TRADIZIONI PLUTONICHE

 

di Raffaele Lombardi Satriani

 


(S. Libertino) Nell’antica lingua siciliana, con il termine ‘truvatura’ si indicavano i favolosi tesori nascosti dai Saraceni sulle nostre coste, che per essere trovati necessitavano di complicatissimi rituali, in genere non attualizzabili, tali da indurre chi avesse voluto trovare il tesoro, ad una continua ed estenuante ricerca senza fine.

A Messina, famosa è la ‘truvatura’ di Via Cardines, ove era affissa anticamente una targa scritta in lingua Osca. Per trovare il tesoro bisognava leggere la scritta al galoppo su un cavallo bianco con un berretto rosso in testa.

Del resto, la ‘truvatura’ fa parte di quelle leggende cosiddette plutoniche, comuni a tutte le località già in possesso di dominatori stranieri, specie arabi, i quali, costretti a fuggire, avrebbero affidato alla terra, anziché ai loro nemici, i propri tesori.

Come Tropea che ha quello della Michelizia, ogni città del Meridione ha il suo tesoro nascosto e con esso molte sono le leggende che si tramandano. Per lo più si tratta di leggende plutoniche, ossia legate a "Truvature" o a tesori nascosti sotto terra, originati dall’esistenza di grotte o di faglie formatesi per la millenaria erosione del mare e delle acque piovane. Anche l’attività piratesca, le vicende legate alle guerre, all'abbandono delle città a seguito dei terremoti o alluvioni hanno contribuito alla formazione di dette leggende.

Il saggio di Raffaele Lombardi Satriani che segue è tratto da "Credenze Popolari Calabresi", Falzea 1997, con introduzione di Luigi M. Lombardi Satriani.

* * *

La leggenda distingue i tesori nascosti in due specie, liberi e vincolati. I primi sono quelli casualmente scoperti, ed i secondi, volgarmente legati, quelli pei quali occorre la chiave o, come si usa dire, la chiamata, cioè la formula, per venirne in possesso.

Per vincolare un tesoro era necessaria un’operazione. L’uomo che voleva nascondere le sue ricchezze, invitava un compare o un conoscente a seguirlo in campagna e, giunto sul luogo, diceva, volgendosi al compagno: Sei buono a custodire questo tesoro, che io nascondo in questa buca? Avuta la risposta affermativa, aggiungeva: Vedi, e sta’ bene a sentire quant’io ti dico. Tu devi custodire questo tesoro e lo devi dare soltanto a chi ti ripeterà le tali parole magiche o a chi farà tali sacrifici. E dopo di aver dato tutte le istruzioni ed essersi bene assicurato che l’infelice avea bene capito, lo ammazzava e lo sotterrava lì presso al tesoro.

Padre Labat non si persuadeva perché il diavolo fosse a guardia di tali ricchezze e pensava che <<quelli che nascondevano il tesoro solevano propiziarsi il diavolo con un sacrificio umano o di qualche animale, che poi sotterravano coscienziosamente assieme alla loro ricchezza, pronunciando una specie di formola magica: e adesso bada bene di non lasciar portare via nulla, se non da chi ripeterà questa parola o ti mostrerà questo oggetto>>1. Secondo la nostra leggenda non è del tutto così, perocché quelli che nascondevano la loro ricchezza non soltanto credevano di propiziarsi il diavolo con un sacrificio umano, ma ritenevano pensiero di dare una guardia al loro tesoro, legandovi l’anima dello ucciso. Difatti, si crede che lo spirito dell’assassinato sia sempre lì, sul posto, ove avvenne l’uccisione, non si muova mai ed appaia sempre a chi di là passi.

Si crede pure che lo spirito del morto s’introduca nel corpo del passante si da farlo rimanere spiritato (spirdatu), onde si evita di passare dal luogo ove avvenne qualche omicidio, contrassegnato generalmente da una croce.

Non tutti i tesori sono affidati al diavolo; ve ne sono in custodia del drago e del mago, e in tali casi varia la “chiamata”. Il diavolo nella concezione popolare è un essere straordinario per forza o magia, differente dal drago e dal mago, che hanno forma umana perché personificano uno la forza fisica e l’altro quella magica. Il diavolo rappresenta la forza brutale, che viene dal male, dal pervertimento e trova il campo di adoperarla nell’escogitare l’impossibile, come si rileva dai racconti popolari. Bisogna prestare attenzione ascoltando un racconto, perché se il drago è un demonio, non è il demonio. Si sol dire, comunemente, il tale è un demonio, per denotare un uomo astuto, maligno, perverso. Ed a proposito di ciò, un tal Vincenzo Margiotta fu Nicola, da Dasà, detto ‘u magaru, mi ha raccontato che, una volta, mentre un ricco desideroso di nascondere il suo tesoro dava le solite istruzioni al mal capitato individuo, un uomo, nascosto sovra un albero, intese tutto. Aspettò che, tutto finito, il ricco si fosse allontanato e scese a terra, disse la chiamata, e venne fuori il tesoro. Lo spirito del morto disse: non aspettasti mancu mu mi schiattano l’occhi2. Ciò significa che il popolo non crede il diavolo guardiano del tesoro, ma lo spirito dell’assassinato, che veglia a guardia di esso. Oltre a ciò il popolo nei tesori vincolati distingue quelli in dominio del diavolo, ch’è divenuto padrone per via di lascito, e quelli in possesso del mago, che n’è possessore per la sua arte, nonché quelli del drago, divenutone padrone per la sua forza singolare, ed infine gli altri che sono in dominio di qualche genio benefico, che viene rappresentato da una capruzza, da una giovine, da una colomba.

Per venire in possesso dei tesori del diavolo bisogna sapere il modo con cui gli sono stati assegnati e la “formula” relativa; per venire in possesso dei tesori del drago devesi conoscere la pratica magica, che si legge nel libro del comando.

Ed ora riporto alcune tradizioni plutoniche, tra le parecchie che ho raccolto, sfrondandole dai vari racconti che le abbelliscono e chiariscono.

A Tiriolo3, sul monte di fronte è una buca, che dà adito ad un sotterraneo, che si prolunga fino alla marina di Catanzaro. Vi si accede per una scala di marmo, che ha 336 gradini, di cui il primo è di pietra intagliata, i penultimi d’argento e l’ultimo d’oro4.

Tale sotterraneo dicesi fatto dal re Nilio, il quale, non potendo soffrire il sole, o per magaria o per altro, soleva andare dal monte di Tiriolo alla Roccella e a Catanzaro Marina, percorrendo tale sotterraneo. Un giorno, sorpreso dal sole, ammalò e presso al morire, al servo che gli chiedeva a chi lasciasse il tesoro, disse: a te. Ma il servo, non convinto, glielo richiese ancora, e il re, infastidito, disse: al diavolo. Così dicendo morì ed il diavolo divenne padrone di quel tesoro, che potrà ottenere chi riesca a far la comunione a un cane, ad uccidere un cristiano, e precisamente una fanciulla5.

E, anche a Tiriolo, mi dice Antonio Paone fu Gennaro, per averlo saputo dal suo nonagenario nonno, nella contrada Gariana, si dice che ci sia sotterrato ‘u libru di ‘u cumandu, ch’è sopra ‘nu casciuni chinu di dinari e per avere il libro e il tesoro fa bisogno che si comunichi un cane e si uccida una bambina.

A Vibo Valentia, e propriamente nella località detta Cuseiu, narrasi ci sia un tesoro e ne sia padrone il così detto Schiavottu. Per venirne in possesso fa mestieri che, nella notte di Natale, e proprio a mezzanotte, si vada sul posto e sullo scoglio sotto cui è sotterrato il tesoro si mangi una melagrana in modo che nessun chicco vada per terra. Quindi si ammazzi un bambino, che compisca in quella notte e in quell’ora istessa sei mesi di età, con un colpo di spillo al cuore, senza che una goccia di sangue esca dalla ferita e macchi lo scoglio6.

Anche a Vibo Valentia, mi racconta Vincenzo Margiotta, che in una casa è un tesoro e per averlo occorre un fegato non si sa di quale animale, fritto sul Vesuvio con una fiamma spiritosa, ottenuta, cioè, versando un po’ di spirito su di una pietra.

A Dasà, e precisamente nella località nomata Croce di Cannazzi, dicesi ci sia un tesoro: per averlo una donna deve fare un tovagliuolo in tempo di una giornata, dal sorgere del sole al suo tramonto, filando e tessendo7. Anche per il tesoro, che in Caridà giace nascosto nel largo S. Sebastiano, si richiede che uno mangi nottetempo il vitto contenuto in una salvietta, che sia stata fabbricata nel tempo che passa dall’alba alla sera, cioè in dodici ore si sia dovuto maciullare il lino, pettinarlo, filarlo, imbianchirlo, tesserlo, ecc.8.

A Polistena, per ritrovare i “tesori vincolati”, dicesi che uno sposo fresco9 debba lasciare la sposa nel letto, senza toccarla con un dito, e con un treppiede nuovo, una padella non mai usata, portare sul posto dei pesci vivi nell’acqua di mare, friggerli, mangiarli.

Per chi non è sposo fresco deve condurre sul luogo una ragazza  vergine e lì deflorarla. Dopo ciò credesi venga fuori un grande serpente per leccare la giovine donna in tutte le sue parti, e che durante tale operazione venga fuori da solo il tesoro, che, quasi sempre, è costituito da verghe d’oro.

A Siderno Marina, a circa mezz’ora di cammino, dicesi sia un tesoro vincolato con questa chiave: “Sangue di B.”. Non si sa che cosa voglia dire: ritiensi sia stato preso per combinazione di aver indovinato il sangue. A tal proposito corre la leggenda che una notte quattro individui andati per impossessarsene, menarono sul posto agnelli, pecore, capre, cani, gatti, vacche, un mulo ed un cavallo, e in ultimo, anche una ragazza ben legata con una corda, come un animale; arrivati sul posto, la ragazza legata come si trovava, per la disperazione, mise le mani alla testa e, tra i capelli, le capitò di prendere una peducchia (pidocchio); come l’ebbe tra le mani, la pose sullo scoglio, che era il posto che nascondeva il tesoro e la schiacciò. Così venne fuori il tesoro, la ragazza fu salva, i quattro individui le regalarono parte del tesoro e l’accompagnarono fino al paese.

In Longobucco si crede sia un tesoro sotto un macigno di fronte al paese, in Cassano un altro sotto la pietra del diruto castello. In Cellara ed altrove chi va in cerca del tesoro vede comparire sul luogo che lo racchiude una gallina nera, qualora questa fosse bianca, sarebbe inutile il tentativo.

In Serra Pedace, per scovrire il tesoro nascosto nella casa di Mollarova, si crede debba uccidersi sul luogo un bambino e batterne il fegato tre volte ad una pietra, da ridurlo in brani. In Altomonte, oltre al sacrificio del bambino, vuolsi quello di un vitello o di un montone. In Morano si dice lo stesso del tesoro di donna Marsilia, riposto sotterra in una grotta della contrada Sassone10.

A Laureana di Borrello, e propriamente nella contrada detta Ciuciola, si crede ci sia un tesoro e che per impossessarsene si deve menare sul posto un cane di pelo nero. Si racconta a tal proposito che un tizio menò un cane e, quando giunse là, il demonio, che era custode del tesoro, gli disse: Vedi che il cane ha un pelo bianco sotto l’unghia del piede sinistro di dietro; ed infatti questo individuo lo trovò e il tesoro non l’ebbe.

In Umbriatico, e propriamente nei suoi dintorni, vi è un ameno colle denominato Tegano in cui, per antica tradizione, narrasi che un re pagano avesse seppellito un immenso tesoro. Se si richiede ad un coltivatore di quelle località più di quanto le sue risorse possono permettergli, risponde: <<Aspetta ca mo’ sganciu Tegano>>. Col volgere dei secoli questo tesoro sarebbe divenuto dominio degli spiriti ribelli, i quali, volendo trarne il maggior utile, impongono a colui che ne bramasse il possesso cose esacrande, fra cui principalmente il sacrifizio d’un bambino. Un bel giorno tre sconosciuti, smaniosi di arricchire ad ogni costo, si recarono sul luogo conducendo seco la vittima designata. Un individuo, con in mano il libro del Rutilio11, cominciò a fare degli scongiuri, che si dicevano essere indispensabili, dietro i quali qualche segno del tesoro avrebbe dovuto comparire. Un altro teneva in mano un’ampollina ed il terzo attendeva il segnale pel sacrifizio della vittima innocente. Infatti di lì a poco un serpente di smisurata grandezza sbucò da una caverna, e nel contempo, come se la terra si fosse aperta, si videro cumoli di luccicanti monete e gemme brillantissime. Il serpente avvicinossi a colui che teneva l’ampolla, ma questi, vinto dal terrore, esclamò quasi per involontario istinto: <<Gesù e Maria!>>. Nel proferire i sacri nomi, il rettile disparve, senza che il sacrifizio si fosse potuto consumare; disparvero le gemme, tremò la terra violentemente, scatenossi una tremenda bufera, e gli sconosciuti individui, quali bombe vulcaniche, furono sbalestrati in diverse direzioni, e soltanto dopo tre giorni riuscirono a ricongiungersi, tutti pesti, esterrefatti e malconci.

Ma la leggenda qui non si arresta. Narrasi che in tempi più recenti un monaco, aggirandosi per quei dintorni, inducesse un lavoratore a coadiuvarlo nella ricerca del tesoro, che avrebbe diviso. Accettata l’offerta, si recarono entrambi sul luogo e, fatti gli scongiuri, ne uscì il solito serpente, il quale rizzatosi sulla coda si mise a lambire il collo e le guance dell’imperterrito villano; indi con le sue terribili spire pria leggermente, indi con maggior forza cinse il corpo del mal capitato, il quale come che stava per essere strangolato, invocò mentalmente la S. Vergine del Carmine. Bastò questa semplice invocazione perché si scatenassero fulmini, saette e tempeste e che la dispersione dei due individui fosse il risultato di questo secondo tentativo. Dicono che dopo molto tempo ritornasse in paese il povero contadino, ma in uno stato di ebetismo e che dell’accaduto conservasse soltanto debole rimembranza12.

Nel comune di Cessaniti, nei suoi dintorni apparisce sopra un rialto un muro che, sulle prime, sembra una diga di qualche torrente, ma invece, secondo l’opinione di alcuni, è un antico tempio di Santa Rosolia o di S. Gibele, secondo altri; e quivi vi erano molti sotterranei, e vi è un tesoro in possesso del demonio, il quale, per guardarlo dai ladri, corre velocemente di giorno e di notte in groppa ad un cavallo nero suonando una tromba; per prendere tale tesoro, bisogna carpire il momento di poter prendere la tromba dalla bocca del demonio, che dev’essere ridotta in polvere e buttata dal più alto campanile in balìa del vento di tramontana. Corre a tal proposito la seguente leggenda pubblicata da V. Taccone, nella rivista di letteratura popolare “La Calabria” col titolo La Tromba del Diavolo13: <<Questo antico tempio si compone di due grandi volte divise l’una dall’altra, e sostenute da tre ciclopiche colonne di macigni fabbricati insieme. Lo stucco, che riveste le mura interne, è screpolato con tale ordine e regolarità, da sembrare a prima vista, o che sia stato intagliato collo scalpello, o che la parete sia stata diligentemente scavata nella viva roccia. Non si può dir nulla intorno al pavimento, che non si lascia vedere, essendo ingombro di rottami e di calcinacci. Fanno poi luce alle due gallerie due grandi buche ovali a quanto pare costruiti appositamente nelle volte per questo fine. La superficie di questo tempio per una larghezza di più di cento metri quadrati è piena di corridoi ricolmati di terra e di muraglie guaste, rotte e rivestite di spine, cardi ed altre erbe selvatiche, che ingombrano e coprono quei ruderi. In questi sotterranei e propriamente in una camera, che si crede ad essi attigua, si dice che vi sia un tesoro in possesso del demonio, il quale per guardarlo dai ladri corre velocissimamente dì e notte in groppa ad un cavallo nero, suonando una tromba. Il tesoro si compone di tre mucchi di monete disposte a triangolo, uno di oro, un altro di argento ed il terzo di bronzo. La stanza che si crede contenere tutto questo danaro, sta sempre chiusa, e non si apre che una volta l’anno in un dato giorno ed in certe ore indeterminate. Si dice, che allora l’ingresso è libero, ed ognuno può entrare e vedere i tesori. Ma chi se ne voglia poi impadronire, deve prima indovinare, od aspettare il giorno e l’ora dell’apertura, ed al momento opportuno lanciarsi nel sotterraneo e strappare di bocca la tromba al diavolo. Se ciò gli riesce, deve ridurre quella tromba in polvere e dal più alto campanile gettarla in balìa del vento di tramontana, in modo che lo spirito d’inferno non possa più raccoglierla e ricomporla; perché se ciò accadesse, quasi tornerebbe a suonare per richiamare i danari all’antico loro posto. Nessuno inoltre potrà impunemente impadronirsi del tesoro col distruggere il tempio e le fabbriche circostanti; anzi si racconta che molt’anni addietro, essendosi alcuni contadini arrischiati all’impresa, furono colti da una furiosa tempesta, durante la quale un fulmine li ridusse in cenere.

Ma nei dintorni nulla si ebbe a soffrire né di piogge né di fulmini, poiché il nembo si scatenò soltanto sul colle, ove si trova il tempio. Né questi sono stati i soli castighi coi quali furono puniti gli incauti e gli imprudenti, ma altri ancora e più raccapriccianti. Infatti tre animosi Ionadesi, in tempi remoti, tratti dal desiderio d’impadronirsi di quei tesori, osservando la tradizione, vollero, facendo insieme la guardia notte e giorno, aspettare il dì ed accingersi all’impresa. Né il loro desiderio andò deluso; poiché in uno dei giorni della settimana santa si spalancò in uno degli angoli più remoti delle due gallerie una gran porta, ed apparve la famosa stanza dalle pareti bianchissime e dal pavimento di ferro. Il demonio, come si narra, rapidamente girava intorno al tesoro abbagliante per lo splendore. I tre compagni, ad un cenno convenuto tra loro, si lanciarono uno di avanti, il secondo di dietro ed il terzo di fianco. Dopo una disperata lotta, benché tutti malconci ed insanguinati per i calci del cavallo, per i morsi e le terribili graffiature del diavolo, riuscirono a balzarlo giù di sella, legarlo e strappargli la tromba. Incontanente, senza indugiare, misero mano ai sacchi e, per quanto loro bastarono le forze, li empirono di monete d’oro, sperando di togliere l’altro danaro il dì seguente. Così s’incamminarono per il paese; e benché il demonio fosse legato per le mani e per un piede, pure li seguiva, struggendosi in pianti, preghiere e lamenti, per ricuperare la tromba. Erano già giunti al paese, quando i tre compagni per levarsi quella seccatura d’addosso, credendosi ormai al sicuro, perché vicini ad una chiesa, gettarono la tromba al diavolo. Questi come un lampo l’afferrò, ed imboccatala, ne diede uno squillo, al quale suono, i danari tornarono all’antico loro posto ed i tre compagni sparirono>>.

A Ionadi presso Mileto, in provincia di Vibo Valentia*, si crede ci sia un tesoro detto di S. Nicola e una notte un povero contadino, devoto del Santo, fu invitato a scendere nottetempo dal suo divino protettore, colla promessa di trovarvi mille piastre di oro. Temendo di avventurarsi in quell’ora, il contadino rimandò la discesa al mezzodì del giorno seguente; ma invece di mille piastre promesse, trovò le monete, per effetto della sua trascuratezza, convertite in altrettanti dischi di carbone, con impressi i segni del loro valore e l’effigie del re14. Nel sotterraneo di una chiesuola campestre, nel Cosentino, esiste un tesoro. Sulla pietra che lo chiude fa d’uopo uccidere un fanciullo nato da vedova, raccoglierne il sangue in un calice consacrato, versarne metà sulla pietra e bere il resto. Poi alla luce di due fiaccole di pino, segnar due cerchi nel mezzo della pietra, la quale si solleverà da sé. Da quell’apertura uscirà un fumo denso di pece e di zolfo; tra quel fumo appariranno gli spiriti, che cercheranno soffocarvi. Se voi tenete fermo, badando a non farvi toccare la punta del naso, udrete una voce terribile, che vi domanderà: Che volete? Voi allora: In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, esci di là, e va all’inferno. A questa invocazione lo spirito fuggirà urlando. Poi attraverso al fumo e alle fiamme, è necessario scendere per una scaletta in fondo ad una fossa. Ivi appariranno le ricchezze in tre recipienti, una pignatta piena di monete, una casseruola piena di gemme e una marmitta ricolma di pezzi di oro e d’argento. Bisogna una alla volta portarle all’aperto, passando tra il fumo e le fiamme, e il tesoro è vostro15.

A Castrovillari, sul monte Sansone, la fantasia popolare ha posto, in un sotterraneo, dodici bauli zeppi d’oro, d’argento e di pietre preziose sotto la custodia di Donna Marsilia. Per divenirne padroni è mestieri sacrificare, a mezzanotte, un bambino appena nato; poscia staccarne la testa dal busto e rotolarla attraverso alle macerie. Dove si fermerà il capo, là bisognerà cominciare gli scavi.

A Serra S. Bruno è diffusa la credenza che certi masnadieri abbiano sotterrato nella contrada detta Timpone del Lupo, presso Mongiana, un grosso cumolo di monete e di oggetti preziosi. Gli spiriti maligni fanno, forse, sentire ai visitatori il suono seduttore del denaro; ma è certo che ognuno si ritira colle pive nel sacco.

A Vibo Valentia, si parla pure di tesori, nascosti nel Castello, alla cui guardia stanno immani serpenti. Anzi un’antica tradizione, escludendo la memoria di Ruggiero, ha immaginato che questo propugnacolo di libertà fosse nato nel giro di notte infernale da magisteri d’incantesimi a servizio del franco stregone Malagigi; onde la sua vista destò sempre impressioni sinistre, che dettero luogo all’inverosimile e al meraviglioso delle novelle medioevali16.

Sulla strada nazionale Vibo Valentia-Mileto, e propriamente vicino alla stazione di Cessaniti, dicesi ci sia una pietra detta ‘ntonata. Là è nascosto un tesoro e, per averlo, si deve scavare un fosso, facendovi coricare un uomo o una donna, con dietro alle spalle un foglio di carta, perché, durante il sonno, sia scritta la formula da pronunziare per ottenere il tesoro. Dicesi che una volta si poté leggere la seguente formula scritta. Prendete un pezzo di corda, circondate con esso la pietra e poi spandetevi tre gocce di sangue della persona più innocente che si trovi sul posto.

A Bocchigliero17, dicesi siano molti tesori, di cui uno detto il tesoro di Timpa della Gatta. Una volta un vaccaro mungeva il latte delle sue vaccherelle e appendeva la secchia ad un embrione di scala, chiamato scatandrone dai campagnoli. Ogni giorno un serpe vi si recava a bere. Il mandriano vi si appiattò e nello slanciarsi, per colpirlo, il serpe parlò: <<Non mi uccidere, ché ti faccio del bene>>. Spaventato e poi riavutosi, l’uomo domandò il bene promessogli. Seguimi – disse il rettile – e ti ricompenserò del latte. E seguito dal pastore estatico prese a strisciare verso la Timpa della Gatta, dove, a sentire i migliori informati, esistono sette camere zeppe di tesori.

Quando fu costruita la chiesetta di S. Leonardo o dell’Immacolata, mancava la dote per la campana. Il nostro vaccaro aveva fatto voto di procurarla a sue spese. Per opera del serpe, vide nella Timpa dalla gatta, dove aveva sempre menata al pascolo la vacca, l’ingresso del tesoro aperto e vi entrò. Mucchi di denaro e di oggetti preziosi gli abbagliavano la vista. Stando indeciso sulla scelta, una voce dall’interno gli gridò: <<Una sola volta prenderai e con una sola mano!>>. Allora il pover’uomo, considerato che una campana anche piccola non si compra con una manciata di monete, vista una campanella delle dimensioni di cui egli l’aveva promessa, l’afferrò e uscì all’aperto.

Però non ebbe fretta di portarla alla chiesa, volle per un po’ godersela, e l’attaccò a una pertica; e, quando dal paese sentiva suonare le campane, ogni lavoro interrompeva per accorrere e suonar la sua. Meravigliata la popolazione di quel suono, dalla campagna accorse e seppe la storia.

Nella località delle Favude (falde), chi sale dall’Arenzana, verso la fine dell’erto monte, vede due balzi: l’uno formato di macigni, l’altro di terreno tufaceo. Nel primo si entra di traverso, dicono, a stento, per breve spazio lasciato dai massi (grave ‘e petre). Qui dentro la fantasia popolare pone il tesoro dei Rutti (grotte) di Guardia. L’aria pesante smorza le candele steariche, le lanterne a olio, la teda, il barbasco impeciato. Che avvenne in questa grotta?

Un buon uomo aveva due vacche che doveva condurre alla fiera, ma ne perdette, non si sa come, una. Inteso però, nella notte, il tintinnio del campano che gli giungeva dalla grotta, arditamente penetrò in essa. Ma a misura che s’inoltrava, il suono si allontanava da lui; camminava, camminava sempre, tuttavia, finché giunse a tal punto che rimase scorato. Fu proprio allora che grossi mucchi di monete d’oro vennero a colmargli il vuoto dell’animo. <<Bene – disse – mi dispiace della vaccarella ancor lontana; ma pagherò con questo bell’oro>>. E, legata un’estremità di manica con un filo di ginestra, empì la manica di quel seducente ben di Dio e poi si avviò verso il barlume del chiarore notturno. Ma, sul punto di lasciar la grotta, gli andò contro un individuo armato di mazza, minacciandolo di morte. Il buon uomo allibì, sciolse il filo e fe’ piovere a terra le monete; dopo si diede a fuggire da quel luogo maledetto. Ma l’individuo dalla mazza l’inseguiva e lo minacciava più di prima, nel gridargli che abbandonasse l’oro asportato.

Il campagnolo che sapeva di non averne, giurava, sempre scappando, di non possederne. Giunto al Pozzo, sarebbe tra poco entrato in paese; e allora l’inseguitore gridò fortissimamente irritato: <<Una moneta ti è rimasta nelle calandrelle>> (tavolette di cuoio porcino che si portano ai piedi con legacci). A udir questo, il pastore dimenò fortemente i piedi, la moneta cadde, ed egli fu lasciato correre in pace. Se la moneta fosse invece restata in possesso del rustico, il tesoro sarebbe rimasto aperto e sarebbe stato spezzato l’incanto.

Tornò a chiudersi, così, quella ligazione.

In altra località bocchiglierese, accosto alla Sila, si dice siano state trovate molte verghe d’oro in una cassa, che misero alla luce i grifi di un branco di maiali. Il piccolo guardiano che ne riferì al padrone, fu da questi ucciso sul luogo del tesoro; ma il mostro non godè completamente dell’oro, perché finì cieco. Quest’ultimo racconto sarà vero, perché il proprietario dei maiali è noto col nome di Marco Filigno, e sull’altare della sua famiglia, in un brutto quadro della parrocchia, si vede un vecchio in un lato, un bambino in un altro e un angelo che in alto mostra, se ricordo, la Vergine. La sagrestia possiede un calice d’argento col nome di questo pentito e con la data del 1680. Detta leggenda o storia ha cantato col titolo Le Verghe d’oro, il poeta Mazza, nataio a Bocchigliero.

A Rossano si ricordano quattro tesori, uno detto di San marco, un altro, nella località Conca di Diana, composto di otto barili pieni di oro, un altro sotto l’Ecce Homo, formato di quattro barili, e il quarto a Colagnate18.

A S. Costantino di Briatico, nella piana di Scrugli, credesi sia un tesoro, e un contadino pieno di coraggio andò, a mezzanotte, sul posto, portando con sé, secondo la prescrizione, quattro sacchi ed una varvusca19. Sapeva di dover percuotere la terra con la varvusca, per far comparire il tesoro, insieme ad un serpe, che lo avrebbe dovuto leccare fidando nel suo coraggio; il contadino andò a mezzanotte con il necessario, ma senza il carro com’era prescritto. Giunto sul posto, percosse la terra con la varvusca, comparve il tesoro, e venne fuori un serpe, che gli salì dalle gambe sino al collo, e poi lo cominciò a leccare sulla faccia. A tal punto, gli venne meno il coraggio, e gridò: Madonna di S. Costantinopoli!20. A tale grido, il serpe scomparve ed il tesoro si rinchiuse.

A Spilinga, nel Vallone della Fata, è un tesoro. Un altro tesoro è a Bisignano, detto di Monte Cocuzzo.

Su tale tesoro corre la seguente leggenda, comunicatami dall’avvocato Gaetano Gallo di Carlo.

 <<’Na vota, accussì cuntavano l’antichi, liberani o Signuri, tutti ‘’ssi parti nostri erano ‘mpistati di genti brutti, di genti chi nega lu Signuri, frati allu rimoniu i Saracini.

Chissi, liberani o Signuri, avjanu purtati duvu a una guerra e dispirazioni.

‘Nu juornu, dopo aviri ammazzati tanti figli ‘i mammi, pigliarunu alla forza e ccu lu trarimentu ‘a reggia d’u Rre. Ma i tinti nu truvarunu ‘i trisori21. I trisori, allu filu ‘i menzanotti, erano stati ammucciati, ccu ‘na magaria22 ‘tr’a muntagna, e nnu si po’ pigliari si prima nnu si scioglia la magaria.

I principi ppi libirari ‘i parti nostri d’i Saracini mureziru23 tutti quanti ‘ntra guerra e lu trisoru è guardatu ‘i ‘na crapa24 d’oru, ch’è l’anima ‘i ‘na giuvinella25 chi foziri26 ammazzata supra chilli mucchi ‘i trisori ppi fari cumu ‘i guardiana27.

Mo, ppi si putiri pigliari chillu28 beni ‘i Diu, unu addi29 fari accussi. Quanti figli ‘i mamma ci pierdiru30 ‘a pelle!...

‘A notti ‘i Natali, propriu all’ura chi ‘u Papa dicia la Santa Missa31, sa ddi ijri supr’a a Munti Cucuzzi e diciemmu cincucentu Gloria Patri. Dopu i chissà sanu di appicciari32 17 cannili e s’a di diri “Iesci, iesci crapuzza d’oru, cà ti fazzu arriggittari33, ppu Patru, ‘u Figliu e lo Spiritu Santu, amen”.

Ditti ‘ssi cosi, escia ‘nu Dragu, chi si nun ti stai accuortu ti stuta34 li cannili35 e ti mangia. Allura riciennu nu Gloria Patri subitu sa di muzzari36 a capu37 allu Dragu, ch’è lu Rimonio38.

Ammazzatu chilla brutta bestia, allura escia la crapuzza d’oru, ch’è l’anima ‘i chilla giuvinella, chi poziri scannata supra ‘i trisori.

‘A crapuzza, allura, ti ‘mpara duvu sunu ammucciati i trisori (chi s’avissimu una, ni puterrimu39 cumprari tutt’America) e quannu alla terza vota fa “bee”, tu l’hai fari di esciri sangu e mirulla40. Allu puntu duvu cada lu sangu e la mirulla d’a crapuzza, scavi e truvirai tri muntagni d’oru.

Sulu ccussì si po’ sarvari l’anima ‘i chilla quatrara41 e si po stari ccu ‘na scianga42 supra l’autra>>.

 

A Papaglionti, borgata del comune di Zungri, c’è un tesoro detto di Rosalia. In questo monte è un castello grande assai, e nel sotterraneo si dice sia nascosto un tesoro, e lì sotto furono trucidate diverse persone. Per prendere tale tesoro bisogna andare a mezzanotte, portare una pistola in mano, che sia nuova, e tirare dei colpi alla persona che si presenti davanti. Se la pistola spara tutti i colpi, allora il tesoro si presenta, altrimenti sparisce tutto, e anche la pistola sparisce dalle mani.

Vincenzo Margiotta, il magaru di cui ho già parlato, si recò, a suo dire, sulla località tre volte. <<La prima volta che andai – racconta egli – comparve, nel sotterraneo, una ragazza, la quale mi disse: “Questo monte si chiama Monte di Faraone, ed io sono sua figlia, a nome Bucarda, e con me ci sono altre due sorelle che si chiamano Elidetta e Filidora. Se vuoi il tesoro, devi fare così: prendi una rivoltella nuova, che non sia stata mai usata, e quando comparisce il cavallo col guerriero, che ha in mano la spada e in un’altra una palla dorata, spara mirando alla pala>>.

Andai una seconda volta e sempre a mezzanotte, con una biava43 di confetti ed una cavezza, e come sono sceso sotto comparve nel sotterraneo un cavallo fumeggiante44; io cercavo mettergli la gavezza, ma non sono riuscito, e me ne tornai; ritornai un’altra volta, e mi comparvero tredici personaggi, che preparavano una colazione per tutti e tredici; dodici colazioni furono consumate ed una è rimasta, ed io me ne tornai, perché volò una colomba e tutti sparvero, e là si rimase al buio. Tornai la terza sera, ma questa volta con altre persone, delle quali tre dovevano essere donne, che rimasero nel castello, ed io rimasi solo nel sotterraneo. Sul castello si fece trusellu45 con tre lenzuoli e dieci candele accese. Un vento impetuoso non spegneva le candele e né si consumava la cera, le cinque persone che erano Gregorio Fiammingo da Papaglionti, Mobrici Caterina, Licastro Teresa, Caterina Fiamingo ed io, vedevamo entrare e uscire dal castello una colomba, e come questa usciva, sotto il castello si faceva un buio pesto, e quando essa ritornava, si faceva una luce viva; io scesi sotto, vidi tre persone aggrappate ad una colomba che vi era colà, e mi minacciavano furentemente; così io me ne andai e più non tornai>>.

A Vallelonga, sul Monte Manzucullu, c’è un tesoro nascosto e una pietra bianca sulla quale saltella una moneta, e su tale pietra bisogna uccidere un bambino per impossessarsi del tesoro.

A Potenzoni di Briatico, per trovare un tesoro (trovatura), si deve friggere sul luogo, ove si presuppone sia il tesoro, un’anima, cioè un neonato, e friggere in una padella nuova sovra un treppiede (tripodi) nuovo, e per fuoco bisogna prendere una paniola di viti (sarmenti).

A S. Costantino di Briatico, sul luogo ove si presuppone sia il tesoro, si deve deflorare una ragazza, mentre ciò si fa, esce un serpe, lecca il sangue, e si attorciglia al collo per tre volte, e così vien fuori il tesoro.

A Vena Superiore, nella località detta La lenza della Pietra della Chioccia46, si dice che si vede ogni tanto una chioccia d’oro con i pulcini anche d’oro e chi ha la fortuna di prenderne uno, prenderà il tesoro, là giacente.

A Dasà, nella località detta Mastru Alfonsu, c’è una pietra detta Jovina; chi prenderà uno dei pulcini d’oro, che là si vedono, s’avrà la fortuna di impossessarsi del tesoro47.

A Mesuraca, si crede che nella località Santa Lucia sia la jocca cu’ i puricini d’oru; come a Tiriolo, nella località La Cruci, e propriamente nel fondo denominato Cima di Paternisa, che confina colla collina, a destra del monte Tiriolo; a S. Giorgio Morgeto, credesi sia la chioccia con i pulcino d’oro su al castello; a Polistena, alla chiesa della Madonna della catena, che è fuori l’abitato, sulla rotabile che va a Radicena. E a proposito di chioccia d’oro, il prof. Giovanni De Giacomo, nel suo pregevole lavoro Il popolo di Calabria, a p. 144, riporta un racconto di un vecchio contadino, della sua Cetraro.

<<Faceva l’amore mio padre. Gli era entrato nel cuore la mamma mia, ma quelli di casa non gliela volevano dare, perché egli non possedeva che le braccia e lei aveva un pezzo di terra a lu Ricuosu. Ma la notte non dormiva, non aveva pace, e andava di qua e di là, con lo schioppo sulla spalla, e, forse, qualche notte… Era bella quella sera. L’uva stava per maturare e tata era qua, dove siamo noi, che parliamo di lui, povero morto! Non poteva resistere, però, ad un posto, e scese giù a lu pedàli, a pie’ del podere. Camminava sulle punte dei piedi per tenersi nascosto a chi o per avventura o per fine di rubare di là poteva passare. E non si era allontanato molto, quando intese un pigolare, come di pulcini, e, di tanto in tanto, un chiocciare forte, al quale rispondevano i pulcini. Mio padre non ebbe paura, ma capì che non era una chioccia che sentiva: in quell’ora e in quel luogo così solitario, dove potevano essere i pulcini? Pigliò in mano lo schioppo, che aveva sulla spalla e si recò dove sentiva il pigolìo. Non vedeva niente; ma, pochi passi da lui doveva essere la chioccia, e camminava, e più vicino sentiva i pulcini… Niente! Non poteva vederli. Figuratevi la rabbia: avrebbe fatto seccare un albero, se vi avesse addentato. Camminava, sentiva i pulcini sempre più vicini; ca; camminava… Nulla! Camminò tutta la notte, ma sempre si aggirava pel podere. All’alba, non intese più niente. Allora ricordò che il padre gli aveva detto che in quel luogo c’era una chioccia d’oro, ed egli non la vide, perché aveva l’abitino della Madonna…>>.

Questi tesori vincolati, per i quali occorre sapere la formula o la “chiamata”, costituita quasi sempre da un sacrificio umano o dell’immolazione di animale.

Anche in Sicilia, scrive il Pitré, ogni trovatura è incantata (‘ncantata, ‘ncantisimata); e l’incanto fu operato nei tempi antichi uccidendo su di essa un uomo, lo spirito del quale restò sulla trovatura legato (liatu) col sangue che la bagnò. Quivi esso resta, e vagola intorno fino a tanto che il deposito non venga preso48.

Ed uscendo per un poco dalla Sicilia e dalla Calabria, fra le tante ricerche dei tesori, che si leggono sui quotidiani, ne riferisco una soltanto: <<Sei contadini di Orsera di Istria, sicuri di trovare il tesoro di Attila, nascosto nelle grotte del canale di Lene, hanno fatto saltare, mediante esplosivi, le roccie della grotta, e due contadini, tali Cius Antonio e Giuseppe degon, calatisi nell’interno della grotta, venivano colti da asfissia per emanazione di gas pestiferi. Il Cius moriva, mentre il Degon, soccorso dai suoi compagni, è stato trasportato moribondo all’ospedale.

I contadini del luogo imputano il decesso dei disgraziati al diavolo, di guardia al tesoro della grotta>>49.

A conclusione, tutti i tesori, siano essi vincolati o liberi, sono sparsi in ogni angolo della Calabria, e il desiderio vivo di arricchire, la bramosia dell’oro, l’egoismo di voler sopravanzare gli altri in ricchezza, spinse sempre e spinge ancora il credulo contadino, alla ricerca di tali tesori, di cui alcuni sono in possesso del diavolo, perocché, si devono compiere atti sacrileghi per averli, altri in potere del mago o del drago, i due esseri simbolici, raffiguranti la magia e la forza.

Anche a Roma, l’Arco degli argentari, così chiamato perché fu eretto dagli Argentari, nascondeva, secondo la leggenda, in uno dei suoi bassorilievi, un tesoro, che alcuni ladri bucarono, per impossessarsene.

Dei tesori liberi, cioè non vincolati, diviene padrone chi per primo li scopre. Così a S. Costantino di Briatico, e propriamente verso la Maria, vi era una così detta Petra Perciata (cioè bucata), e lì sotto v’era un tesoro che è stato preso da un individuo che, uscito dal carcere, è venuto da queste parti e chiedendo a questo e a individuo che, uscito dal carcere, è venuto da queste parti e chiedendo a questo e a quell’altro contadino dove si trovava il tesoro, l’ha rintracciato e se ne è impossessato. Anche nella località Convento, in S. Costantino di Briatico, v’era un tesoro e fu trovato da un contadino. Inoltre in tale territorio, v’erano altri tesori. Uno presso la Torre detta Santa Irene, vicino al mare, un altro nella località Perdipitti, e vi sono andati parecchie e parecchie volte molti contadini, perché vi è la leggenda che in tale località v’era un sacerdote che, per non essere derubato dai ladri, aveva pensato bene di mettere sotto terra il suo denaro, e qualche mese fa un contadino si è sognato che doveva andare egli con altre due persone e non più, per scavare la terra nel dato punto, dove vi era un vecchio aratro, per trovare il tesoro, ma sono andati tutti e tre a mezzanotte, hanno fatto il lavoro, e non hanno trovato nulla. A Dasà, nella località Petra Votata, v’era un tesoro, che fu trovato da uno scalpellino, un altro nella località La Croce del salvatore, trovato da una famiglia d’Arena.

Altri ed altri tesori liberi sono stati rinvenuti o dagli stessi che che li avevano nascosti o da altri. In tempi di nefasta ricordanza, molti ladruncoli sotterravano in punti ben determinati, come presso a un grosso tronco d’ulivo, o sotto una pietra singolare, quello che avevano rubato, e qualcuno di questi, talvolta capitato in carcere, rivelava a qualche compagno, che usciva dalla prigione, il luogo del tesoro, raccomandandogli di prenderlo e di farne parte alla sua famiglia. Si dice che, in passato, anche i ricchi, per timore di essere rubati, sotterrassero il denaro.

Ogni tesoro, poi, sia vincolato o libero. Ha la sua leggenda, ricca di episodi varii, che diversificano da paese a paese.

Riporto le due seguenti leggende, che mi ha dato il compianto e carissimo amico prof. Francesco petracca.

Nel territorio di Zungri (Vibo valentia) si crede che nel bosco del sig. Pasquale Generoso abiti una donna detta Santàcima, alta, la quale può rimpicciolirsi a suo piacimento. Passa la giornata lavorando al telaio e tesse fili di botomo50. Quando cammina per i viottoli del bosco porta sulla testa un cercine51 e sopra una quartana52 piena di monete d’argento.

Non si fa vedere da tutti quando cammina, e se qualche ragazzo ha la fortuna di riconoscerla e di dirle che è bella assai, gli versa tutte le monete che contiene la quartana e lo fa ricco.

In quel di Papaglionti, frazione del comune di Zungri, esiste una caverna profonda, dove s’osservano dei lavori in fabbrica, che fanno pensare ad una casa che sarebbe rimasta sotterrata per i rivolgimenti tellurici di molti secoli dietro. In questo sotterraneo, inesplorato, avrebbe dimora una donna dalla statura alta, chiamata donna Trisulina, padrona di parecchi magazzini pieni di monete d’oro. Non esce che un solo giorno all’anno, in incognito, senza farsi riconoscere, perché quel giorno ha statura regolare.

Stando in casa, ospita volentieri persone e non vuole che anime o persone pie. Chi si spinge ad andare a trovarla, è colmato di cortesie e accompagnato per tutta la casa, ch’è ampia, per fargli vedere tutti i suoi tesori. Gli mette sulle spalle una cassetta piena di monete d’oro che può portare fuori se si fa attorcigliare da un serpente senza manifestare segni di paura.

E qui, ancora, potrei riportare altre ed altre leggende dovute tutte alla feconda ed inesauribile fantasia del popolo, ma, per brevità, le tralascio, essendo tutte quasi simili, differendo poco una dall’altra.

Del resto, quanto io riporto basta per uno studio sull’argomento a chi avrà vaghezza di farlo.

 

NOTE

 

1  BRIGANTE COLONNA, Donne, diavoli e tesori di Tivoli nelle memorie di un domenicano francese, in “Giornale d’Italia, 1 maggio 1929.

2  Cioè. Sei venuto subito, sono quasi ancor vivo.

3  Un tale Paone Tommaso, detto Professore, da Tiriolo, mi fa avere copia della sua Storia dello Monte Tirio.

4  Il contadino Antonio Paone fu Gennaro, da Tiriolo, mi ha raccontato parecchi fattarelli sul proposito, di gente ch’è scesa, spinta dalla brama di potersi impossessare del tesoro.

5  E’ questa una pratica diabolica.

6  <<La Calabria>>, 15 settembre 1894.

7  Cioè imbiancarla, lavandola più volte; anche in Sicilia, e propriamente nella provincia di Messina, per alcune trovature, si richiede filare  o una fascia da bambini e trovarsi sul posto del tesoro (abbastanza lontano, s’intende) con quell’oggetto nuovo. G. PITRE’, Usi e costumi, credenze e pregiudizi, Vol. IV, p.380.

8  G.B. MARZANO, Scritti, Vol. III, p.102.

9  Cioè, sposato di fresco.

10 V. DORSA, La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze popolari della Calabria Citeriore.

11 Il volgo crede che tale libro sia magico e che tratti di tutte le formule e della spiegazione dei sogni; invece è un almanacco perpetuo, fisico, trattato di aritmetica di Ottavio Beltramo, di Terranova di Calabria Città, edito in Bassano nel 1720.

12 “La Calabria”, anno XIII, n.4.

13 “La Calabria”, anno VI, n.1,15 settembre 1893.

*  [Rispetto all’edizione precedente l’attribuzione dei paesi alle province di appartenenza è stata aggiornata secondo la nuova ripartizione amministrativa del territorio calabrese.]

14 “La Calabria”, anno III, n.9.

15 N. MINASI, In Magna Sila.

16 L. ACCATTATIS, Vocabolario del dialetto calabrese, p.244.

17 D. SCAFOGLIO, in “Il Retaggio”, A. XIX, N. 1-2.

18 Queste notizie mi sono state date dall’amico prof. Gino Cerbella.

19 Specie di radimadia che è attaccata ad un lungo bastone, che usa il bifolco per pulire il vomero, lavorando.

20 A San Costantino di Briatico, v’è un gran culto per la Madonna, che si venera sotto il titolo di Madonna di Costantinopoli.

21 Tesori.

22 Magia.

23 Perirono.

24 Capra.

25 Giovinetta.

26 La quale fu…

27 Custode.

28 Quel…

29 Deve fare…

30 Perdettero.

31 Si deve.

32 Accendere.

33 Stare in pace.

34 Smorzare.

35 Le candele.

36 Stroncare.

37 La testa.

38 Demonio.

39 Potremmo.

40 Midolla.

41 Giovanetta.

42 Gamba.

43 Biada.

44 Focoso.

45 Catafalco.

46 Striscia di terreno.

47 Nel Modenese, invece della chioccia d’oro di cui corre la leggenda in varie località della Calabria, si osserva quella della capra d’oro, intesa in alcuni luoghi come simulacro prettamente d’oro massiccio, in altri descritto come immagine d’animali, in materiale litico, dal ventre cavo, riempito poi di luccicanti bionde monete. E così si ha la capra d’oro, della Verdeta, nel territorio di Guiglia; la capra d’oro alle Cadiane, poco lungi da Modena; la capra d’oro della Staggia, luogo non lontano dal Cavezzo; la capra d’oro di Limite. A. PEDRAZZI, in “La Giovane Montagna”, anno XXXI, n.3, Par,a, marzo 1930.

48 G. PITRE’, Usi e costuni, credenze e pregiudizi, Vol. IV, p.371.

49 “Il Mattino”, anno 35, III ed., 20-22 agosto 1926.

50 In dialetto gùtamu = in italiano spartea, che è una pianta adoperata a far corde, e si adopera anche per mangime per gli animali.

51 Curuna in dialetto.

52 Specie di brocca grande di terracotta, stretta di sotto con una bocca larga e con due anse, che servono per il trasporto di acqua.