DA CARNEVALE A PASQUA
IN TROPEA

 

di Giuseppe Chiapparo


Il Carnevale, come si sa, trae origini dall'antica festa pagana dei Saturnalia e comincia il 17 gennaio. La consuetudine vuole che il giovedì grasso (da noi detto l'azata) le famiglie calabresi preparino il pranzo in cui non deve mancare la carne di maiale e se non hanno il danaro per comprarsela se lo fanno prestare, come viene confermato nel detto:

Giovidì di l'orzaloru cu' non havi carni si 'mpigna 'u figghiolu.

Il Carnevale raggiunge il suo culmine l'ultimo giorno. Allora i ragazzi si vestono da bautta, da zingarelle e da pacchiane, mentre i giovani assumono i più strani travestimenti. Semel in anno licet insanire. Citiamo quanto scrive a proposito il Segratario Generale della Intendenza della Calabria Ult. II nel vol. V del Cirella "Il Regno delle Due Sicilie" alla voce Tropea: "Durante il Carnevale le maschere nelle gallerie fanno rappresentazioni, e ne è spesso commendevole la riuscita. Le note dell'orchestrina si accomodano alle movenze della mimica, e ne esprimono l'idea con più effetto e precisione".
Talvolta pure rappresentano una specie di spartito buffo, ispirato dal genio de' rappresentanti medesimi, o da quello del poeta dal quale essi vengono diretti. I popolani fanno altresì le loro rappresentazioni nei larghi della Città divisi in vari drappelli in ogni strada, ogni vicolo, preceduti e seguiti da numerosissima folla. Nel giorno poi che chiude i baccanali sollazzi, si moltiplicano le maschere, e si sentono fino a mezzanotte altissimi urli co' quali fingono di piangere la morte di Carnevale che il popolo simboleggia in un omaccione di paglia goffamente vestito, al quale in ultimo finiscono con l'appiccargli il fuoco fra le grida e gli schiamazzi dei monelli, i quali cantano pure:

Carnilevari moriu di notti
e dassau quattru ricotti
Du' frischi e du' salati
Pi li povari malati;
Du' frichi e du' stantivi
Pi li poviri cattivi1.

Un artigiano, famoso ad organizzare mascherate, era un certo mastru Tumasi 'u Stranu, il quale, con un gruppo di giovani, goffamente mascherati, si fermava in piazza Ercole a fare le sue recite, declamando con voce solenne:

Io, signuri, su' di Gaita,
L'arti mia è di fari pignati,
E li fazzu di crita e di crita,
Io, signuri, su' di Gaita.

Una volta egli ed i suoi seguaci si mascherarono da musicanti e, cavalcando degli asini, fecero il giro della città. Ad ogni largo sostavano e mastru Tumasi aspergeva le frogge agli asini con urina di asina, che teneva preparata allo scopo e per effetto della quale essi si mettevano a ragliare. Immediatamente i musicanti divenivano cantori, sposando le loro voci stonate ai ragli degli asini, facendo così ridere a crepapelle gli astanti".
La maschera di prammatica è quella che rappresenta la Quaresima: una vecchia grinzosa, con conocchia e fuso in mano da cui trae il filo, la quale va lamentandosi per tutti gli stenti sofferti avendo dovuto lavorare continuamente per maritare dodici figlie. Queste figlie hanno tutta l'apparenza dei dodici mesi dell'anno; col libero riposo degli ultimi tre giorni di Carnevale, i quali sono una similitudine del libero riposo e dei liberi banchetti delle feste Saturnali, con cui chiudevasi l'anno latino.
Vi sono pure maschere ebbre che vanno suonando per le vie i trumbi di Carnelevari, che consistono in conchiglie marine (Tritonium nodiferum) ed altre che cavalianu Carnevale dicendo: Uuù, Cicciu meu.
Quando sta per spirare detto giorno, cioè a mezzanotte, la campana maggiore della cattedrale col suono ammonitore dà l'annunzio alla fine dei bagordi e del principio del periodo di penitenza. Allora ognuno si toglie la maschera e dà un addio alle crapule ed ai balli. E così entra la Quaresima, la quale caccia il Carnevale dicendogli:

Nesci tu, porcu luntruni !
Trasu io, netta e pulita.

Ma poi, a sua volta, viene cacciata dalla Pasqua con le parole:

Nesci tu, sarda siccata
Trasu io, la ricriata,
Muricriu a sti figghioli
Cu' nacatuli e ravioli.

In Tropea e dintorni le popolane usano appendere alle finestre delle loro case un pupazzo di cenci, raffigurante la Quaresima con fuso e conocchia in mano e con alla base un limone, in cui sono conficcate sette penne di gallina che servono ad indicare il periodo di astinenza e di penitenza ed ogni domenica ne tolgono una.
Durante questo tempo i ragazzi, quasi sospirando alla prossima Pasqua ed al lontano Natale, dicono:

Coraisima è venuta
Pi mangiari pani e lattuca
E l'acitu nci fa mali,
Beni mio, Pasca e Natali !

Il 2 febbraio ricorre la Candelora e il popolo saluta con gioia questo giorno perchè: A Candilora - 'A stati dinta e 'u mbernu fora. Ma a questo adagio un altro ne fa riscontro, che ammonisce di non illudersi tanto circa la cacciata dell'inverno:

A Candilora 'u mbernu è fora,
Rispundi 'a vecchia arraggiata:
'U 'mbernu si ndi vaci a Nunziata.

E' dunque chiaro che se l'andata via dell'inverno è problematica per il 2 febbraio, lo sarà certa per il 25 marzo, nella cui notte si vuole che la Madonna scenda nei campi a fare il primo gruppo (nodo) al grano.
Allorchè la Quaresima giunge a metà del suo corso, in Tropea usano dire che sullo scoglio dell'isola si serra 'a vecchia. Questa frase ci ricorda i tempi quando erano vive le tradizioni prime nelle quali, giunti al punto medio della stagione tenebrosa, si usava far festa mangiando, in compagnia di amici, fichi, castagne ed altri cibi simili. Il Dorsa osserva in proposito che se quel giorno passavasi dal popolo in piacevole brigata, la carità cristiana dovette rivolgere il suo pensiero ai poveri ed a ciò attribuisce l'uso calabrese del giorno di S. Giuseppe (che segna approssimativamente la mezza Quaresima) di offrire ai poveri un pranzo e servirli di persona, come usavano verso i servi i padroni nelle su citate Saturnali latine, o almeno di beneficarli con pane, legumi e frutta.


Una folla incontenibile segue la Processione di San Giuseppe in una vecchia foto
degli anni Sessanta (Archivio Famiglia Angiņ). Una tradizione tropeana ripresa
solo qualche anno fa a furor di popolo e subito dimenticata come di solito accade al popolo tropeano.

Il 19 marzo giungono le prime rondini, recandoci il saluto della primavera, e la Confraternita di S. Giuseppe, a mezzogiorno, sul ballatoio della porta secondaria della Parrocchia di S. Caterina, prepara una mensa alla quale prendono parte tre poveri, un vecchio, una donna ed un bambino, simboleggianti la Sacra Famiglia. In questo giorno per gli artigiani il piatto di rito è la pasta coi ceci, oltre le tradizionali zeppole.



La secolare Fiera dell'Annunziata.

In occasione della festa dell'Annunziata i giovani comprano alla fiera i mastazzòli di Soriano a forma di cuore e con degli agrumi speciali (prunzii e puma Addamu) li offrono alle loro fidanzate. Domenica delle Palme, che ci ricorda l'entrata in Gerusalemme, fra il popolo osannante, del Principe della pace Gesù Cristo, si portano a far benedire in chiesa le palme variamente intrecciate ed i rami d'ulivo che i marinai usano mettere sulla ruota di prua dei loro navigli.
I contadini traggono gli auspici dell'annata agricola in corso osservando lo stato meteorologico della giornata, che poi mettono in relazione al contenuto di antichi adagi, come il seguente: Parma chiovusa, gregna gravusa.



La Processione del Venerdi Santo degli anni Ottanta con la 'vampata' (falò).

Ed eccoci alla così detta settimana maggiore con le sue funzioni liturgiche di massima importanza. A partire da mercoledì santo, nelle ore vespertine, i ragazzi si recano in chiesa per fare 'u tirrimotu. Essi, non appena viene spenta l'ultima candela, si mettono a picchiare il suolo, le porte ed altro con bastoni o sassi.
Giovedì santo, di buon mattino, tutti i fratelli della Confraternita del Santissimo, al canto dell'inno: Sacro convito, vanno a comunicarsi in Cattedrale ed il popolo segue il loro esempio. In questo giorno N. S. Gesù Cristo vien messo al Sepolcro, si liganu le campane ed in loro vece si adoperano i trocculi (crepitacoli) fino all'ora in cui sabato suonerà la gloria.
In segno di lutto i negosi stanno con la porta semichiusa e tutte le famiglie non coprono la tavola da parnzo con il solito mensale. Nel pomeriggio le confraternite vanno a visitare i santi Sepolcri. Tutti i fratelli portano la corona di spine sul capo e incedono a passi lenti, disposti in ordine di maestri di cerimonie recitando il Miserere.
Verso le ore 15 del Venerdì santo un musicante va in giro per le vie suonando lugubremente il tamburo, onde avvertire le mamme che l'ora della processione del Cristo morto s'approssima. Le pie donne non perdono tempo e fanno indossare alle loro figliole l'abito ed il velo nero da Veronica e poi le conducono alla chiesa dei gesuiti.
La processione, che è un avanzo delle antiche rappresentazioni sacre, s'inizia a sera ed è qualche cosa di fantastico e commovente. Segue la bara del Cristo morto la musica, che suona una straziante marcia funebre e tien dietro una folla immensa di popolo. Gli uomini reggono in mano delle fiaccole resinose e le donne cantano un tradizionale lamento che vale la pena riportare per intero:

Non fu a Gesù li pedi chi lavau,
'N casa di Simuni, 'a Matalena?...
O duci figghiu, e cui t'indovinau?
Supportare no' lu pozzu pi la pena.
Sta bella facci toi chi nd'allegrava,
Cu ti la trasformau, cuntami, cui?
Sta duci vucca, chi beni parrava,
Cui ti la chiusi, ca non parra cchiui?
Quali manu crudili e dispietata?
Si 'ncorchi mamma perdi li figghili
E li perdi morendu a lu so' lettu;
Ma cu li perdi strani cchiù si doli,
Affritta e sula cu tantu dispettu.
E si menti a lu lettu ed havi medicini;
Ma, duci Figghiu, a Tia sta priparatu
Pi lettu 'a cruci e'nu massu di spini,
Feli ed acitu su' medicamenti,
E mori in cruci senza nu lamentu !
Pi chistu 'nsuppurtabili doluri
Ti raccumandu assai li piccaturi
E 'sta grazia Ti cercu, o Figghiu duci:
Fa' mu moru cu Tia sutta la cruci.

Lungo la via dei Latini (oggi detta via della Libertà) ed al Borgo, al passaggio della processione, vengono accesi dei falò. In piazza Ercole ha luogo la cosidetta affruntata: la statua della Addolorata viene ad incontrarsi con la varetta di Gesù, fra la più viva commozione di popolo. Mattina di Sabato santo in chiesa viene benedetta l'acqua lustrale e le famiglie ne approfittano per farsi benedire l'acqua contenuta in bùmbuli e cùccumi nuovi. Primo a bere in detti recipienti dev'essere un maschio, poichè soltanto così viene distrutto ipso facto il loro caratteristico puzzo di creta.
Verso mezzodì le campane, squillando a festa, danno al popolo il lieto annunzio della Resurrezione del Redentore del mondo. La musica in piazza intona la marcia reale ed i ghiottoni addentano avidi le salcicce, memori del detto: Gloria sonandu e sotizzi mangiandu. Dopo ciò i macellai (detti guccèri) conducono al macello un bel toro e delle grasse giovenche, infiorati ed ornati di nastri dai vari colori, onde sacrificarli assieme a parecchi agnelli. Nel pomeriggio i Parroci vanno a benedire le case e ricevono in dono dai fedeli danaro e uova.
Domenica di Pasqua i coloni portano le prestazioni di uova e di polli ed i pastori di agnelli ai loro padroni e questi ne fanno parte agli amici. I ragazzi ricevono in dono dai loro parenti 'u campanaru (ciambella con una o più uova) e le uova di cioccolato. Ciò è un ricordo delle feste Sigillarie dei romani, nelle quali ai fanciulli si davano uccelli e puttini di pasta ornati di uova. Come è risaputo, le uova per gli antichi romani erano simbolo di fortuna; ma la Pasqua cristiana le ha bedette e S. Agostino le ha dichiarate simbolo di speranza. Ma noi sappiamo pure che l'acqua lustrale ed il sole di primavera, trionfante dell'inverno nell'occasione della Pasqua, ricordano l'origine del mondo, che si rinnova mercè l'opera riparatrice del nostro Salvatore Gesù Cristo.
Qui giova ricordare ancora il Segretario Generale dell'Intendenza della Calabria Ult. II, Benedetto Stragazzi, il quale, nella sua dotta monografia, così si esprime: "Nelle feste di Pasqua la gente del popolo e gli artigiani, in ambito di gala, vanno a diporto su barchette, e giunti a qualche spiaggia, dopo aver cantato canzoni di allegrezza durante il breve tragitto, fanno quivi strepitosissimo baccano, mangiando agnelli ed altri cibi pasquali, e trincando alla distesa. Ognuno può berne: immaginare quanto brillante riuscire debba il loro ritorno in città. E se ciò a motivo del cattivo tempo, non possono effettuare, compiono i loro divertimenti in qualche casa rurale, ma con minore soddisfazione. I signori sogliono pure in quell'epoca divertisrsi in campagna e nelle marine. Molti conviti vi sono tra i consanguinei di ogni classe"1.
I giovanotti usano divertirsi ad attruzzu ova. Questo gioco consiste nel far cozzare fra loro le uova e l'uovo che si rompe passa in dominio di quello rimasto intatto. Finiamo citando alcuni proverbi:
1) Pasca marzatica mortalità e famatica: significa che quando Pasqua capita nel mese di marzo si temono delle carestie e la morte fa più vittime del solito;
2) Pasca undi li trovi e Natali ch'i toi: che vuol dire che la festa di Pasqua si può trascorrere dovunque uno si trova, mentre il Natale, essendo la più grande solennità dell'anno, bisogna festeggiarlo in seno alla propria famiglia;
3) Natali o focuni e Pasqua o saluni, con la sua variante: Natali o suli e Pasqua o focuni, che ci dà un consiglio igienico dovuto all'esperienza. In ultimo abbiamo: Vroccula gnoccula e predicaturi - Doppu Pasca non servinu cchiuni, che fa intendere che ogni cosa dev'essere fatta a suo tempo.

NOTE
1 Cattivi = vedovi.
2 Cirella, Il regno delle Due Sicilie, voce Tropea, vol. V.