In due antichi dipinti i ritratti di Dragut Rais, autore dell'incursione di Ceramiti, e di Kareiddin
Barbarossa, che da semplice corsaro ottenne l'ammiragliato nella flotta  dell'Impero Ottomano.
 

Tropea
e
le scorrerie saracene

di Giuseppe Chiapparo
(1954)


Al principio del secolo IX, dai porti onde un tempo salpavano le flotte puniche, alcuni popoli barbari sotto la guida di capi audaci, uscivano ad infestare l'Europa, spargendo terrore, desolazione e morte. Erano costoro i pirati saraceni, i quali, non contenti di aver conquistato una parte della Spagna e altre terre, dalla vicina Sicilia, spingevano le flotte a predare sui nostri lidi.
Essi riuscirono, nell'anno 868, ad occupare Bisignano, Cosenza, Cassano, Rosarno, S. Severina, Stilo, Squillace e Tropea: quest'ultima fu poi liberata dal loro giogo da Niceforo Foca, generale dell'imperatore bizantino Basilio.
Nel 906, guidati da Olbek1 espugnarono Catanzaro, massacrando molti abitanti, e, dopo averne predato l'oro, l'argento e le suppellettili preziose, trassero in schiavitù parecchi cittadini a Squillace, donde, per compiere tale vandalica impresa s'erano partiti.
Una insurrezione generale di popolo, avvenuta nel 921, costrinse questi predoni ad abbandonare la Calabria: ma essi, l'anno seguente, condotti da un certo Mikael <<A scabio>>, capo dei Saraceni di Calabria, ritornarono nelle nostre contrade, che misero a sacco e fuoco. Questa volta, però, furono definitivamente cacciati nel 934, in seguito ad una nuova insurrezione popolare. Ciò non pertanto essi continuarono contro i nostri paesi litoranei le loro incursioni onde le popolazioni delle marine joniche, per sottrarsi alla loro ferocia si ritirarono sui monti, dando così origine ad altri paesi. Per questo motivo avvenne l'esodo dei Bizantini da Crotalla e da Lisitania1, siti alla foce del Corace, prima sul colle di S. Maria di Zarapotamo, e poi sul Trivonà, ove, verso la fine del IX secolo fondarono Catanzaron, voce di puro ellenismo bizantino, diventato poi, nelle carte latine, Catanzarum o Catanzarium e poi il moderno Catanzaro, che nel basso medio evo si disse Catacium, ad imitazione di Scyllacium.
Il monaco calabrese Arnulfo2, detto il <<Saracino calabro>> attesta che nel 946 i Saraceni occuparono per altro tempo Tropea, e nel 985 dopo aver devastato la Puglia e la Calabria, la rioccuparono per la terza ed ultima volta.
Non conosciamo l'entità dei danni subiti da questa città durante le tre occupazioni, ma certo dovette soffrire non poco, sotto la tirannia di quella gente, avida solo di fare prede, e di cui ci sono rimasti dei ricordi, come le tombe, che di tanto in tanto qua e là si rinvengono, e di una grotta incavata nella roccia, la quale trovasi nella tenuta Adilardi, presso il villaggio di Santa Domenica.
Non sappiamo a quale strano uso dovesse servire, ma gli studiosi potrebbero intuirlo, poichè sulla porta della parete, con cui è divisa in due stanze, oggi adibita a fienile e stalla, ci sta scalfita una parola che interpretata vuol dire <<Falarides>>.
Fu proprio in questa epoca che i bizantini, sia per consolidare il possesso della città, che per meglio difenderla dai probabili ulteriori attacchi dei Saraceni, dovettero far costruire una metà della cinta di mura da cui, dal lato di terra, era circondata totalmente fino a pochi anni fa. Ciò è confermato dal fatto che durante i lavori di demolizione d'una parte di queste mura, un operaio rinvenne una moneta di rame del valore di un soldo, che il Fiorelli, direttore del Museo di Napoli, avutala in esame dall'ammiraglio conte Napoleone Scrugli, attribuì all'imperatore Giovanni I Zenisce (nde: nome riportato dallo Scrugli. E' più comune Zimisce o Zimiscete. Si tratta di imperatore bizantino, ex generale di Niceforo II Foca, cui succedette dopo averlo assassinato) che regnò dal 959 al 9763.
Il re Ferdinando il Cattolico, considerando l'importanza che Tropea aveva nel regno di Napoli, oltre a concederle il 28 Febbraio 1506, dei grandi privilegi, che sono riportati dallo Scrugli nelle sue <<Notizie su Portercole e Tropea>> a pag. 50, volle meglio fortificarla e fece aggiungere alle mura di cinta i merli e le cannoniere, e dispose pure che fosse costruita una torre che fu detta <<Mastrà>>3.
Di costruzione più recente era la torre Lunga3, che sorgeva sul piano del castello. Essa probabilmente doveva essere una delle 366 torri, fatte edificare, una in vista all'altra, sul litorale del vicereame di Napoli, da Don Pietro di Toledo nell'anno 1537. Su ciascuna di dette torri stanziavano continuamente due uomini armati, detti torrieri, ai quali era devoluto l'incarico di impedire per quanto fosse in loro, lo sbarco dei corsari, i quali spesso piombavano all'improvviso sui nostri paesi rivieraschi e li depredavano.
Nel caso che di notte avvistassero delle navi barbaresche, questi uomini dovevano darne avviso agli abitanti dei paesi contigui con fuochi pirotecnici, affinchè si tenessero preparati alla difesa, oppure cercassero di mettere in salvo la loro roba. Vi erano poi, nelle marine aperte, delle guardie a cavallo, dette cavallari, le quali dovevano impedire qualsiasi eventuale sbarco di pirati. Se non avessero potuto far ciò, sarebbero dovuti fuggire, dando avviso agli uomini di guardia delle suddette torri con grida e con spari.
A quest'epoca deve rimontare il noto canto popolare che comincia coi seguenti versi:

All'armi! all'armi! la campana sona,
Li Turchi sù arrivati alla marina.

Qui torna acconcio parlare d'un miracolo operato da S. Domenica V. e M. Tropeana, durante una incursione barbaresca, guidata, se non dal pirata Barbarossa, da Dragut Rais, contro il vicino villaggio di Ciaramite.
Ecco il miracolo che in proposito ne fa il gesuita Barone4,

<<Eransi le galee, o fuste di Tunisi, in conserva di altri legni pur turchesche, di notte tempo nascoste sotto una punta, che sorge in mare, nel luogo detto le Formicole dai paesani, per corruzione del vocabolo antico e suo proprio di Forum Herculis.
E così chiamavanlo a cagione di una famosa fiera, ivi solita a bandire in Honor di Hercole, che quivi da presso in un magnifico tempio e per gli oracoli, che vi si davano, celebratissimo, era dai Tropeani adorato, qual proprio Dio del paese, e primo Fondatore e Padre della città. Hor attendendo i barbari l'opportunità di qualche preda, s'avvidero sopra d'una vicina collinetta di molti lumi, et accesero faci: e saggiamente giudicarono di qualche villaggio e di molta gente ivi accolta, verso colà, per brama di qualche bottino, cheti s'incamminarono. E tanto nel villaggio, che con greca voce Ciaramite chiamano, punto di molta gente accoltavi, tutto era vero che a quella ora al lume di fiaccole ardenti et al cielo aperto, si celebravano, festeggiando con balli e canti, le nozze di due paesani, e senza nulla temer disastroso, lietissimi. Quando d'improvviso furono loro sopra i Turchi: e tutti, uomini, donne, fanciulli e fanciulle che parte ballavano parte assistevano al ballo, a man salva gli debbono schiavi; e tra essi anche i due sposi gravati a un tempo da due legami, da que' del matrimonio e da que' della schiavitudine: catene amendue dure, non saprei quale di più, se non che paiano più dure, quelle del matrimonio perchè sono più indissolubili. Lieti dunque della preda fatta ma non già paghi; nel far ritorno a' legni vollero dar sopra al casale della Santa, che era tra via, come interrogandoli da' presi riseppero. Messi s'erano que' del paese, in niun timore di cosa sinistra, a profondamente dormire, ma per essi, et a difesa del suo villaggio vegghiava Domenica.
Percò avvicinandosi i rei ladroni, andò Ella, o vi mandò Angioli a suonar allarmi con le campane del luogo, e con quelle singolarmente della sua Chiesa: col cui suono gettato sopra de' Turchi, credutisi già scoperti, un gran timore cacciolli in fuga onde montati su i legni salparono.
Destaronsi ancor al suon gli abitatori: i quali non trovatene la cagione, rimasero ammiratissimi, fino a tanto che da' cattivi, riavuta la libertà, e ritornati a casa, riseppero il gran miracolo >>.
Sotto il medesimo Dragut Rais5, il quale fu ucciso probabilmente a Palmi verso il 1565, si crede avvenuta l'incursione contro il villaggio di Parghelia, dove ancora il Santuario della Madonna di Portosalvo, si conserva a ricordo, un elmo tolto ad un pirata.
Nel 1534, Kareiddin Barbarossa, con le sue scorrerie, riempiva di terrore i regni di Spagna e di Napoli. Egli fu pure in Tropea, ove dimorava la moglie Flavia Gaetani, figlia del Governatore di Reggio.
Allora l'imperatore Carlo V dette ordine a Leonardo Tropeano, suo Somigliere di Corte che d'accordo col governatore della città, curasse munirla dei mezzi di difesa onde poter resistere all'invasione che il Barbarossa minacciava.
Kareiddin Barbarossa6, che esordì da semplice corsaro, riuscì ad impadronirsi di Algeri e per poterne mantenere il possesso, si mise sotto la protezione di Solimano, imperatore dei Turchi. Divenuto, in seguito ammiraglio di quest'ultimo sbalzò dal trono di Tunisi Mulej Hassen, il quale implorò l'aiuto di Carlo V. Costui glielo concesse cogliendo così l'occasione di poter far cessare una buona volta i danni ed i terrori che il Barbarossa incuteva agli abitanti dei suoi regni. Infatti allestì una flotta di 500 galere con trentamila guerrieri, e fece vela per Tunisi, ove riuscì a sconfiggere il nemico e a ridare il potere al detronizzto Mulej Hassen.
A questa spedizione presero parte alcune galere tropeane, che la città inviò spontaneamente, per dimostrare all'imperatore i sensi della sua profonda gratitudine pei benefici da lui ricevuti.
Ottenuta la vittoria, Carlo V, nel ritorno in Ispagna, volle recarsi per la prima volta a Napoli, e, trovandosi a passare con le sue navi per il mare nostro, decise di fermarsi in Tropea, ove ebbe lieta accoglienza. Seguendo l'usanza di quei tempi, i cittadini gli offrirono un sacchetto di seta, pieno di monete d'oro: ma il grande monarca lo rifiutò, e, con atto munifico ne aggiunse altre, ordinando che con quel danaro si costruisse il convento dell'Annunziata, che oggi, sebbene diruto, è monumento nazionale.
La tradizione popolare vuole invece che, durante la navigazione una fiera procella sorprendesse di notte il naviglio imperiale proprio nelle vicinanze di Tropea. I frati di un piccolo romitorio, sito a ponente della città, vedendo il pericolo che correvano le navi, si misero a suonare a distesa la campana e ad invocare da Dio la salvezza pei poveri naviganti. La squilla giunse fino all'orecchio di Carlo V, il quale, giustamente pensando che da quel luogo si implorava l'Altissimo in suo favore, fece voto di far edificare al posto del romitorio un grande convento, di cui oggi possiamo contemplare solo i ruderi.
Ed ora per finire raccontiamo il seguente aneddoto curioso. Dopo che i Normanni debellarono e scacciarono per sempre i saraceni dalla Sicilia7, gli abitanti, che sotto il loro giogo avevano sofferto come i Calabresi, ogni sorta di vessazioni e di soprusi, pensarono metterli in caricatura. Per esigere i tributi, i Saraceni usavano mandare in giro per i paesi un moro su di un cammello. Questa figura si prestava molto bene al loro intento; costruirono un cammello di carta pesta, senza gambe, con un foro sul dorso, da cui vi passava, dalla cinta in su, il corpo di un uomo il quale, vestito alla foggia saracena e con la faccia tinta in nero, per imitare il moro esattore dei tributi, al suono della tradizionale caricatumbula, andava caracollando su quello strano animale, (detto Camiju), per le vie dei paesi, quando si faceva qualche festa, destando fra i villici molta ilarità.
Ben presto questo scherzo popolare attecchì in vari paesi della Calabria e particolarmante in Tropea. I lettori tropeani ricorderanno che non sono passati molti anni da quando l'ultimo Camiaru <<Sergio Flavio>> rallegrava durante le varie feste del luogo col suo bravo Camiju il popolino e, perchè no?, anche i signori, traendosi appresso un codazzo di ragazzi. Nei nostri villaggi una volta non c'era festa senza il tradizionale Camiju, portato in giro dal detto Flavio, il quale, durante la consacrazione della Messa cantata stando innanzi la porta della Chiesa, doveva far fare alla bestia tre grandi riverenze, mentre il fuochista, da parte sua, sparava i mortaretti. Egli, poi, aveva costruito uno speciale Camiju che, per mezzo di un congegno, poteva aprire e chiudere la bocca. In proposito si racconta che in Zaccanopoli, celebrandosi una festa, Sergio Flavi, con questo Camiju faceva il suo giro trionfale per le viuzze del villaggio, quando si avvide di una vecchierella, che se ne stava affacciata ad una finestra per godersi lo spettacolo. Non appena fu presso la casetta, tanto per far ridere la gente, stese verso quella povera massara il collo del Camiju e poi gli fece spalancare fortemente la bocca. L'ingenua donna, credendo che il Camiju volesse far di lei un boccone, tutta piena di spavento, esclamò: O jesu, pigghiati l'anima, cà lu corpu si lu mangia lu Camiju!...
In seguito i pirotecnici locali, ad imitazione del Camiju di Flavio, divenuto famoso per tutto il circondario, costruirono il camijuzzo di fuoco, che ancor oggi si fa ballare a suon di tamburo, alla fine degli spari e degli altri fuochi d'artificio.
 

NOTE
1 Sinopoli, La Calabria - parte I, Catanzaro, Mauro p. 21.
2 Scrugli, Notizie su Portercole e Tropea, Napoli, Morano 1891 p. 25.
3 Op. Cit., p. 26.
4 Taccone Gallucci, Il culto dei martiri in Calabria, Napoli, Lanciano e C. 1905 pag. 50.
5 Op. Cit. pag. 52.
6 Scrugli, Op. Cit. p. 54.
7 Idem p. 29.