ASSEDIO  DEL MONASTERO
DELLA SS. ANNUNZIATA IN NICOTERA
- Un ultimo episodio della tentata ribellione
di Fra Tommaso Campanella -
 

Diego Corso
(1913)


La notizia della tentata ribellione di Fra Tommaso Campanella può dirsi ormai ben nota, se non in tutti i particolari, almeno nei tratti generali.
Dalla narrazione dei fatti, messi in luce dai documenti esaminati dal Prof. Luigi Amabile1, ingiustamente dimenticato in questo fiorire di studi storici, nulla si rileva intorno all'assedio del monastero dei Domenicani in Nicotera.
Pochi fuorgiudicati si erano ivi rifugiati come in luogo di sicurtà, ma denunziati alla Regia Audiencia di Catanzaro, vennero stretti di assedio per ordine del Governatore Generale di Calabria, don Garzia di Toledo.
L'efferata violenza della fazione e le violate immunità del sacro asilo spinsero la Curia Vescovile di Nicotera ad istruire un processo ed apporre in Piazza Porta Grande i ceduloni di scomunica contro i delinquenti.
Di questo clamoroso processo poche pagine manoscritte sono pervenute sino a noi, le ultime del fascicolo; e da esse si desumono le circostanze che riflettono l'assedio, la cattura degli inquisiti e l'uccisione di uno di essi, nonchè l'assoluzione della censura, nella quale erano incorsi parecchi capi assedianti e violatori delle immunità del sacro asilo.

I

Nei primi anni del secolo XVII la Calabria venne turbata da una congiura promossa e diretta dal monaco Fra Tommaso Campanella.
Le oppressioni del governo spagnuolo, la miseria crescente ed il malcontento dei popoli fecero raddoppiare il rigore della polizia e le sue persecuzioni; e per tali angherie e vessazioni l'avvilimento dei nostri popoli era giunto al colmo.
Fra Tommaso, di mente agile, d'ingegno acuto, di opinioni sospette, indisciplinato sempre, reduce dai conventi di Padova, di Bologna e di Firenze, venne imprigionato in Roma; ma ritrattatosi, per ordine del Tribunale dell'Inquisizione, in obbedienza alla disciplina ecclesiastica, venne relegato nel piccolo convento di Stilo, sua patria.
Una vita nuova in quei tempi si agitava nei monasteri, e la bianca lana dei frati di S. Domenico era segnale di vita e di risorgimento. Nella quiete del chiostro, cogitativo e silenzioso, Fra Tommaso era intento allo studio delle opere del Telesio. Là egli dette saggio di operosità, e a simiglianza del grande calabrese, prese a guida la natura delle cose con la libertà del filosofare.
In quel torno di tempo dal valvassore al povero, tutto era impregnato di prepotenza e di fiscalismo. La gente laica per menare vita rispettata, immune dai rigori delle leggi e del pagamento delle tasse, oltre il frequentare i monasteri, sull'esempio del monachismo indossava spesso la cocolla del frate ed il ferraiuolo del chierico.
Il Campanella, di spirito audace, innovatore coraggioso e perseverante, ebbe l'idea di una rinnovazione politica. Gravati i popoli per le tante contribuzioni e per una nuova numerazione allora eseguita, la Calabria piena di malcontento, sentiva il bisogno di sollevarsi da tanta abiezione. Il Campanella, tenendo viva fede in eventi straordinari ed in una missione altissima da compiere, ed alla quale credevasi destinato, si dette a far propaganda fra gli amici di un pensiero generoso ed umano, necessario a sottrarre le nostre regioni, provincia di lontano regno, dal dominio della Spagna.
Vero precursore dei tempi nuovi, fu uno dei promotori del rinnovamento morale dei nostri popoli che preluse alla rivoluzione del 1789. Egli seppe ispirare un vivo entusiasmo in uomini come Maurizio De Rinaldis, Marco Antonio Contestabile, Claudio Crispo, Cesare Mileri, Orazio Santacroce, Cesare Pisano, Prestinace ed altri cittadini di ogni classe.
Così raffermossi l'idea di una congiura nell'intesa di sottrarre la Calabria al dominio degli Spagnuoli che la sfruttavano crudelmente. E ricordo di ciò è la frase di quel Vicerè che, con impudenza straordinaria, appellava la Calabria <<le Indie del regno>>.
Si sobillava che le file della congiura da Stilo si estendessero in Catanzaro, Taverna, Squillace, Girifalco, Crotone, Cosenza, Castrovillari, Nicastro, Tropea, Cassano, Oppido e Terranova. Si noveravano fra i congiurati parecchi vescovi, molti baroni, circa 300 frati, i quali dovevano secondare il movimento dei popoli, caldeggiando l'impresa col braccio di 1800 banditi, che scorazzavano nelle foreste della Calabria e con l'aiuto di Sinan Pascià, della Casa Cicala calabrese, in quel tempo ammiraglio di Amurat III.
Molte circostanze concorsero a far credere vero il tentativo di fare della Calabria una repubblica, segnatamente le dottrine del Campanella, il proselitismo di frate Ponzio, la autorità di parecchi illustri cittadini con una grossa mano di fuorusciti di ogni classe.
Questo nobile disegno prese consistenza nel convegno di Davoli, ove di discusse il progetto e si fece palese il piano di una rivolta contro il servaggio straniero. Attratte e suggestionate quelle masse dal fascino eloquente del Campanella, inaugurarono con fervore ed entusiasmo i preparativi per irrompere contro il mal governo e proclamare la repubblica.
Presiedeva Maurizio de Rinaldis, facoltoso cittadino di Guardavalle, anima e braccio del movimento, il quale si dette a sollecitare amici e raccogliere aderenti. In un giro per i paesi e casali di sua generosa impresa. In Tropea riunì un Tranfo, un Furci, un Loiacono, un Polito, un Iannello, un Barbieri; in Montesanto i fratelli Carlo e Fabrizio Bravo; in Ricadi un Giovanbattista Soldano; in Nicotera un Orazio Paparatto; in Oppido i fratelli Moretti; in Nicastro Giovanbattista Bonazzo; in Motta Filocastro un Valerio Bruno ed un Giulio Soldaniero e molti altri dei paesi limitrofi che sarebbe lungo ricordare2.
La data era indetta pel 31 agosto 1600, giusta le deposizioni di Lauro e di Biblia, e secondo altri per la notte del 10 settembre di quello stesso anno. Il Vicerè, duca di Lemos, venuto a conoscenza di questo movimento, spediva in Calabria Carlo Spinelli in compagnia di Luigi Xarava e altri commissari, che poi si sono ingranditi sulle sciagure del proprio paese.
Lo sbarco dello Spinelli in Calabria, le scellerate defezioni in Catanzaro, e quelle più malvage di Stilo e dei casali circostanti, svelarono lo stato di cose, le quali più ingigantirono sì tosto si seppe della corsa di Fra Dionisio a Stilo e la quasi fuga del Campanella a Stignano.
Si compilò il processo come si volle dal governo, coi più iniqui maneggi, suggeriti dall'odio dei frati contro il Campanella, raccogliendo le deposizioni dei tristi, dei deboli e dei traditori. Fra Marco Marcianise e Fra Cornelio da Nizza, inquisitori, collo Spinelli e lo Xarava prepararono una requisitoria perversa con deferenza verso gli ufficiali regi.
Per tal modo ribadite tante atroci accuse, incriminati Campanella, gli ecclesiastici e moltissimi laici, si assodava la esistenza della congiura e si scopriva l'eresia, cosa sino allora ignorata dal governo. Al Campanella s'imputò che come settario, tramava contro l'autorità della Chiesa cattolica, congiurando altresì per la espulsione degli Spagnuoli dal regno con l'aiuto di Sinan Cicala, rinnegato calabrese, ed ammiraglio dei Turchi, e che volesse impadronirsi dei castelli di Stilo, di Castelvetere e Gerace.
Compilato il processo, molti esularono, e di coloro che non potettero riscattarsi con denaro ne seguì l'arresto con esempi di terrore, non ostante le dichiarazioni del Campanella; il quale, in quella voluta congiura, vi figurava come colui che vi aveva dato innocente occasione col parlar di profezie, di presagi, di mutazioni prossime, ed anche un poco col consigliare la gente di arme a trovarsi armata e in buon numero come quella che si mostrava propensa e favorevole3.
Le dichiarazioni di pochi testimoni, uomini di provata fede, valsero a diminuire le esagerate denunzie di Lauro e di Biblia, i quali avevano dichiarato che Maurizio de Rinaldis comandasse 2000 persone armate, che dovevano impadronirsi dei castelli di Gerace, di Castelvetere e di Squillace, e saccheggiare Catanzaro e mettersi a capo del moto repubblicano.
Intanto lo Spinelli aveva chiesto al Vicerè l'invio di due feluche lungo la marina del Tirreno per impedire ai colpevoli la fuga, e dava incarico ad individui muniti di guidatico, di scorrere per le campagne, in comitive armate per arrestare gl'inquisiti.
Tra i compromessi politici erano già in arresto 156, dei quali 86 rei confessi da non poter sottrarsi alla pena di morte, gli altri erano indiziati, oltre 25 fuorusciti e 32 ecclesiastici con un chierico selvatico4.

II

La nostra provincia, ritenuta colpevole di tentata ribellione5, macchiata di eresia e responsabile di tale infamia, non ebbe mente adeguata alla grandezza dell'impresa, la quale secondo il Fiorentino fu una gloria della Calabria, e come il Campanella istesso con dolore affermava, quando scrisse che i congiurati deboli e pusillanimi <<guastarono ogni pensier grande>>6.
Abbiosciato il popolo sotto il peso della miseria, gravato da tante contribuzioni era disposto a blandire il fisco per ottenere favori e perdono. Ma il nembo addensandosi, scatenossi sulla provincia.
Carlo Spinelli, il crudele repressore, e Luigi Xarava, il feroce avvocato fiscale, coi frati inquisitori Marco Marcianise e Cornelio da Nizza, ligi al governo viceregale, ipregnati di prepotenza, la esercitarono opnformemente ai tempi. Accusata di fellonia la Calabria, e dichiarata responsabile di un tristo errore, ordito da un gruppo d'individui, stigmatizzata dalla legge, con tal falso giudizio veniva scelleratamente incolpata dalla pubblica opinione. Molti ecclesiastici avversati per odio dai frati vennero denunziati, e poscia torturati e tenagliati nelle prigioni di Squilloce e di Gerace, mentre i laici più indiziati, deportati in Catanzaro dopo un giudizio sommario, vennero impiccati.
Per tal modo continuò ferocemente la repressione dei fuorusciti. Il Vicerè dette ordine a don Garzia di Toledo che con quattro galere raccogliesse i soldati inviati a Lipari ed in altri posti e si dirigesse a Scalea, e di là al Pizzo per avvertire lo Spinelli a volersi recare ad uno di quei posti con tutti i carcerati per imbarcarsi con loro e tradurli in Napoli.
Don Garzia di Toledo inviato dal Vicerè come capitano generale delle armi in Calabria, rivestito di pieni poteri, spalleggiato da spie, da sorveglianti e da commissari di affrettò ad estirpare i fuorusciti coll'annettere la provincia dai ribelli.
Stavano così le cose quando venne in conoscenza che nel monastero dei Domenicani in Nicotera si erano nascosti parecchi fuorusciti.
Bastò la semplice nuova perchè fosse dato l'ordine di stringere di assedio il monastero, malgrado le immunità del sacro luogo, fu pubblicato, per bando, il provvedimento che ad ogni suonata di campana all'armi, tutte le genti bene armate dovessero uscire al seguito dei rispettivi superiori in persecuzione e cattura dei delinquenti per non far loro prendere la fuga.
Sull'imbrunire del 13 novembre 1602 il Vicario Generale della Diocesi, Dott. Scipione Mazza, in compagnia del cancelliere della Curia Vescovile, recossi al monastero fuori la città, che era in stato d'assedio. Egli intervenne da mediatore per calmare le parti a fine di evitare strage. Forte della sua posizione, ricordò al Viceconte ed ai sottocapi le prerogative del sacro asilo e le censure nelle quali sarebbero incorsi, violandole. Insolenti a quei detti il Viceconte e profferendo ingiurie e invettive contro il Vicario lo allontanò. Rientrato questi nell'episcopio riferì al vescovo le ingiurie e la violenza patita. L'Ordinario Monsignor Capece fece scivere un monitorio, che nel seguente dì venne intimato dal diacono selvatico Mercurio Bondi in compagnia dell'altro diacono Giovanni Fiscandino e degli inservienti della corte vescovile, Andrea Caparra e Giambattista Pizzoni, al Viceconte Germano Coppola, nonchè ai sottocapi delle genti armate, che stavano in assedio intorno al monastero della SS. Annunziata.
Questo atto imperioso inasprì gli animi della fazione e dei gragari, i quali intimarono gli arresti al Bondi perchè perquisito fu trovato asportatore di pugnale, e venne consegnato al castellano Marcello Buccafresca perchè lo custodisse nelle prigioni del castello a disposizione della giustizia.
Erano scorsi pochi giorni dalla intima del bando, e sonata la campana all'armi, la fazione si mosse all'assalto. La gente di armi corse sollecita con scale, pali, spatange e schioppi facendo impeto contro gli assediati. Dopo tre giorni di assalti, scalate le finestre, atterrate le porte entrarono nel confugio esplodendo molte scioppettate. Nella colluttazione venne ucciso Giovabattista Soldano, cui fu reciso il capo; e furono tratti dal confugio gli inquisiti Francesco Romano e Giuseppe Cesareo che vennero assicurati nelle prigioni del castello.
Da qui le ire della corte vescovile, che nel 19 Dicembre 1602 fece apporre i ceduloni di scomunica in Porta Grande contro i malfattori e violatori delle immunità ecclesiastiche per avere osato scalare le finestre ed abbattere le porte del monastero della SS. Annunziata, traendo in arresto i confugiati e per avere ucciso nel medesimo confugio Giovanbattista Soldano <<intus eodem monasterium et caput de eius scapulis obtruncare in contemptu Iuris et Immunitatis Ecclesiasticae et ordinum huius nostrae episcopalis Curiae saepius ipsis intimatorum oretenus et in scriptis ut in actis... et caet>>.
Dopo lungo procedimento l'Ordinario, Monsignor Capece, fece assolvere i rei ed i complici, i quali oltre le somme pagate in pena della condanna subita, purgati ed assoluti dalle censure, dovettero sborsare ducati cento (L. 425,00) per suffragare l'anima del Soldano con una messa la settimana all'altare privilegiato di S. Gennaro; mentre col danaro raccolto dalle condanne contro Fabrizio Campennì, Giacomo Cesareo, Vincenzo Plosimo, Stefano e Marcantonio Attisano e Germano Coppola per violenze fatte al vicario generale nell'assedio del monastero stesso, spettanti al vescovo della diocesi, vennero fondati benefizi di S. Biagio nella Cattedrale7.
L'uccisore poi del Soldano, Francesco Famà di Preitoni, dovette recarsi a Roma e visitare le basiliche, oltre quella di Loreto nella Marca di Ancona, per ottenere l'assoluzione della scomunica nella quale era incorso. Dopo un anno di aspettativa l'assoluzione della censura gli venne accordata con decreto della S. Penitenziaria, in data 22 novembre 1603.

III

Così ebbe fine questo doloroso episodio, sollevando intorno tanto clamore e tante animosità avversarie. E quantunque il movimento repubblicano non avesse fortuna perchè traviato dagli intrighi dei partiti, ed il paese non fosse preparato ai sentimenti di generosità e di giustizia, smarrì in quella circostanza la calma e l'equilibrio. Per tal modo la politica spagnuola invece di largheggiare con benevole concessioni e guadagnarsi il favore dei popoli, li allontanò sempre più coi metodi più aspri e severi della repressione, con leggi inique e crudeli, poichè la prepotenza dei forti imperava sulla codardia dei deboli.
Insorsero contenziosi tra il foro ecclesiastico ed il laicale, volendo l'uno riserbata a sè la giurisdizione di punire i religiosi, e l'altro disdicevasi perchè questi erano rei di fellonia.
Fu tenagliato il Ponzio e negò, fu torturato Maurizio de Rinaldis e nulla mai rivelò, sette volte nei tormenti il Campanella, e dette risposte insulse, contradditorie; cosicchè fu tenuto per folle colui che col suo raro ingegno illustrava il suo secolo8.
Rincresce durante quel periodo di dispotismo rinvangare le vicende del nostro paese. Parecchie fiate i nostri popoli ebbero sussulti di vita propria, ma questi vennero sanguinosamente repressi. Il Campanella, non ignaro della nequizia dei tempi, mosso da carità di patria, non ebbe argine al suo linguaggio, diretto a mutare il mal governo del vicerè. Pieno di ardimento, con la visione del bene credette di trasfondere nell'animo dei suoi compaesani i vantaggi della libertà, ma divenne il nuovo Prometeo della rivoluzione morale, che preluse quella sociale del secolo avvenire.
Lo stato che aveva veduto sorgere questo lieve segno di ribellione per la sola efficace parola del Campanella, non potè mai rimaner tranquillo sul conto di lui. Mentre imperversava tanta violenza e gli eventi precipitavano, quei spensierati cavalieri dell'ideale associavano la potente parola alla voce di incoraggiamento e di ammirazione auspice di tempi migliori; e morendo da forti, lasciavano in retaggio alle future generazioni un esempio immortale di animo nobile nella devozione della Patria.

Nicotera, Dicembre 1913.
 

NOTE
1 Fra Tom. Campanella, Narrazione per LUIGI AMABILE, Napoli, 1882.
2 I nomi dei fuorusciti e ribelli catturati si leggono nell'indulto concesso a Giulio Soldaniero, a Valerio Bruno e ad altri, Vedi AMABILE, op. cit., pag. 367.
3 V. op. cit. pag. 279-280.
4 V. op. cit., vol. II, pag. 4.
5 Contra Fratrem Campanellam Thomam, Fratrem Dionisium et Pontium et alios inquisitos de crimine tentato e rebellionis, ecc. Il processo trovasi in Firenze ove venne inviato ai giudici dell'eresia. Vol. II pag. 612, op. cit..
6 Op. cit., pag. 226-246.
7 Mss. del SARACI - Quint. 1^, Fasc. III.
8 <<nos dolis et mendaciis collusimus ad vitam servandam>>, op. cit..