia verità>> del prete, la divaricazione tra comportamento e discorso. Il corpo è luogo di verità, di teatralizzazione del nascosto.
E che il D'Agostino abbia colto la verità del corpo, la sua vocazione teatrale lo si può, aggiuntivamente, desumere da un episodio cui ho avuto modo di assistere nella baracca-bottega di Spilinga. Ho visto Reginaldo mettere uno accanto all'altro (e le forme entravano in tensione e anelavano a più ampia, integrata spazialità) due piccole statue di preti e parlare per loro, come un antico puparo, come se avesse avvertito, partendo da quella pietrificazione, l'esigenza di risalire, di integrarle in una dialogicità, che era, poi, un modo per restituire alla storicità paesana il passato che la sua memosria di artista aveva amorevolmente recuperato.
Una fiaba siciliana, raccolta a Terrasini, in provincia di Palermo, da Giuseppe Pitrè, narra che

<<c'era una volta un prete, che aveva due camerieri, uno maschio e una femmina.
Questo prete era molto fastidioso e i camerieri mom sapevano come fare.
Un giorno la cameriera si rivolge al servo e gli dice:
"Questo padrone non si può sopportare.
Che ne direste se prendessimo uno scarafaggio e lo mettessimo dentro il letto?
Così lo scarafaggio gli si infila nel didietro e noi ritroviamo forse un pò di pace".
"Bella! Bella!" dice il servo. Ecco che il prete la sera se ne andò a letto:
si sente pizzicare la pancia, povero prete.
Dice "E che può essere?..Ah che sono gravido!..gravido, gravido sono!!...". E si credette gravido.
Passa un giorno e va da una sua penitente.
"Ditemi, comaruzza: avete abortito mai?" "Sissignore, padre mio: una volta".
"E con che?" le chiese il prete. "Con una cassata".
Il prete, poveretto, va a casa: chiama il servo (mettiamo che si chiama Peppi):
"Peppi, tieni dodici tarì; va a prendermi una cassata".
"Peppi", dice il prete, "mangiatela insieme a Vanna" (che il prete voleva abortire).
Il servo non voleva, ma alla fine, a forza di dire, lui no e il prete sì, se la dovette mangiare.
Povero prete, aveva i dolori; lo stomaco gli andava ingrossando e di abortire non se ne parlava.
Un giorno va da un'altra sua penitente: "Comaruzza, avete abortito mai?".
"Sissignore, padre, una volta". "E con che?"
"Una volta caddi dalla scala e neanche passò un'ora che espulsi ciò che avevo".
Il prete va a casa: "Peppi, Vanna, venite qui" (era sul pianerottolo);
"datemi un calcio e uno spintone in modo che vada a finire ai piedi della scala".
"Sua Reverenza che dice!" rispondono.
"Questo noi non lo facciamo nè ora nè mai". E 'si che lo dovete fare" e "no, che non lo vogliamo fare";
poveri servi, dovettero fare sette per forza:
Peppi lo getta con un calcio, Vanna con uno spintone: gli fecero contare tutti i gradini.
"Ahi! muoio! che dolore!" immaginandosi di abortire.
Corrono i camerieri, lo alzano e lo portano nel letto. Resta due giorni coricato, ma non viene fuori niente.
Passati i due giorni si alza e va da un'altra sua penitente: "Comaruzza, avete abortito mai?"
"Sissignore, una volta". "E con che?". "Con tre onze di sale inglese".
Va a casa e si fa comperare mezzo rotolo di sale inglese e lo ingoia, bevendoci sopra moltissima acqua.
In capo a due ore gli scoppia un gran dolore di stomaco che sembrava morisse.
Sul più bello gli viene di andare di corpo, si siede sul pitale e lì stava per espellere le budella.
Quando si alzò, va per guardare nel pitale e vede una cosa nera;
si gira e dice:
"Ah figlio mio, ti ho fatto con il sottanino! Quanto ho patito per te!.
Corrono i camerieri: - "Sua Reverenza che ha qualcosa?"
"Non lo vedete che ho figliato e ho fatto un bambino anche con la sottanina?".
"Ma sua Reverenza che dice?...Questo è scarafaggio!".
"Che scarafaggio e scarafaggio!...": Ma non valeva niente dire che era scarafaggio.
Il prete restò convinto che aveva fatto un bambino con la sottanina;
e credo che lo creda ancora13.

Non si può fare a meno di notare, sia pure di sfuggita, la circostanza che sia una donna l'ideatrice della beffa e, inoltre, l'insistenza sul motivo dell'aborto e il ricorso allo stato di necessità per mitigare l'astrattezza della norma che si ponga come principio assoluto e confortare in qualche modo contro un facile, impietosa giudicatività le ragioni del peccato. E' un'inversione di ruoli, di situazioni in cui la critica folklorica raggiunge il culmine della sua tensione contestativa14.
Non è forse estranea, d'altronde, in questa mitologia popolare l'antica percezione di un collegamento tra l'ermafroditismo e la funzione di psicopompo, di guidatore delle anime, di figura ambivalentemente vicina alla morte e ai morti, che il prete incarna15. Si vedrebbe, allora, la cultura folklorica tradizionale tradire il suo ineludibile rapporto con la morte, la sua costitutiva religiosità e il riso perderebbe la sua esclusività gioiosa per mostrarsi nella sua estrema ragione di esorcismo, di fattore di contestazione e di liberazione. Il tragitto è lungo, complesso, tortuoso. Sembra proprio che i preti di Reginaldo D'Agostino conservino questo linguaggio e lo risillabino con la perentorietà delle forme, con il loro potere evocativo.
 
 

NOTE

1A. Gramsci, La questione meridionale, a cura di F. De felice e V. Parlato, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp.151-152.
2 E' il titolo di un libro di M. Luisa Spaziani (Milano, Mondadori, 1981).
3 Tutti questi proverbi sono stati ripresi da Luigi M. Lombardi Satriani, Contenuti ambivalenti del folklore calabrese: ribellione e accettazione nella realtà subalterna, Messina, Peloritana, 1968, p.101.
4 Infelice chi ha il prete come vicino di casa; / il vicinato non vive più in pace / dove lui arriva non c'è bisogno dell'uncino, / col vestito se ne va anche il terreno davanti a te. / Corre addosso specialmente alle vedove / oppure alle donne incinte. In D. Scarfoglio, Poesia erotica popolare in Calabria, Cosenza, Brenner, 1980, p.76. La traduzione è dello stesso Scarfoglio.
5 Riportato da R. Zapperi, L'uomo incinto - La donna, l'uomo e il potere, Cosenza, Lerici, 1979, p.19.
6 Ripreso da Luigi M. Lombardi Satriani, op. cit., p.101.
7 R. Lombardi Satriani, Racconti popolari calabresi, vol. IV, Cosenza, Brenner, pp.109-111.
8 Ibidem, pp.79-81.
9 Ibidem, pp.167-168.
10 Luigi M. Lombardi Satriani, op. cit., p.139.
11 Per il regime alimentare delle classi subalterne in Calabria, e in particolare nella zona delle Serre, si rinvia a Vito Teti, Il pane, le beffa e la festa, Firenze, Guaraldi, 1976.
12 Per tutti questi aspetti vedi R. Zapperi, op. cit..
13 G. Pitrè, Fiabe e leggende popolari siciliane, Palermo, 1888, pp.297-299; rip. da R. Zapperi, op. cit., pp.14-15. L'ho riportata nella traduzione di Zapperi.
14 Per la concezione del folklore come cultura di contestazione v. Luigi M. Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Milano, Rizzoli, 1980.
15 Sul rapporto ermafroditismo-psicopompo, con particolare riferimento alla figura di Pulcinella, v. A. Rossi-R. De Simone, Carnevale si chiamava Vincenzo, Roma, De Luca, 1977, pp.183-208.