Discorso storico sulla
Accademia degli Affaticati

di Nicola Scrugli
(1891)


Accademici egregi.

Un chiaro filosofo italiano dei nostri tempi, il Gioberti, ha scritto che le attuali accademie filosofiche sono istituzioni vane, senza vita; reliquie di un'età passata ed esistenti in forza della consuetudine; che servono solo a nutrire una classe di letterati, che, quantunque inutile, ha dritto di vivere; che quelle dei poeti poi sono affatto ridicole, così che le dicerie, che in entrambe vi si spacciano, non hanno alcuna consistenza. Io non saprei, mi perdoni l'illustre scrittore, accordarmi in tutto a questo suo parere. Che se è vero che le opere di polso non sono lavori delle accademie, è pur vero quello che egli stesso soggiunge, che buoni lavori possono nascere da esse. Ed ecco le accademie non interamente vane. Anzi utili si possan dire le accademie e i congressi pei lavori comuni, per l'eccitamento alle indagini e per la reciproca trasmissione delle idee, ed oggi sopratutto nelle ricerche archeologiche ed antropologiche, alle quali porgono aiuto i musei paleoetnologici, alle quali porgono aiuto i musei paleontologici. Che se anche furono di gloria agli antichi, poichè hanno innalzato ad alti gradi la letteratura, han dato grandi esperienze e grandi scoperte, ed han nutrito uomini sommi: è stato in conseguenza di gloria agli avi nostri l'aver questo nostro consesso istituito. Il quale, avendo nutrito, e non ha guari, savi e letterati di fama europea, è pure gloria a noi l'appartenervi ed il sorreggerlo. Perciò io sono per intrattenervi con la narrazione di quelle notizie, che per me si son potute raccogliere, le quali, dalla fondazione scendendo, vengono sino a noi. Di esse talune mi sono state porte da due discorsi di due nostri segretarii, l'uno del signor Francesco Barone, trascritto nel volume primo degli atti accademici del 1779, e l'altro di mio zio canonico, signor Giuseppe, letto nella tornata dei 31 Gennaio 1819. E giacchè, apprendendo dal signor Arrovet di Voltaire che nello scrivere scientificamente un racconto storico qualunque, non deesi arrestare alla semplice narrativa, verrò perciò a proporre alcuno emendamento dopo avvertito qualche errore commesso.
A voi, onorevoli socii, è ben noto che i secoli VII, VIII, IX e X furono i tempi del buio dell'umano scibile; che il secolo undecimo cominciò a mala pena ad apportare qualche luce; che il decimoterzo fece vedere il chiaro giorno; che la letteratura italiana pervenne ad alto grado per le fatiche di molti rinomati letterati; e che, introdotto man mano il gusto dello scrivere, cominciarono a sorgere nel secolo decimoquinto le accademie nell'italiana penisola. Roma in fatto nel 1440 ebbesi a vantare della sua prima accademia; Siena della sua degl'Intronati, ed in seguito entrambe di altre. Nello stesso secolo decimoquarto  e nei susseguenti Venezia, Ferrara, Ravenna, Verona, Bologna, Padova, Napoli, e, nella Sicilia, Palermo, Messina, Siracusa, Girgenti, Cosenza, Aquila, Tropea ed altre città.
Or mi direte esser mestieri che io mi fermassi per indagare il tempo, in cui i nostri padri abbiano dato cominciamento alla nostra accademia. Ma debbo confessarvi che l'epoca precisa e certa io la scorgo ignota, e ne saranno stata causa gl'incendii e le rapine, per cui le antiche memorie delle cose nostre, conservate nei nostri conventi e in quello sopratutto di Santo Sergio, siti di deposito di letteratura, siccome furono i moltissimi conventi, perirono; non che quelle negli Archivii di questa vescovil curia. Ed essendosi taciuti negli scritti loro gli archeologi compatrioti1, forse perchè le accademie erano sol tollerate dal viceregal governo, non ci è rimasta dell'origine della nostra Accademia alcuna ricordanza.
Per lo che io, costretto ad andare in traccia di un'epoca più o meno approssimativa, non esito, accordandomi al segretario, mio zio, stabilirla colla maggior possibe probabilità tra il XV e il XVI secolo.
Appogiano primamente con alquanto di solidità il fatto assunto le poesie del poeta patrio Giov. Battista Caivano, che fiorì verso il 1560, tra le quali rinviensi quel sonetto, che sarò più giù per dettare. dedicato al presidente di quell'epoca. Di queste poesie, il segretario signor Barone, nel discorso, di cui sopra feci cenno, ci accerta col dire: <<Trovansi manoscritte le poesie del signor Giov. Battista Caivano, che scriveva nell'anno 1572>>. E il segretario, mio zio, accerta di più, che quelle poesie erano conservate dal sig. D. Antonio Migliarese, e che or io non saprei se sono smarrite o se esistono ancora tra i molti manoscritti del Migliarese stesso, che ha la famiglia ammonticchiate e confuse. Sentite il sonetto:

Or che la bella e boschereccia Flora
E Favonio, scherzando dolce, vanno.
E fan più vago e dilettoso l'anno,
Che della terra il ciel già s'innamora;
Voi, signor mio, coi vostri socii ancora,
Per togliere ad ognun ciascuno affanno,
Fate, sotto apparente a finto inganno,
Varii effetti mortai vedere ognora.
E per far che maggior la gloria e il vanto
della nostra Accademia all'altre passe,
Cinto i capei di verdi lauree fronde,
Del gran Tosco sì ben l'altero canto
Esplicate e i pensier, che in dubbio stasse
S'egli dal cielo in voi la voce infonde.

Appoggia pure il nostro assunto quello che i suddetto segretario signor Barone sostiene, che nel 1538 questo consesso scientifico-letterario era già, mentre in quell'anno è stato pubblicato pei torchi ducali di Monteleone un librettino di scelte rime di tale socio degli Affaticati. però debbo dire che avrà potuto essere pubblicato per altri torchi, giacchè il Capialbi ci obbietta che i torchi ducali abbiano avuto esistenza nel susseguente secolo.
L'appoggia inoltre quel che scrive l'Allacci, che nel 24 Settembre del 1600 sia stata dai Socii Amorosi rappresentata sulle scene tropeane la commedia <<Il Trionfo di Amore>> scritta dal compatriota Canonico Ottavio Glorizio; per lo che saremmo ad un'esistenza dell'Accademia anteriore al 1600. Dobbiamo però osservare che l'Allacci ha dovuto errare nel chiamare Amorosi i nostri socii Affaticati; siccome ha errato il Capialbi: <<Che l'Accademia degli Affaticati, sorta forse nel 1630, sia tutt'altra da quella degli Amorosi. Giacchè smentisce entrambi l'Abate Sergio, il quale, nato nel 1642, scriveva: <<Recordor ipse aevo meo cum essem tyrunculus>> che l'accademia radunavasi in ciascun mese, talora in ciascuna settimana nelle sale del ginnasio dei Gesuiti ed in altri siti. Ed egli, nel cennare i nomi di diverse accademie, soggiunse che i socii exornari voluere titulo l'Affaticati, nimirum virtutum ac scientiarum honorato labore amantes. Alle quali parole il segretario, mio zio, si accorda, e che l'Accademia nostra ha conservato sempre il medesimo nome. Ma comunque l'Allacci la chiami ed il Capialbi voglia ammettere due accademie, da essi vien dato un sostegno d'un'epoca di un'accademia in Tropea.
Da anche appoggio il dotto cittadino, D. Tommaso Decano Polito, che ci parla di una sospensione di tornate sofferta dall'Accademia nel 1612, appunto quando il Vicerè di Napoli, D. Pietro de Castro, non avendo avuto i danari a costruire il palazzo degli studi, o non avendoli a pagare i presidii di Toscana, vendette Tropea al Principe di Scilla. Fu certamente una conseguenza delle gravi angosce dei nostri cittadini nei quattro anni, dal contratto della vendita a quello della rescissione, che le riunioni accademiche sieno affatto cessate. Dal che, se nel 1612 il consesso era già, è legittima l'illusione che fosse esistito in tenpo anteriore.
Dà appoggio quell'esser nel 1641 dato di sprone ai socii dal presidente Canonico Gio. Battista Pontoriero per rianimare le riunioni; il che mostra che in tempi anteriori l'accademia fosse esistita, non essendo soliti i fondatori mancare di solerzia. Sentite:

Adunanza gentil, drappello eletto,
C'alto desio, qui di saver v'appella
A magnanima impresa opra sì bella
S'accinga ognun con generoso affetto.
Diasi bando all'otio mostro infetto,
Si richiami virtù da Noi rubella,
E più non erri in questa parte e in quella:
Trovi alfin qui fra noi fido ricetto.
Qui, qui lieta trionfi, e l'ozio vinto
A lei soggiaccia, e di vittoria in segno
Erga trofeo dell'avversario estinto
Qui sicura ricovri, e qui il suo degno
Saggio ripongo, e qui di gloria cinto
Quasi nostra regina habbia il suo regno2.

Si ha infine un appoggio da una argomentazione presa dagli antecedenti ai conseguenti, la quale ci vien suggerita dal disorso, che di sopra ho detto essere stato letto nella tornata del 31 Gennaio 1818 da mio zio. Ed eccola:
Se Tropea nei secoli XV e XVI ebbe a vescovi i dottissimi Pietro Balbo, da cui fu retta la nostra Chiesa dal 1450 al 1479; Monsignor Pappacoda, da cui fu retta dal 1499 al 1536, a Giovanni Boggio Bolognese, da cui fu retta dal 1541 al 1559, e che per la gran dottrina meritò da Papa Giulio II di avere il carico di varie legazioni e di venire annoverato nel collegio dei Cardinali; se Tropea in sè ebbe cittadini sommi nello scibile3, in quei secoli appunto, in cui la letteratura sorgeva, ed in cui sorgevano le accademie; se Tropea, allora città d'importanza pel governo, era solerte imitatrice delle costumanze itale; puossi da tutte queste cose ben trarre che non si sia rimasta inerte ad imitare le città lontane e le vicine, e che non sia stata tarda nel fondare l'Accademia. A più forti ragioni e inoltre mestieri numerare i molti dotti ed alti compatrioti di quella stagione, per scorgere con alquanto di legittimità il conseguente di sopra indicato.
Furon dotti vescovi Iannino Malatacca pria cantore della chiesa tropeana e nel 3 Giugno 1394 creato vescovo di Oppido; Matteo Criscone, a 5 Aprile 1434 vescovo di Pozzuoli; Giacomo Lancellotto, a 23 ottobre 1438 vescovo di Policastro; Goffredo de Castro, a 4 Maggio 1442 vescovo di Martirano, e nel 1446 traslocato in San Marco; Salvator Mosca, agli 11 Ottobre 1455 vescovo di Vico Equense, Francesco Nomicisio, nella seconda metà del cesolo XV, vescovo di Lesina; Teofilo Galluppi, a 10 marzo 1561, vescovo  di Oppido ed uno dei PP. del Concilio di Trento; Marco Lauro, a 26 gennaio 1560, vescovo di Campagna e Satriano; ed il Cardinal Vincenzo Lauro4.
Fu celebre Agostino Nifo, che, sebbene da taluni tiensi essere stato tropeano e da altri di Ioppolo o di Sessa, tropeano fu il padre suo5; ed è sostenuto per indubitato dall'abate Ladvocat, che in Tropea abbia egli fatti gli studi di letteratura e filosofia6.
Furono anche valenti tropeani Cesare Tomeo medico e buon poeta drammatico, di cui si ha il <<Trionfo della lega>> in cinque atti, ed una tragedia che ha per titolo <<Santa Domenica Vergine e martire concittadina di Tropea>>7. Quinzio Buongiovanni insigne filosofo, medico ordinario di papa Pio V, e poi protomedico del regno di Napoli, che scrisse <<Quaestio de divina providentia iuxta Aristotilis mentem>>, più <<Peripateticarum disputationum de principiis naturae sactiones tres>>8, ed altre cose di filosofia e di medicina. I fratelli Benedetto e Giov. Battista Caivano, chiari poeti (1572), e Paolo figlio di Benedetto. I fratelli Paolo e Pietro Bojano cerugici sorprendenti per la mirabil arte di innestare le labbra e i nasi mutilati, dei quali fanno grandi encomii il Germanni9 Gaspare Scot, Atanasio Kirchero10 e Camillo Porzio in una sua lettera11 al cardinale Seripando scritta nel 1561 da Tropea, ove si era recato per farvi restituire il naso mutilato. Ai quali fa eco Benedetto Caivano in un sonetto in lode, vergato nel 1550.

Certo andar tu ne dei, città possente,
Più d'altra al mondo altera e gloriosa,
Per esser tanto invitta e generosa
Quant'altra, ch'oggi nominar si sente.
E perchè anco ti fa chiara e lucente
L'antica fede, onde non sei dubbiosa,
Che pura serbi, intatta e luminosa
Come ti fosse Carlo qui presente.
Ma più di gloria colma andar tu dei
Per aver figli in te di tal valore,
Che avanzan l'opre d'altrui semidei.
Ama i fratelli tuoi con tutto il core,
Dico i Boiani, che, se accorta sei,
Nasce da loro in te quanto hai d'onore.

Fu anche sommo il Canonico Ottavio Glorizio, nato nel 1536, da cui è stato scritto il <<Trionfo d'Amore>>, commedia in prosa, e l'altra <<Le spezzate durezze>>; non che il <<Tractatus de Sacramentis in genere, de baptismo et poenitentia in genere>>, dedicato al cardinale Lauro, ed <<Apologia seu tractatus de immunitate Messanae>>, più <<Iuris responsa pro tempore>> e <<Commentarius in capite super liberis de rescriptione>>12, per lo quale dal Vicario generale della metropoli di Reggio, D. Mariano Perrone, fu dettato quel distico:

Quae fuerunt obscura nimis nitidissima reddit
Gloritius Tropeae gloria honosque suae.

Furono pur letterati di quei dì Alfonso Manco, generale dei chierici regolari, che pubblicò <<Instructio magistri novitiorum>>, e l'abate Lorenzo Dardano, di cui si ha un manoscritto archeologico intorno Tropea, che trovasi oggi nella biblioteca del già archeologo Conte Vito Capialbi.
Conchiudo, egregi colleghi, che da quanto è stato esposto si può ben ammettere che le incertezze del cominciamento di questa adunanza riduconsi ad un divario racchiuso dalla seconda metà del XV alla prima metà del XVI secolo, od in quel torno; ed in conseguenza che essa non sia stata dalle tarde a sorgere.
Senza che poi il dica, ognuno di voi il suppone che il fondamento ci sia ignoto. Pure mi piace farvi sentire quello che mio zio, segretario, ha scritto. Egli, che di materie archeologiche e storiche era molto erudito, sospettava che Monsignor Pappacoda, sì perchè venuto dalla città di Napoli, ove già era sorta la Pontaniana, sì perchè in quel tempo erano sorte altre Accademie, e sì perchè sommo nella letteratura, come dall'Ughellio, avesse potuto essere il fondatore.
Sin qui dell'origine. L'Accademia nostra altra volta un nome illustre si ebbe, e ne possiamo manar vanto. Il che oltre all'essere dettato dal su detto sonetto di Benedetto Caivano, più validamente ci è pure da altro sonetto del barone Fabio del Bove, socio degli Erranti di Brescia e dei nostri Affaticati, che leggesi tra le sue poesie pubblicate per le stampe:

Fama spiega oggi mai l'altero volo.
Raddoppia i vanni al tuo veloce corso,
E se tanto non puoi cerca soccorso
Al sol, che avviva, e l'uno e l'altro polo;
Chè dagli Affaticati il chiaro stuolo
Non teme più del fiero tempo il morso,
Ed è cotanto il suo valor trascorso
Ch'è della tromba tua ben degno e solo.
E se l'invitta sua fida Tropea
Già diede altra materia al suo bel grido,
Oggi pomposa par più che solea.
Ella, chiudendo in suo famoso nido
Gli Affaticati eroi, serra l'idea
D'ogni eccelsa virtù Marte e Cupido.

Il globo celeste è stato ed è lo stemma adottato dall'Accademia; ma il globo vuolsi che nel 1698 sia stato sostituito da una nave in tempesta, e che nel 1737, dal presidente, canonico Tesoriero Toraldo, e dai socii sia stato nuovamente ripreso il motto del celebre poeta di Solmona in bocca ad Ercole: indefessus agendo. Di essa mutazione si sono resi oppositori il Sergio, che, vivendo e scrivendo in quei dì, assicurava che il globo fosse stato sempre lo stemma; non che il segretario, mio zio. E pur l'assicurava il socio D. Francesco Giffone in un sonetto in lode del Canonico Pontoriero detto l'Infuriato, scritto verso la metà del XVII secolo.

Gravido il sen di quel divin furore,
Che ai suoi più cari il sacro Apollo ispira,
Accordi al suon della soave lira
Note, che sono al mondo alto stupore.
Anzi le tue dolcissime e sonore
Corde il tuo canto il proprio nume ammira,
Che tal dolcezza intorno a lui s'aggira,
Che l'armonia del ciel non è maggiore.
Felice dunque, Affaticato stuolo,
Che del celeste globo ergi l'impresa
Ch'or faticando non risuona ei solo,
Che dell'Infuriato oggi si è intesa
Melodia, che, dall'uno all'altro polo,
Lui rende chiaro e il nome suo palesa.

Nello stesso 1737 il predetto benemerito presidente ed i suoi ventidue socii ebber cura di formare novelle regole, quelle appunto che leggonsi nel libro primo dei nostri atti accademici. E dopo esser stato vergato dal presidente il diploma nella dicitura tale quale è oggi, ne è stato fornito ciascun socio. Inoltre per aver legali le tornate, dopo caduto il viceregal governo, chiesero a Carlo III ed ottennero due reali rescritti, l'uno del 1737, e l'altro del 1738, dei quali però nel Segretariato non esiste copia.
Dopo la presidenza del Toraldo, l'Accademia, se eccettui per ben poco, è camminata sempre con alacrità ed assiduità sino al 1783, anno memorando pei terremoti di Calabria. Anche a causa delle tremende scosse di guerra dall'Europa sofferte nello scontro dei due tanto rinomati secoli XVIII e XIX il Consesso riunivasi raramente; anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nel 1816, nella Chiesa dei Liguorini, cantò del Santo fondatore dell'Ordine. E posciachè il Marchese generale D. Vito Nunziante, che era stato inviato con alterego nelle Calabrie, e teneva sua stanza in Tropea, volendo rendersi benevoli i dotti del paese, s'indusse a prendere premure, ed ottenne a 2 Giugno del 1818 dalla Polizia le analoghe licenze di riaprirsi le ordinarie sedute. L'Accademia di fatto le cominciava, ma per poco durata; giacchè nel 1821, dopo abbattuto il regime costituzionale nel regno, essendo state vietate le scientifiche e letterarie adunanze, la nostra si soffrì la comune sciagura.
A molto malincuore quel presidente, signor Luigi di Francia, e quel segretario perpetuo, mio zio, caldi in vero di amor patrio e premurosi della vita dottiva del Consesso, tolleravano il vederlo tacere; così che per lo stesso generale, allora in Napoli, ad aprire le riunioni hanno fatto inchiesta alla Polizia. Questa, sebbene a prima giunta è paruta aderire, ed avesse chiesto sapere il numero ed i nomi dei socii, avutili ed adombratosi pei molti socii corrispondenti illustri, ma non poco sospetti, per essere stati membri del nazional parlamento o di avere avuto altre cariche di quel governo, piuttosto che negare od approvare, si tacque. Il presidente ed il segretario non più credettero nel terrore che quella Giunta loro ispirava, ed inviarono ulteriori domande, anche per consiglio dello stesso generale, e non ebbero la soddisfazione di vedere adempiti i voti loro.
Non pertanto, mentre essi non erano più, pochissime sedute la Accademia tenne di quando in quando ad intervalli, per cantare di alcun santo o del re, dietro permesso ottenuto dall'Intendente della Provincia, o dietro ordine di lui. E questa lentezza finchè non giunse il principiare del 1847. Alcuni allora tra noi, noiati di quello stato di languore, andarono a trovare colui che, dopo il presidente signor Luigi di Francia, aveva la presidenza occupata, e l'abbiamo chiesto se indicar ci sapesse e mezzi e modi, affinchè questa Accademia potesse acquistare vita meno stentata. Questi prudentemente ci suggerì che si dovesse domandare al governo non già una riapertura, che, come sospetta, non sarebbe sperabile ad ottenere, ma domandare che ci fossero accordate modificazioni alle vecchie regole, ed il tal guisa tentare di poter giungere indirettamente allo scopo. A dire però quello che maggiormente la vinse, sono state piuttosto le raccomandazioni porte dal mio dotto fratello, Canonico Teologo D. Giuseppe, all'Eccellentissimo Monsignor Cocle, vescovo di Patrazzo, confessore di Ferdinando II, ad arte nominato socio col pomposo titolo di Protettore. Dal quale titolo, lusingatosi forse, quel Monsignore le raccomandazioni rivolse allo Eccellentissimo Ministro dell'Interno, D. Nicola Santangelo, pur allora nominato socio, e questi s'indusse di aderire alle richieste.
Ottenutosi il poter domandare le modificazioni, si volle invece da quel presidente un novello statuto. E qui una mia chiosa. La scienza ebbe allora ad esser contrariata da due, di cui l'uno la conosceva alquanto per nome, l'altra le era aperto nemico. Lo statuto, come venne foggiato, era un guazzabuglio di regole poco o niente studiate. Non erano le mire della Giunta di Pubblica Istruzione quelle di accordare un vero statuto.
E poichè erroneamente ed in opposizione alle vecchie facoltà era stato chiesto che l'Accademia dalla letteratura alle scienze ed alle arti progredisse, la Giunta, facendo capitale dell'erronea richiesta, statuiva nel primo articolo. <<Che l'Accademia degli Affaticati, limitandosi alla letteratura, che fu l'oggetto primiero della sua istituzione, riserba di chiedere alla Maestà Sua di progredire alle scienze ed alle arti, quando avrà l'opportunità.>>
Signori, colui che, rientrato in patria dopo lunga lontananza per esilio politico, si aveva assunta la presidenza, sol perchè alcune tornate fossero state in rime, prendendo forse quel fatto per lo dritto, credette che l'Accademia si fosse potuta in cose letterarie soltanto versare, e temendo far cosa d'importanza, chiese il progresso alle scienze. In vero chi una macchina qualunque dirige, bisogna che abbia la piena conoscenza insino delle più piccole ruote; ed il presidente con tutta la buona volontà ha mancato di un accurato esame. Che l'Accademia si potesse nelle scienze versare, era facile scorgerlo dalle parole stesse del diploma <<te nec ingenii solum praestantia, sed et humanarum eruditione, atque assiduis accuratisque scientiarum studiis excultissimum esse intelleximus>>. Nè da ciò soltanto, chè nelle vecchie regole, contenute nel libro degli atti accademici, era scritto all'art. VIII: <<La materia, ossia il soggetto, di cui dovrassi discorrere nell'Accademia, potranno essere le scienze e ciò che piacerà al presidente di proporre>>. E di fatto in quel libro leggonsi molti discorsi dei socii, che versarono sulle scienze; così che in un solo anno, da Giugno 1779 a tutto Maggio 1780, che in tal guisa computavasi in quel tempo l'anno della durata alla presidenza, dei quattordici discorsi, otto sopra sei furono scientifici. Si parlò sulla felicità dell'uomo, sui principii della fecondazione, sul regolamento delle umane azioni, sulla immortalità dell'anima provata con argomenti naturali, sulla libertà, sulla diversità dei caratteri degli uomini, sul sistema di Newton intorno alla luce, sull'origine delle leggi.
Essendo quindi stata fatta una richiesta in opposizione alle vecchie facoltà, la Giunta di Pubblica Istruzione, prendendo a pretesto la necessità di libri, di giornali, di macchine, non che di forti spese, delle quali la mancanza poteva far tacere o chiudere l'Accademia, l'ha fatto rinculare alla letteratura, togliendole quel pregio, di cui era adorna, e che era la prima gemma della sua aureola. Ma posciachè, a far correggere la erronea richiesta e domandar di nuovo ad un governo timoroso della scienza, anzi di essa nemico, sarebbe stato bene inutile; ed avendosi il sospetto che l'Accademia avesse potuto essere nuovamente in pericolo di alcun che di peggio di una negativa, pur volendosi ad ogni costo ottenere l'apertura e ripigliare le ordinarie sedute, si tacque. Poscia si è chiesto lo Statuto quale era stato concesso, ed il sovrano rescritto si è avuto il 9 Maggio 1848 per lo Ministro Imbriani.
Socii benemeriti, la natura della società civile è determinata dal suo fine, e tanto meno la società conservasi, quanto dal suo fine vien traviata, quanto più con l'opera del governante si snatura. L'umana attività è nello sviluppo e nel progredire, ed il progresso che è il successivo incremento ad un fine, non è esclusivo di un popolo, è nell'uomo complesso.
E posciachè il movimento filosofico dee tener sempre le idee non a livello, ma oltre le libertà civili di un paese, i tristi governi, piuttosto che favorirlo, il temono come il fistolo, lo contrariano, lo abbattono.
Non so neppure tacere che altro sfregio, sebben di poco rilievo, si ebbe la nostra adunanza, quello di aver la presidenza ornato da pavone di chi era se non cornacchia. I diplomi non sono onorifici quando si concedono come biglietti di entrata ad una festa da ballo, e a chi sa e a chi non sa ballare.
Nè manco sono onorifici alle persone che meriterebbero quello che le industri api fan soffrire ai cacchioni, i quali, piuttosto che lavorare, ozioso mangiano i favi. Nel timor panico, che incuteva la napolitana polizia, gli antichi socii, sebbene vedessero di simili stranezze, pur si tacevano, perchè temevano che lo stare l'Accademia sciancata su le grucce fosse minor male, di quello che con un colpo fatale fosse tolto lo stentato vivere.
Dopo che lo Statuto ci venne dal Ministero, l'Accademia, il sapete, si è riunita ed ha eletto alla presidenza ed agli altri ufficii. Ha pur ripreso le sue occupazioni e le tornate, per quel che permetteva quell'egida legale. Ma non potevamo non dolerci che esse erano monche, chè lo Statuto ci aveva sbalzato dalle scienze, attrappando il pensiero e tenendolo tra ceppi. Non fui trista Cassandra a profetizzare che il Consesso andrebbe a perdere di quel nome che dagli avi gli era dato. In me erano continue le aspirazioni, sorgevano le speranze che il tempo potesse fare raddrizzare e commettere nei suoi ordigni la macchina stataci alquanto sconnessa. Nel tempo erano dunque le mie speranze, col tempo si sono realizzate. Intanto oggi che alle scienze siam liberi e che solerti potremmo sedere in adunanze, oggi si teme che alcun di noi potesse proferire un sol verbo da esser giudicato esacrando da esacrando gesuita o da brutto retrivo.
Per quel che dettai, ripeto a costoro che,

Mentre il torrente scende per la china,
Stolto è voler che possa andare all'erta.

Se per l'addietro, per essere liberi nelle scientifiche sedute, fosse stato d'uopo ottenere modifiche dello Statuto, oggi le modifiche non sono necessarie, quando permesse sono le riunioni e libera è la parola. Che se pure a noi andasse a grado il chiederle, il potremmo. Ma bisogna che io mal volentieri confessi, che tutta quella vitalità, che le Accademie altra volta si avevano, oggi non hanno e che l'epoca delle Accademie è pur terminata. State sani.
 

NOTE

1  Furono archeologi patrii Lorenzo Dardano, che scrisse <<Del sito della città di Tropea>>; Francesco Franza <<De monumentis urbis Tropaeae>>; l'Abate Agostino Crescenzio <<Descrizione di Tropea fatta nel 1624>>; l'Abate Francesco Sergio <<Collectanea chronologica sive chronicarum de civitatis Tropaeae eiusque territorio, libri tres ab a. c. usque ad annum 1720>>; il Padre Maestro Giuseppe Criscenti <<Libri IV fastorum civitatis Tropaeae>>; Notar Alessandro Campesi <<Collectanea Chronologica civitates Tropaeae 1736>>.
2  Il sonetto è tra le poesie del Pontoriero stampato nella ducale tipografia di Monteleone il 1641.
3  Vedasi l'Ughellio, il Barrio, Tomaso Aceti nelle annotazioni al Barrio, il Padre Fiore, Zavarrone, Onofrio Pannino, il Vittorello nelle note alle vite dei Romani scritte dal Ciaconio, e manoscritti patrii.
4  Il cardinal Lauro fu dottissimo di greco e latino, eccellente in filosofia, medicina, teologia, molto commendato per onestà di costumi e per giustizia. Da Papa Pio V venne creato Vescovo di Mondovì; per la destrezza nel maneggio della cosa pubblica, inviato da lui nunzio presso Emmanuele Filiberto, Duca di Savoia; da Gregorio XIII, presso Sigismondo re di Polonia, presso Errico di Valerio enelle Gallie; da questo Pontefice aggregato nel 1583 nel Collegio dei Cardinali col titolo di S. Maria in Via; poscia, sotto Sisto V, dichiarato protettore di Maria, regina di Scozia; preposto della Congregazione dei sacri Riti e dei regolari, e, nei successivi conclavi di Sisto V, di Urbano VII, di Gregorio XIV, d'Innocenzo IX e di Clemente VIII più volte nella possibilità di avere la tiara, se dai cardinali Spagnuoli non fosse stato escluso come aderente del re di Navarra: <<Parumque abfuit quia summus pontifex renunciatus sit>> scrive Tommaso Aceto nelle annotazioni al Barrio.
5  Che il padre di Nifo sia stato tropeano, cel dimostrano i capitoli matrimoniali con Francesca Galeoni stipulati nel 1440, e più una cessione di casetta fatta a 13 aprile 1469, in cui è detto di Tropea.
6  Dizionario storico portatile, tomo V, lettera N.
7  Stampate in Napoli nel 1575.
8  Stampate in Napoli nel 1567, ed in Venezia nel 1571.
9  De miraculis mortuorum lib. 1° tom. 2° pag. 48. De Nasi insititii sympatia. Primi qui hanc operatione tentarunt, celebrantur a fabritio De Acquapendente parte 2^ operum chirurg. lib. 2° cap. 30, pag. 857. Calabri in primis post tropaeeases (Vide Carolum Musitanum tom. 3. trutin. chirurg. cap. 16 pag. 238). Inde Maria Troaensium audit haec operatio, lib. 4 de Sensu rerum cap. II pag. 308. Thomae Campanella a quibus ad medicos et chirurgos Bononienses devenit.
10 Kirchero capo VII pag. 280, 281.
11 Riportato dal Gervasio Accademico Pontaniano, in una memoria intorno alla vita ed alle opere di Camillo Porzio, e leggesi nel Codice Serapandiano: Ill.mo e R.mo Signore mio e padrone oss.mo. Questi dì addietro ricevei una di V.a S.a Ill.ma e R.ma, alla quale se di subito non risposi ne fu cagione che mi ritrovò in lecto, e certo che ne presi tanta consolazione che non solo mi diede aiuto a guarire, ma anche mi portò seco l'ultimo compimento del mio naso, il quale la Iddio mercè l'ho quasi che ricuperato e tanto simile al primo che da coloro che nol sapranno, difficilmente potrà essere conosciuto: è ben vero che ci ho patiti grandissimi travagli, essendo stato di bisogno che mi si tagliasse nel braccio sinistro duplicata carne della persa, dove si è curata per più di un mese, e poi me l'ha cucita al naso, col quale mi è convenuto tenere attaccato quindici dì il predetto braccio. Signor mio, questa è un'opra incognita agli antichi, ma di tanta eccellenza e tanto maravigliosa che è gran vitupero del presente secolo che per beneficio universale non si pubblichi e non s'impari da tutti i cerusici, essendo che oggi sia ristretta in un solo uomo, il quale non è quel medico, nè altro suo creato, che come la dice le puosi i denti in Portogallo, perchè colui per quanto ho veduto fuit imitator naturae, ma costui fu quel medesimo che l'istessa natura. Io molte volte per il bene pubblico ho desiderato di vedere V.a S.a Ill.ma e R.mo principe, ma ora per questo particolare via più lo desidero, massime che quest'uomo dabbene per picciol pregio, rispetto alla grande utilità del rimedio, il daria alle stampe; ma chi sa: per un'altra mia l'ho dato avviso del motivo dei Luterani di qua: non li scrissi poi il successo per la sopravegniente infermità, basta che pel mancamento del viver si disfecero, essendo assediati da molti di questi popoli, son venuti (da ducento in fuori) tutti in poter della giustizia ecc. da Tropea il dì 9 di Luglio 1561. Di V.a S.a Ill.ma e R.ma - Deditissimo servitore - Camillo Porzio.
12 Stampate in Messina, in Venezia, in Napoli, in Madrid negli anni 1605, 1607, 1584, 1614, 1624, 1603.
 
 
 
 
 

 
 
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