Tropea veduta dalla marina verso Pargalia
da "Istoria de' fenomeni del tremuoto avvenuto nelle Calabrie e nel Veldemone nell'anno 1783" 2 voll., 1784.
Disegno di Ignazio Stile.  Incisione di Antonio Zaballi.

Varias observaciones hechas en el terremoto
 acaecido en la Calabria ulterior, ano de 1783

di Antonio Despuig y Dameto


Antonio Despuig y DametoIl conte Antonio Despuig era nato a Palma de Maiorca il 30 marzo 1745. Dopo aver frequentato il collegio dei gesuiti, conseguì presso la locale università il dottorato in Utriusque Juris. Nominato a canonico nel 1774, fu eletto a Maiorca nel 1777 vicario apostolico dell'ordine di San Giovanni di Gerusalemme e nel 1780 tenente vicario e sotto delegato degli eserciti di mare e di terra dell'Isola. Il 5 marzo 1782 fu accolto tra gli accademici della Real Accademia di San Ferdinando di Madrid e il 7 maggio 1785 promosso uditore della Sacra Rota a Roma, permanendovi sei anni. Durante questo periodo si fece promotore della beatificazione della paesana Catalina Tomàs, conseguendo il suo obiettivo. Il 30 marzo 1792 fu nominato Vescovo di Orihuela, il primo giugno 1795 Arcivescovo di Valenza e il 18 dicembre dello stesso anno Arcivescovo di Siviglia, incarico cui rinunciò il 30 gennaio 1799. Resiedendo a Roma nel 1799 fu nominato arcidiacono della Cattedrale di Valenza. L'11 luglio 1803 Pio VII lo nominò Cardinale, con il titolo di San Callisto. Morì il 2 maggio 1813 all'età di 68 anni, a Lucca, dove fu sepolto nella Cattedrale.
Quando, il 5 febbraio 1783, il Despuig, uomo di ampia cultura e collezionista di opere d'arte, si trovò per puro caso a Tropea, ad assistere alle prime scosse del terremoto, aveva la giovane età di 38 anni ed era ancora canonico della cattedrale di Palma de Maiorca. Si era imbarcato il primo febbraio a Napoli con l'intento di approdare a Messina per visitare la Sicilia e l'isola di Malta. Dopo tre giorni di viaggio per mare, fece scalo tecnico nel porto di Tropea dove trascorse la notte al riparo sulla spiaggia. All'alba del 4 febbraio, riprese il viaggio per Messina ma la sua speronara maltese, appena passate le Formicole, fu costretta a ritornare indietro e riparare nuovamente a Tropea per le forti correnti contrarie. Il giorno dopo fu testimone oculare della prima scossa dl terremoto e dei conseguenti effetti devastanti. Per le cattive condizioni del mare, per le devastazioni che si andavano scoprendo giorno per giorno e per le notizie giunte da Messina dei danni subiti anche in quella città, dovette rinunciare a proseguire il viaggio, rimanendo a Tropea e visitando molti centri della Calabria, fino all'11 marzo. Il 16 marzo il Despuig era già ritornato a Napoli. Una esperienza unica che il Despuig volle far conoscere al mondo dettando a uno scrivano le proprie osservazioni in quindici pagine. Attualmente, il manoscritto originale si trova presso l'archivio privato del marchese de la Torre di Palma de Maiorca col titolo <<Varias observaciones hechas en el terremoto acaecido en la Calabria ulterior, ano de 1783>>. L'elaborato fu pubblicato per la prima volta in lingua originale solo nel 1943 a Palma de Maiorca, a cura di Ferruccio Ramondino in un'edizione contenente anche due brevi relazioni anonime sulla peste di Messina del 1743 e su un viaggio in Sicilia, Napoli e Roma. Successivamente, delle Osservazioni del Despuig sono stati più volte pubblicati, sempre in lingua madre, solo brani dell'originale, come nel 1978 in Appunti per una ricerca di storia demografica sociale ed economica su Tropea e il suo territorio nel Settecento di Pasquale Russo in La Calabria dalle Riforme alla Restaurazione, Società Editrice Meridionale. Si tratta quindi di un testo raro, anche se viene regolarmente citato nelle bibliografie dedicate ai terremoti, che finalmente nel 1985 fu tradotto in italiano, pubblicato e commentato da Carlo Carlino in Studi Meridionali. Ed è l'edizione italiana di Carlino che di seguito viene proposta integralmente. Buona lettura a tutti !
 

Partii da Napoli il primo giorno di febbraio. Era mia intenzione visitare la Sicilia e poi Malta.
Tre giorni dopo, alle dieci di sera, giungemmo a Tropea, dove trascorremmo la notte al riparo di uno scoglio che si erge davanti alla spiaggia. Per tutta la notte il cielo fu chiaro e vi fu bonaccia.
All'alba salpammo in direzione di Punta Faro, con la speranza di giungere di buon'ora a Messina. Ma non appena superammo Formìcole1 - celebre al tempo dei romani con il nome di Porto d'Ercole -, ci rendemmo conto dell'incostanza di quelle acque che dopo Capo Vaticano, tra il golfo di Nepetino2, chiamato anche di Sant'Eufemia, e quello di Gioia Tauro, diventano agitate a causa delle correnti dello Stretto di Messina. Queste erano così forti e contrarie che ci costrinsero a fare ritorno a Tropea, che si trova in mezzo a questi due golfi, sulla parte settentrionale di un promontorio, a 30° e 20' di longitudine e a 38° e 30' di latitudine rispetto al nostro meridiano di Tenerife.
Conducemmo a riva la nostra speronara. In attesa che il mare ci consentisse di riprendere la navigazione, salii in città per vedere se fosse rimasta qualche traccia dell'antico tempio di Marte3, che si trovava dove sorgeva una delle chiese della città, forse quella di San Giorgio. Osservai la chiesa e poi, dall'alto del suo campanile, il mare che era in bonaccia. Spirava un vento di scirocco e una densa nebbia offuscava l'orizzonte diffondendo un luminoso ma malinconico grigiore. Alle undici cominciò a piovere così forte che fui costretto a rifugiarmi in una delle tante chiese della città. Ma la pioggia cessò presto. Dopo mezz'ora il tempo si schiarì e il mare si ingrossò un poco. A mezzogiorno riprese a piovere, perciò decisi di tornare sulla speronara per dedicarmi alla redazione del mio diario.
Alle dodici e tre quarti avvertimmo uno dei più spaventosi terremoti della nostra epoca: un rumore sotterraneo, come il rotolare di una moltitudine di massi da una montagna, accompagnò quel funesto movimento, simile a due violenti colpi verticali. Subito dopo il movimento divenne ondulatorio e durò poco meno di un minuto. Sebbene non fosse visibile, fu chiaro che la sua direzione era da mezzogiorno verso nord. Cessata questa scossa, la terra rimase quieta per circa due minuti. Poi riprese ad agitarsi con la stessa violenza della prima scossa. Il rumore però fu più forte, simile a delle cannonate sparate a qualche miglio di distanza. Dopo due minuti il movimento divenne nuovamente verticale e proseguì per circa quattro minuti.
Il clamore della gente che si riversava sulla spiaggia fuggendo dalla città, l'orrore di vedere da vicino precipitare i principali edifici e di vedere distrutta in un attimo Parghelia - che si trova a sud (ndr: sic) di Tropea - mi fecero dimenticare tutte le osservazioni: in quel momento tragico a queste subentrarono i sentimenti cristiani.
Trascorsi quei sette funesti minuti in cui fu distrutta quella bella provincia, il cielo si rasserenò e il mare si calmò, mentre la nebbia rimase a offuscare l'orizzonte. Guardavamo con orrore le rovine ignorando quante fossero le persone rimaste sepolte sotto le loro abitazioni. Seguiti dalla popolazione, cercammo un rifugio: ma lungo la spiaggia nessun posto era sicuro. Le voragini che si erano aperte avevano forme diverse e procedevano sia in senso orizzontale sia in senso verticale. La cosa ci fece arguire che il terremoto fosse avvenuto molto in superficie, e perciò stavamo molto attenti alla oscillazione dei nostri corpi. Tuttavia non avvertimmo capogiri, indisposizioni o deliqui, accidenti causati proprio dai grandi terremoti.
Alle tre del pomeriggio vi fu un'altra scossa meno forte delle precedenti. Il vento spirava verso ponente e il cielo si era coperto un poco. Quel pomeriggio avvertimmo varie scosse, particolarmente tra le quindici e trenta e le diciassette. Gli abitanti avevano abbandonato la città e su consiglio del governatore e dei cittadini più nobili si astennero dal tornarvi.
Cominciò a giungere gente dai paesi vicini. Con le loro grida e le loro lacrime ci fecero conoscere la morte dei loro parenti e dei loro amici, la distruzione dei loro villaggi: Parghelia, Zambrone, Drapia, Prispano, Callea, Brattirò, Ciaramiti, Santa Domenica. Quel trambusto durò fino a notte, quando a quella gente non rimase altro da fare che accendere dei fuochi per riscaldarsi.
La notte trascorse tra paure e speranze. All'una e mezzo avvertimmo un'altra scossa, che ci sembrò di una certa intensità. Aveva ripreso a spirare lo scirocco, la luna era crescente e la poca luce che irradiava ci consentiva di osservare che la nebbia non si era diradata, e che, il giorno precedente, ci aveva impedito di ammirare lo Stromboli, che dista da Tropea circa sessanta miglia.
Le scosse si susseguirono per tutta la notte, in particolar modo tra le venti e mezzanotte. L'ultima fu violenta come la prima, con la sola differenza del moto: prima fu sussultorio, poi, dopo pochi secondi, divenne ondulatorio, dolce, senza le vibrazioni del primo.
Il desiderio di vedere la luce del giorno faceva diventare la notte ancora più lunga e penosa. Insieme agli altri sacerdoti mi prodigai a consolare gli animi sconvolti di quella povera gente, cosa che impedì di osservare i continui movimenti della terra, che attribuimmo alla nostra agitazione e alla nostra fantasia. Ricordo solo che alle due e mezzo, alle quattro e all'alba ci furono fortissime scosse.
Finalmente giunse la sospirata luce del giorno 6 e portò lacrime e sospiri e il triste spettacolo della distruzione di quella provincia. Molte persone in preda al terrore giungevano sulla spiaggia dove speravano di trovare asilo. Questa fuga era generale: sembrava uno sciame di api alle quali avevano distrutto l'arnia. Tutti cercavano un impossibile ricovero. Solo il Dio misericordioso poteva soccorrerli in quella sciagura. Ma dimenticando quanto era accaduto, ci dedicammo agli atti più importanti della nostra religione e cominciammo a erigere fragili baracche nelle quali innalzammo degli altari. Poi si celebrò la santa messa - facendo a meno di alcuni paramenti rimasti sepolti sotto le macerie -, durante la quale la popolazione ricevette la comunione.
Fu commovente lo spettacolo offerto da quelle persone di diverso ceto che, dimenticati i vecchi rancori, si abbracciavano e si consolavano a vicenda in quella comune disgrazia. Sacrifici e preghiere furono il pane che, insieme alle lacrime, quella gente mangiò per tutto il giorno dimenticandosi completamente di ogni sostegno alimentare. Ma poi il bisogno si fece sentire e cominciò a chiedere l'indispensabile sostentamento. Nella disgrazia la Provvidenza offrì un aiuto: aveva trattenuto sulle spiagge calabresi molte imbarcazioni cariche di paste e di frutti secchi che diedero a quegli infelici il sospirato soccorso.
Le scosse non cessavano: quella mattina ce ne furono sette, ma non causarono danni. Il mare era più calmo, il cielo denso di nubi e spirava lo scirocco. Ero molto turbato e avevo bisogno di un pò di riposo. Per non udire i clamori e la confusione di quella moltitudine, mi allontanai lungo la strada per Reggio, sperando di placare un poco il mio animo. Lì incontrai due religiosi dell'ordine dei Minimi. Le loro disgrazie si potevano leggere sul loro volto pallido e turbato. Mi dissero che venivano da Seminara, che sotto le rovine del loro convento erano rimasti sepolti più di trentotto loro fratelli e che oltre quattromila abitanti di quella città avevano trovato la morte. Lungo il loro cammino avevano osservato la Piana di Gioia distrutta.
Era impossibile trovare pace. Decisi perciò di fare ritorno alla speronara. Non mi meravigliai di vederla circondata da una miriade di persone. Mi interrogai, da forestiero, sulle loro necessità e su come potevo proteggere la loro vita. La religione infatti mi ha insegnato a dividere con gli altri le mie poche cose e di unirmi alla buona o cattiva sorte degli uomini. Della mia azione rimasi profondamente ricompensato, e sarei un ingrato se non dicessi che tutti, dal governatore all'ultimo di quegli uomini, mi dimostrarono la loro gratitudine offrendomi tutto il necessario con la massima generosità.
Quella mattina vi furono sette scosse; il vento, il cielo e il mare erano come il giorno precedente e quella gente pensava a come proseguire la vita. Il governatore e i sindaci, con molti sacrifici, non tralasciarono niente per alleviare le sofferenze di quegli sventurati. Fecero in modo che la notizia della catastrofe giungesse alle orecchie del sovrano; da ogni luogo si mandarono a pesca le barche, che tornarono cariche di pesce; si misero in vendita i frutti secchi che c'erano sulle imbarcazioni; alla marina e nelle campagne intorno all'Annunziata4 si costruirono dei forni per cuocere il pane. E senza dimenticare in quel doloroso momento i doveri verso il re e la patria, il quarto giorno la popolazione fu provvista del necessario. Frattanto ognuno cercava di sistemare la propria triste famiglia in una racconcia baracca, sotto una debole tenda o nelle baracche che si trovavano sulla spiaggia. Quel pomeriggio la terra tremò quattro volte.
I Casali di Tropea contavano cinquanta morti.
Sul fare della notte - il cielo era chiaro e il mare calmo - giunse la notizia della distruzione del bel paese di Casalnuovo5, dove erano morte ottomila persone, che la principessa di Gerace, signora di quel bellissimo feudo, era rimasta sepolta sotto le macerie del proprio palazzo; che Oppido era stata distrutta: la collina dove sorgeva questa bella e industriosa cittadina si era aperta e tutte le sue case, crollando dai lue lati della valle, avevano ostruito il corso di due ruscelli che più oltre formavano il fiume Metauro. Le vittime erano tremilanovecento.
Piangemmo la disgraziata fine di tante persone e volevamo sapere qual era stata la sorte della corte di Napoli. Ma da Paola giunse il cavaliere de' Giovanni, che ci assicurò che il terremoto non aveva causato danni nella Calabria Citra, dove lui si trovava. La cosa ci fece sperare che la capitale non fosse stata colpita dalla catastrofe.
Appena calata la notte, giunse una piccola feluca proveniente da Bagnara. Il misero equipaggio riuscì a rispondere alle nostre domande solo tra molte lacrime. Superati i primi momenti di commozione, ci informò che Bagnara non esisteva più. Era stata completamente distrutta e sotto le macerie erano rimaste sepolte più di tremila persone. Uno dei marinai ci raccontò di essere stato testimone di una delle più spaventose tragedie che si possano immaginare. Recandosi da Bagnara a Melicuccà con quattro marinai e con cinque cavalcature cariche di viveri, passando per un punto dove la strada, ai piedi di due colline, formava una strettoia, questa si era chiusa seppellendo i suoi compagni e gli animali. Lui si era salvato solo perchè era rimasto indietro. L'oscurità e la nostra triste condizione su quella spiaggia accrebbero l'orrore di quelle notizie.
Durante la notte udimmo sei scosse. Quelle di mezzanotte e degli albori del giorno 7 furono molto violente.


Mappa topografica della terra e castello di Scilla in cui si additano i luoghi ne quali avvennero i fenomeni
del tremuoto. Disegno di Pompeo Schiantarelli, incisione di Antonio Zaballi

Quella mattinata fu interamente dedicata al Signore. Alle dieci, mentre l'arcidiacono della cattedrale celebrava la messa, subito dopo la consacrazione, vi fu una scossa molto violenta. Fu necessario tenere in mano l'ostia e il calice per evitare qualche sacrilegio. Con quella celebrazione si conclusero per quel giorno le preghiere.
Riprese a spirare lo scirocco, mentre il mare si era ingrossato. Giunse una piccola barca con due marinai fuggiti da Scilla. Parlarono tra lacrime e sospiri: eravamo nel castello di Scilla. Dopo la prima scossa ci sentimmo in pericolo e pensammo che alla marina avremmo trovato un rifugio sicuro. Corremmo alla spiaggia. Era con noi il conte di Sinopoli. Costruimmo una capanna. Il conte salì sulla sua bella feluca, che si era fatto costruire da poco per suo diletto. Un'onda spaventosa assalì furiosamente la spiaggia e inghiottì le oltre ottocento persone che vi erano accampate. Si portò via anche il conte. Nuotando in mezzo a moltissimi cadaveri, guadagnammo questo piccolo scafo e fuggendo da quell'orrendo spettacolo siamo giunti qui.
Udendo il racconto di quei due infelici, il governatore non trascurò niente per fornirli del necessario.
Quelle notizie spaventose non erano però più tristi di noi che le ascoltavamo. Eravamo nelle stesse condizioni di quei due. Inoltre il vento cominciava a rinfrescarsi, il mare a ingrossarsi ancora e l'acqua a invadere la spiaggia. Questa situazione, con il terrore provocatoci dal racconto udito poco prima, convinse molti di quegli infelici ad abbandonare la spiaggia. Noi che restammo, cercammo di adottare altre e più sicure precauzioni.
Avevo l'impressione che dopo l'ultima scossa la terra continuasse a muoversi. Pensavo che questo movimento potesse essere causato dalla violenza con la quale il mare batteva sulla spiaggia, oppure che fosse solo frutto della mia fantasia. Per accertarmene, creai, sulla mia speronara, un pendolo. Questo aggeggio si componeva di due anelli concatenati dai quali pendeva un piombo, il cui movimento aveva la circonferenza di un bicchiere. La situazione non mi permetteva di avvalermi di uno strumento più complesso. Tuttavia potei osservare il continuo movimento del piombo. Impressi quel movimento nella mia mente e mi misi in osservazione. Volevo vedere quante volte la terra avrebbe tremato durante la notte. Per un fenomeno molto raro furono pochi i momenti in cui la terra cessò di muoversi. Per tutta la notte il cielo fu nuvoloso e, sebbene il vento non fosse forte, il mare continuava a ingrossarsi. Ma o per la stanchezza o per aver respirato quell'aria carica di zolfo, ci addormentammo tutti profondamente. Fui svegliato dal clamore della gente e dalle grida dei marinai che mi informarono del pericolo che correvo: il mare aveva invaso la spiaggia e stava penetrando nella mia imbarcazione. Stavo per radunare le mie forze per scappare, quando fui preso in braccio da un marinaio che mi condusse su un'altura. Appena furono rinforzati gli ormeggi, un'enorme onda superò la cima dello scoglio che protegge la spiaggia e lo sommerse.
Alle undici del mattino successivo - il mare si era calmato e il cielo si era schiarito - ricevetti una lettera da un amico, che era fuggito da Tropea dopo la prima scossa, il quale mi scriveva: <<Non sono io, amico, a scrivere alla S. V.. L'orrore e la paura guidano la mia penna. Fuggii da Tropea per cercare di salvare la mia vita, ma ho rischiato mille volte di perderla. Da un precipizio all'altro raggiunsi la mia famiglia, che trovai salva, ma con il dolore di aver perduto la mia casa e molti amici in questa città. Per non rattristare oltre la S. V., dirò solo che da Tropea a Reggio non vidi alcuna casa in piedi, e che lungo la strada vidi immagini di morte e la stessa morte. Suppongo che V. S. sia bene informata sui danni provocati da questa catastrofe. Aggiungerò solo che dalla mia baracca osservo Messina, la meta del viaggio di V. S., e la vedo ridotta a una montagna di pietre. Tenga conto di questa informazione. Sia prudente e creda nel suo amico che in mezzo alle tribolazioni prega affinchè il Signore protegga la S. V.. Reggio 6 febbraio>>.
Quella lettera sollecitò la mia curiosità: desideravo conoscere lo stato esatto di Messina. Benchè il mare non sembrava permetterlo, chiesi al proprietario di una barca se si sentisse in grado di raggiungere il Faro per consegnare una lettera al mio corrispondente. Non fu difficile convincerlo. Per dissimulare il motivo della sua partenza, cominciò a preparare le reti. Aspettava solo il momento favorevole per partire. Ma fu trattenuto dall'arrivo di una barca con due uomini provenienti da Fiumara di Muro, i quali appagarono la nostra curiosità raccontandoci della tragica distruzione di Messina.
Distrutta la città siciliana, vedendo che le scosse continuavano, considerando il periodo che correvo rimanendo a Tropea, e che forse le persone che dovevano ospitarmi a Messina erano morte, pensai di uscire da quell'infelice situazione tornando al più presto a Napoli. Ma era difficile: via mare era pericoloso a causa delle bufere e via terra per le continue scosse. Decisi perciò di rimanere in mezzo a quella gente, su quella spiaggia dove tutti mi conoscevano e dove potevo sperare in qualche soccorso.
Da tutti i luoghi, anche da quelli più lontani della provincia, giungevano notizie sul disastro. Ma molte erano discordi e mi fecero dubitare della loro veridicità. Tuttavia quelle più attendibili ci fecero stimare in circa sessantamila i morti, numero che sembrava inverosimile, ma che poi mi fu confermato6.
Quando giunse la sera il mare si era calmato e il cielo rasserenato. C'era un vento di scirocco che spirò durante tutte le scosse.
Il giorno 9 il cielo fu molto sereno. Avvertimmo alcune scosse leggere. Durante la giornata si sparse la voce che a due miglia di distanza, in prossimità di un luogo chiamato Clio, si era aperto un cratere. Stentai a credere a questa notizia. Ma considerando la violenza delle scosse, l'odore di zolfo che avevamo sentito per tutta la notte e il calore che sentivamo sotto i piedi, ritenni la cosa possibile. Accorsi a vederlo. In una parte del terreno vidi una certa quantità di fango, fuoruscita senza dubbio da qualche vecchia apertura. me lo fece notare anche la mia guida, che mi invitò a toccare il terreno, che era molto caldo. Il calore era generato da una vicina fonte che nell'antichità veniva utilizzata per i bagni termali7. Quel fango era molto simile al cenericcio che si trova sul Vesuvio.
Ritornai al mio rifugio. Data la clemenza del tempo, continuavano a giungere da ogni parte notizie sul disastro. Il vento era di tramontana e il livello del mare si stava abbassando. Tutto questo ci fece sperare che nella notte non ci sarebbe stata nessuna scossa. Ma tuttavia, con un tempo così diverso dagli altri giorni, ce ne furono tre o quattro.
Il 10 il cielo si oscurò un'altra volta e ricomparve lo scirocco. Vi furono quattro scosse: alle sei e mezzo, all'una e alle cinque del pomeriggio e a mezzanotte.
L'11 piovve un poco con il vento di scirocco; il mare fu agitato e si ebbe lo stesso numero di scosse del giorno precedente e quasi allo stesso orario.
Per il 12 era stata fissata una solenne processione. Furono avvertiti tutti gli abitanti dei paesi vicini per implorare la misericordia del Signore tramite l'intercessione di Santa Domenica, protettrice di Tropea. Queste persone raccontarono i mille disastri avvenuti nei luoghi interni degli Appennini della Calabria Ulteriore. Dissero che tutte le montagne si erano aperte e che interi paesi erano stati traslatati. Raccontarono tanti altri particolari dei quali dubitai data la mia esperienza di quei giorni. Decisi perciò, anche per la situazione in cui mi trovavo, di non badare alle difficoltà che avrei incontrato e di rendermi personalmente conto degli effetti di un fenomeno che forse non avrei mai più avuto occasione di vedere.
Il mattino successivo, provvisto di tutto il necessario, iniziai il mio viaggio. Mi diressi a Panaia e poi a Nicotera. Superato il Metramo, raggiunsi prima Rosarno e poi Palmi. Lessi il dolore sul volto di quei miserabili scampati a quella terribile disgrazia: erano intenti a provvedere alla loro vita e a dare sepoltura ai morti. La ricca e industriosa città di Palmi offrì ai miei occhi la scena più orribile: la funerea espressione di quegli infelici, preda da tanti giorni delle lacrime e della fame, insieme al terrore che suscitava la vista di tanti cadaveri sfigurati estratti da sotto le macerie, resero quel giorno il più doloroso della mia vita. La stessa tragedia la rividi in tutti i luoghi che visitai. Tutte quelle popolazioni si trovavano nelle medesime condizioni. Il clero si allontanava dalla baracca che fungeva da chiesa per consolare la popolazione, che era intenta a costruirsi dei miseri ripari e a dare sepoltura ai morti. Ma tutti trovavano consolazione solo nelle loro lacrime e nei loro sospiri.
Trascorremmo la notte in aperta campagna, all'eco di quella dolorosa armonia. Il cielo era chiaro, il vento scirocco. Le scosse furono tre. Il desiderio di vedere il giorno e di allontanarmi da quella triste situazione rese eterna la notte. Finalmente spuntò il giorno e, caricati i miei cavalli, pensai di dirigermi verso Mileto. Credendo però che in questa città non avrei trovato il necessario, mi diressi verso Francica, feudo del duca di Infantado8.
Anche questo borgo era stato distrutto. I morti erano stati undici.
Avevo il tempo di raggiungere Monteleone9, che dista solo tre miglia da Francica.
Trovai questa città distrutta, specie la parte bassa, cioè il quartiere di Sant'Antonio. Trascorsi la notte nella baracca dei padri Cappuccini. Il cielo fu sereno e il vento di tramontana molto freddo. Durante la notte avvertimmo tre scosse.
All'alba partii da Monteleone per andare a osservare i grandi squarci che si erano aperti nelle montagne e per visitare i due celebri monasteri di Santo Stefano del Bosco10 e di San Domenico di Soriano. Attraversai diversi borghi distrutti. Superai il Mesima11.
Faceva paura vedere i grandi squarci che si erano aperti in quelle montagne. In prossimità di Soriano, prima di un oliveto, si era staccata una parte della montagna per un fronte di oltre trecento canne12. La salita fu molto difficle. Rimasi colpito dal fatto che tutta la montagna, il cui terreno non era sassoso, fosse lasciata incolta. Dopo un crocevia, dove la strada si divide per Monteleone e per Soriano, subito dopo una salita, la mia attenzione si soffermò su una buca, dal diametro di circa trenta passi, apertasi nel terreno e dove si notavano le radici degli alberi.
Giunto nel punto più alto di quella montagna, vidi quello che era l'imponente edificio di Santo Stefano del Bosco ridotto a un cumulo di macerie. Era uno dei più importanti edifici del mondo cristiano per essere stato il luogo dove il fondatore dell'ordine della Certosa si era ritirato in penitenza e perchè custodiva le reliquie del santo. Quando giunsi a quest'antico tempio, trovai alcuni religiosi: la loro ricchezza non esisteva più. Si nutrivano di ortaggi e non avevano pane. Ma erano contenti perchè erano riusciti a salvare le reliquie del santo che ora conservavano nella loro baracca, dove, nella loro misera condizione, avevano costruito un altare. Mi ospitarono nella loro baracca e cordialmente divisero con me il loro povero cibo.
Trascorsi due giorni in loro compagnia, durante i quali vi fu molta nebbia. Vi furono anche molte scosse. Li avvertimmo con maggiore intensità data l'altitudine del luogo.
I feudi e i paesi vicini, che sono molti, erano stati tutti distrutti, In quelle montagne risuonavano gli stessi pianti e gli stessi lamenti che udii nella pianura.
La mattina del 17, dopo aver teneramente abbracciato quei padri, ripresi la strada per Soriano. Qui potei immaginare la grandiosità del monastero dalla montagna di macerie in cui era ormai ridotto. Quei religiosi, con il cuore affranto per quel disastro, piangevano nella loro baracca, accanto a un altare. Gli altri sopravvissuti erano intenti a richiamare alla loro memoria la triste fine dei loro padri, dei figli e delle spose che avevano sepolto. Potrei raccontare molte cose su quei disgraziati. Ma ne basta una sola per comprendere lo loro infelice condizione. Appoggiato a una delle tante rovine, un uomo le guardava. Gli chiesi di aiutarmi a uscire da quel labirinto di macerie. Si volse e piangendo mi rispose: <<Cosa vuole che faccia signore? Dove vuole che vada? Le forze mi stanno abbandonando. In attesa della mia tragica fine, contemplo queste rovine che erano la mia casa, dove sono sepolti, insieme a mia moglie, quattro dei miei figli e tutti i miei averi. Insomma, tutto ciò che amavo>>.
Colpito dal suo dolore, che era comune a tutti gli abitanti del paese, decisi di partire. Presi la strada che avevo percorso il giorno precedente. Ma le scosse di quella notte l'avevano distrutta completamente. Ne imboccai un'altra e la sera giunsi a Pizzo, dove mi aspettava la mia speronara. Anche questa città era stata distrutta e i suoi abitanti erano accampati sulla spiaggia. Il governatore era stato costretto ad abbandonare il suo palazzo di Francia - proprio lo stesso giorno che era andato ad abitarci - e si era rifugiato su una feluca.
Rimasi a Pizzo fino al 22. Durante quei giorni - il mare rese impossibile la navigazione e non giunse nessuna imbarcazione - si cercò di sitemare la popolazione in luoghi più sicuri. Ogni notte udimmo tre o quattro scosse, che però non provocarono altri danni.
Finalmente il tempo ci consentì di imbarcarci. Non appena coprimmo il breve tratto da Pizzo a Sant'Eufemia, il mare cominciò a ingrossarsi e fummo costretti a sbarcare in un arenile chiamato Pietra la Nave13.
Quel posto solitario accrebbe la nostra paura e il desiderio di proseguire il viaggio. Ma il tempo fu così brutto che ci costrinse a fermarci quattro giorni.
L'abitato più vicino era Nocera Terinese, un piccolo paese sorto sui ruderi dell'antica Terina14, che si trova a circa quattro miglia.
Il 23 il mare fu più calmo e partimmo. Ancorammo a Fuscaldo, con la speranza di entrare nel golfo di Policastro la mattina successiva. Ma le cattive condizioni del tempo ci permisero di raggiungere solo Capo Bonifacio, dove non saremmo riusciti a sbarcare se i molti marinai presenti sulla spiaggia non ci avessero aiutato. Questa spiaggia, che si trova a circa venticinque miglia da Cosenza, la capitale della provincia, è molto stretta e fu il nostro rifugio fino all'11 marzo.
Durante questo periodo udimmo molte scosse, tutte in direzione di Cosenza. In una di quelle notti vi fu una spaventosa tempesta che avrebbe fatto temere chiunque per la vita se non fosse portato a partire. Il mare si ingrossò e le scosse di succedevano una dietro l'altra. A questo si aggiunsero tuoni e fulmini e un vento furioso. Lo Stromboli, che sembrava un'enorme montagna di fuoco, rese più spaventosa quella notte.
Il 13 partimmo. Giunti nel golfo di Policastro, scoppiò un'altra tempesta. Fu così violenta che pensammo fosse causata da un altro terremoto.
Superando grandi pericoli, raggiungemmo il porto degli Infreschi, dove trovammo una locanda e un eremo, dalla sommità del quale godemmo un mare meraviglioso, come mai lo avevo visto.
Stanco di tanti patimenti e di tanti rischi, affidai l'imbarcazione al mio equipaggio. Presi solo i bagagli necessari e portandoli a spalla con la mia famiglia, compagna fedele delle mie tribolazioni, raggiungemmo Camerota, distante sei miglia da quella spiaggia. Da lì cercammo la strada regia che conduce a Napoli, dove giungemmo felicemente il 16 marzo.
 

NOTE
1  Nel testo Fornìcole. Località nei pressi di Tropea. G. ROHLFS, Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria, Longo, Ravenna, 1974, lo fa derivare da formicula, formica. Il Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, ed. crit. a cura di E. A. MANCUSO, Brenner, Cosenza, 1979, p. 256, ricordando la località come il Porto d'Ercole, dice che è meglio conosciuta con il nome di Formicole, <<Forme d'Ercole>>. Del Porto d'Ercole parlano Plinio, Hist. Nat., III, 73, e Strabone, Geog., VI, 256.
2  Nel testo Epetuio, non id. E' indubbia la dizione Napetino, il <<napetinos>> menzionato da Diodoro Siculo, Biobl., I, 35, 88-89 R, e da Strabone, Geog., VI, 254-255 C, e corrispondente all'attuale golfo di Sant'Eufemia. Cfr C. TURANO, Le conoscenze geografiche del Bruzio nell'antichità classica, in <<Klearchos>>, nn. 65-68. 1975, p. 36. Anche G. MARAFIOTI, Croniche et antichità della Calabria, Padova, 1601, II, p. 125, parla del <<golfo Nepetino, hoggi detto mare di S. Eufemia>>.
3  <<...E fù la Chiesa S. Giorgio, ch'anticamente era tempio di Marte; dopo fù trasferita in S. Nicolo...>>, G. MARAFIOTI, op. cit., II, p. 125.
4  Località presso la chiesa dell'Annunziata, vicino all'attuale cimitero.
5  Dal 1815 Cittanova. Nel 1783 era infeudato ai Grimaldi principi di Gerace. La principessa morta è Teresa. Il Galanti, Giornale di viaggio in Calabria (1792), ed. crit. a cura di A. Placanica, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1981, p. 187, scrive: <<In una chiesa che è una capanna di tavole sotto una specie di altare sta esposto il corpo della infelice principessa di Gerace rimasta oppressa sotto le fabbriche rovinate dal terremoto>>.
6  Non sappiamo quale fonte abbia confermato questo numero, e comunque diverso da relazione a relazione. La cifra accertata è quella fornita dal Pignatelli. Naturalmente le cifre dei morti dei vari paesi fornite dal Despuig non sempre sono esatte. Tuttavia non ci è parso opportuno correggerle.
7  In località Clio, vicino a Parghelia, sono state rinvenute antiche vestigia di un bagno sulfureo.
8  Nel 1783 Francica era feudo della famiglia Gomez Silva.
9  L'odierna Vibo Valentia.
10 La Certosa di Serra San Bruno.
11 Nel testo: <<cruzè los rios Mésuma y Madama>>. Il primo fiume è il Mesima, ma del secondo non si ha nessuna traccia. Potrebbe essere un errore del copista, che fa intendere che i fiumi siano due. Però la dizione Madama si incontra nel Marafioti, op. cit., II, p. 127, e si riferisce al primo fiume che <<hoggi volgarmente si chiama Mesima>>. Così anche il Rohlfs.
12 Antica misura di lunghezza corrispondente a circa due metri.
13 Scoglio nei pressi di Nocera Terinese. Così anche T. Aceti in una annotazione al Barrio, op. cit., p. 234.
14 Com'è noto l'ubicazione dell'antica Terina non è stata ancora accertata con sicurezza. Cfr. J. BERARD, La Magna Grecia, Einaudi, Torino, 1963.