Mastru Giannuzzu (Gaetano Agosto) direttore di banda musicale, musicista, compositore,
trombettista e percussionista, 'scarparu' e burghitanu da sette generazioni.

MASTRU GIANNUZZU
U SCARPARU

di Antonio Cotroneo


"´Nci volarrenu i petti i ferru sutta e scarpi toi". Così si lamentava mia madre perchè le scarpe nuove erano nuovamente rotte dopo neanche una settimana che mastru Giannuzzu le aveva risuolate. La casa del calzolaio, non distante dalla nostra, sembrava un convento. Tutta la giornata era un via vai di gente che entrava ed usciva, portandogli paia e paia di scarpe da riparare e ritornando a casa con quelle che il mastro aveva acconzatu.
U misteri du scarparu, (del calzolaio) insieme a quello del falegname e del fabbro, era una delle attività artigianali che più prosperavano dopo gli anni sessanta nel nostro paese. In ogni rione di Tropea se ne contavano parecchi di questi "acconzatur´i scarpi". L´età media dei mastri che esercitavano questa professione nella nostra contrada era intorno ai sessant´anni. Fra i tanti ricordo Mastru Vicenzu Bova, la cui bottega si trovava vicino alla fontana comunale; Mastru Nuzzu che esercitava u misteri dentro casa; Mastru Cicciu e mastru Carminu che abitavano nello stesso portone di mia nonna; "Ntoni e mastru Micheli, due fratelli che vivevano soli in una vecchia e buia abitazione vicino al mio negozio. Alcuni di questi scarpari, oltre ad esercitare la professione, erano dediti anche alla vendita di scarpe nuove e stivali di gomma che venivano usati dai contadini e dai cacciatori.
Al contrario degli attuali tempi, in cui si preferisce buttare via le scarpe rotte a causa dell´eccessivo costo per ripararle, a quel tempo dovevano essere acconzati e risuolate finchè era possibile, perchè non tutti potevano permettersi di comprare nuove calzature e rimetterle a nuovo non era costoso dato il forte antagonismo e la concorrenza che i mastri esercitavano fra di loro. Le strade non asfaltate, piene di pietre appuntite, vetri e "puntini", contribuivano ad una loro rapida rottura, in special modo dei "petti" che dovevano essere rimessi due o tre volte. Le scarpe stesse erano costruite (cucite, incollate e inchiodate) in modo tale da poter essere sempre e facilmente riparabili.
Fino alla fine degli anni settanta, "scarpari" in paese se ne contavano ancora molti, ma si riducevano drasticamente per il fenomeno dell´emigrazione che portava via tanti bambini di famiglie povere. Infatti, i discipuli che andavano "o mastru", per apprendere l´arte, provenivano, principalmente, da queste famiglie bisognose. Il mastro non si limitava solamente ad insegnare "l´arti" al discepolo, perchè svolgeva, inconsciamente, un´altra più importante funzione: l´educatore morale e sociale del ragazzo. Infatti, l´apprendista, remunerato settimanalmente con qualche spicciolo, oltre ad imparare il mestiere per poter un domani vivere, a casa del mastro era anche salvaguardato e protetto, affinchè non andasse in giro per il paese a vagabondare, oziare, frequentare brutte compagnie che lo avrebbero sicuramente condotto sulla strada sbagliata: la malavita. Se il mastro notava che "u discipulu" era ubbidiente e volenteroso, pazientemente gli trasmetteva tutti i segreti del mestiere, affinchè un domani divenisse un valente "scarparu" ed essere, così, orgoglioso di aver contribuito non solo a farlo "mastru" ma anche uomo corretto, stimato e ben voluto dall´intera collettività del paese.


Mastru Giannuzzu alla grancassa e Saverio Cuturello (Roru) al rullante
in azione durante un'edizione anni sessanta della Festa della Croce.

Attualmente, calzolai se ne contano ancora un paio che esercitano "u misteri" facilitati dai moderni macchinari e attrezzature messe a disposizione dall´industria. Io sono nato un piano sopra la casa di Mastru Giannuzzu. Dato che la nostra abitazione era pericolante, mia madre, qualche anno dopo, si trasferiva in una casa più grande di fronte al Mastro. Uscendo dalla sua porta c´era un piccolo giardino, con tanti fiori, che lui innaffiava e curava con tanta pazienza e dove io, da bambino, mi recavo a giocare, guardato da sua moglie. Il mastro era tipo di poche parole, laborioso davanti al "banchettu di scarpi"; attaccato alla famiglia e, ancor di più, alla sua tromba con cui si esercitava tutti i giorni durante le frequenti pause lavorative. Aveva un orecchio musicale finissimo ed era capace di accordare la mia chitarra in un batter d´occhio. Poi, con lo strumento suonava e strimpellava vecchie canzoni di "sonatur´i sutt´e barcuni" e stornelli calabresi. Dirigeva una banda composta da vecchi artigiani tropeani che si recavano a piedi nei paesi vicinori di campagna, per suonare durante le processioni e le feste campagnole. Era denominata "banda du vinu", per le tantissime stonature che si sentivano (quando i componenti della banda arrivavano a piedi al paese e iniziavano a suonare erano già brilli) e per i contratti atipici che stipulavano con i parroci e le commissioni delle feste. Infatti, quando "s´addubbavanu" (si accordavano), chiedevano poco denaro per la prestazione. Preferivano i prodotti locali (´ndujia, suppressati, salami, capicoi, pan´i casa) e, specialmente, vino che bevevano mentre ritornavano a piedi al paese. Spesso, parecchi componenti della banda rientravano barcollando per le strade, tanto che dovevano essere accompagnati dai parenti e dagli amici fino a casa.
Un´altra importante funzione esercitata dal calzolaio, era quella di suonatore di grancassa e tamburello, per la festa folcloristico popolare burghitana: "I tri da Cruci". Ogni sera, prima che iniziasse a battere la "grancascia" (grancassa), decine di ragazzini burghitani lo aspettavano con impazienza presso la fontana, affinchè ne scegliesse uno per reggergli il grande tamburo. Una volta ho provato una grande gioia quando ha voluto che io gli tenessi "a grancascia" per tutto il percorso. Infatti, prima di sera i suonatori, scendevano dal Borgo tambureggiando e, arrivati alla villetta svoltavano per via Nazionale. Salendo da questa strada arrivavano in piazza, a Porta Nova, dove si riposavano per una decina di minuti davanti al Purgatorio. Poi riprendevano nuovamente a tambureggiare e i colpi, dati con un mazzuolo imbottito, erano più forti, più veloci, in modo da richiamare maggiormente l´attenzione delle persone che si trovavano a passare. I suonatori, dopo aver finito di battere, (qualche anno anche mio zio Lorenzo ha suonato il tamburo per la "Santa Croce") rientravano al borgo, dove le donne, già radunate vicino a un altarino abbellito con fiori di campo, attendevano il loro rientro per iniziare a recitare la litania.
Mastru Giannuzzu u scarparu è stato, indubbiamente, uno dei personaggi più carismatici della contrada e che io ho avuto modo di conoscere. In lui si notava una grande serietà, un forte attaccamento al lavoro e alla famiglia. Amava la musica e, soprattutto, il gruppo dei bandisti che aveva formato e che con tanto entusiasmo dirigeva. La passione per la musica lo induceva ad esercitarsi costantemente e quotidianamente con il suo strumento preferito: la tromba. Infatti, prima di partire per una festa di paese, lo si vedeva dietro la finestra a provare e riprovare ripetutamente le marce e i pezzi musicali. Prendeva con molto impegno e serietà tutto quello che faceva nella vita, mettendoci tanto amore e umiltà, trasmettendo a molti altri quanto di positivo c´era in lui. Non voleva strafare, emergere a tutti i costi. Intendeva solamente trarre, da quanto faceva, piccole gioie e soddisfazioni che lo rendevano felice e, nello stesso tempo, lo portavano ad amare la vita. Il mastro ha esercitato u misteri du scarparu e ha suonato con la banda fino a tarda età.


Natale 1969. Parte dei componenti della mitica Banda di Tropea. Da sinistra:
Francesco Sposaro ("Mastro Ciccio 'u 'npermeri"), al trombone;  Antonio Sartiano ("Marasco"), al clarino;
Gaetano Agosto ("Mastru Giannuzzu"), alla tromba;  Saverio Cuturello ("Roro"), al rullante;
Domenico Laureana ("Mondo"), alla cornetta.

Versi dedicati a
Mastru Giannuzzu

di Antonio Cotroneo


Mali tempati, friddu siccu, frevaru,
fora scuru, paru paru .
´Nto portuni, com´aspettava u pecuraru,
viu passari veloci, o mastru scarparu.

"Ossequiamu Mastru Giannuzzu! Chi si dici!
Stu misi, mali tempuni chi ´ndi fici,
no si po' nesciri,
manc´a chiazza, potimu iri".

"Tu! O portuni, di bon´ora?".
"Aspettav´u ricottaru, pi chistu fora".
"Mastru! E a banda?
Na viu nesciri a nujia vanda?"

"I musicanti vostri minanu pi vinei,
chi tiranu diritti di Coccimiei .
Chi fati, vi riposati?
E' na simana, chi no provati".

"E no sentu manc´u trumbuni,
chi quandu ´ntrona, scas´u portuni .
E manc´a trumba,
chi, quand´attaccati, a casa rimbumba".

"I sti tempi, nu mund´ i fari,
centinar´i scarpi spracasciati, d´acconzari,
a casa, par´a pricission´i Sant´Antoni,
scarpuni e scarpini sdillabbrati , a milioni".

"Muggherima , prioccupata povirea:
"Giannuzzu! I tri! Si rifriddo' a pasticea".
"Mariangiula! Va dinta e stira!
Accuppala ! Ma quaddei stasira".

"Pero' Toto', u clienti e' clienti,
no po' diri no, ti cangia ´nta nu nenti".
"Mastru! Scarpi ´nd´aviti na muntagnata,
sim´a fevraru, ´ncii cunsignati pa Fer´a nunziata?

"L´atra simana u spusaliziu, da cummari,
cchiu' tardu, vi cal´i mei d´acconzari.
Vi raccumandu, facitimmilli comu sapiti,
sulu chisti, pi strati e pi ziti."

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"Cu tempu toi! P'amuri i Deu!
Pi tacch´e soli, u re su ggheu,
portammilli e no ci penzari,
na vot´acconzati, tri anni po´ caminari".

"Mastru! Mentitici cromatina,
no cu puzzu e sputazzina".
Comu parru, i l´atru latu na friscata,
u nannu, voli ´ncuna cosa accattata.

"Toto' frisca, non avi i far´i petti
sicuru i Don Titanu pi sicaretti".
"E' ghhi´arret´o portuni, u zu Pascali,
e' l´ura, u ci´accatti ´i nazionali".


 
 
 
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