America Josefa Scarfò (Buenos Aires 1913 - ivi 26 agosto 2006) figlia di Pietro originario di Portigliola e di Caterina Romano di Tropea

e Severino Di Giovanni (Chieti 17 marzo 1901 - Buenos Aires 1° febbraio 1931)

 

ULTIMO TANGO A BUENOS AIRES

 

di Antonio Orlando

 


 

Gli Scarfò sono una grande famiglia calabrese: padre, madre e ben otto figli, tra cui America Josefa, che tutti chiamano “Fina”; una ragazza di quindici anni, studentessa delle Scuole Magistrali, che diventa subito, è un colpo di fulmine, il grande amore di Severino. Fina è bella, giovane ed è irresistibilmente attratta da quest’uomo dai modi raffinati e dall’eloquenza fluente, che sa accendere in lei una passione sconosciuta e fortissima. Saranno tre anni di amore ardente fatto di lettere appassionate, di appuntamenti davanti alla scuola di lei, come un qualsiasi adolescente alla sua prima cotta, di lunghi silenzi e di baci furtivi. Severino non vuole assolutamente che la loro relazione sia conosciuta. I fratelli di Fina non lo sapranno mai o faranno finta di non sapere; Teresina, donna semplice, non si accorgerà mai di niente ed i due amanti non daranno mai luogo al benché minimo sospetto. Le lettere di Severino rivelano un animo poetico insospettato in una persona così fredda, così determinata, così violenta. L’ideale anarchico, che per lui trascende qualsiasi vicenda umana, trova in questo amore disperato un lenimento, ma, al tempo stesso, proprio perché si tratta di una passione senza sbocchi, la sua azione politica si attorciglia in una spirale di violenza e di morte che lo conduce prima all’isolamento totale e poi verso una sorta di paranoia ossessiva.

Per tre anni Severino vive col tempo contato, senza un attimo di respiro, e combatte una guerra totale contro tutti, compresi i suoi amici anarchici, che da lui, a poco a poco, prendono le distanze. Due attentati, con parecchi morti e feriti, segnano una svolta nei rapporti con il movimento anarchico. Il primo è quello al Consolato italiano. L’intenzione di Severino è di portare la bomba fin dentro la stanza del console, chiuderlo dentro e lasciare che esploda. Per una serie di tragicomiche circostanze, dopo due tentativi falliti, la bomba viene lasciata nell’atrio del Consolato, perchè, pare, che di lì a poco il console dovesse uscire. Invece l’ordigno esplode tra le centinaia di persone che stanno facendo la fila per ottenere il visto di entrata in Italia: nove morti e 34 feriti. Il secondo attentato avviene la vigilia di Natale del 1927. Una valigetta viene depositata nella sede della National City Bank. Nel clima euforico delle feste, le impiegate stanno acquistando da un commesso delle calze di seta, non si accorgono di quella valigetta nera, lasciata sotto una sedia da un cliente vestito di nero: due morti e 23 feriti. I giornali anarchici si scagliano contro le belve sanguinarie che, in nome dell’anarchia, seminano solo lutti; perfino La Anthorcha, pur tra mille contorcimenti, condanna gli attentati indiscriminati e che colpiscono persone innocenti ed estranee. Solo Aldo Aguzzi difende Severino e i gruppi terroristici e parla di risposta sbagliata al terrorismo di Stato. Di Giovanni ribatte alle accuse colpo su colpo, scrive articoli deliranti su Culmine, interviene su L’Antorcha, scrive a L’Adunata dei refrattari pretendendo la nomina di una specie di Gran Giurì dell’Anarchismo mondiale che giudichi le sue azioni. Da New York i patriarchi del movimento anarchico Luigi Fabbri e Vincenzo Capuana gli danno ragione. Sentendosi quasi autorizzato da questa singolare “sentenza”, Severino compie di seguito un attentato alla cattedrale, un morto; colloca, insieme con Buenaventura Durruti, una bomba su una nave attraccata nel porto ed il cui equipaggio era in sciopero; rapina il Banco de Avellaneda, la Centrale degli autobus, il furgone della ditta Kloekner, che portava le paghe dei dipendenti e la sede degli Acquedotti comunali.

Maria Teresa Santini, moglie di Severino Di Giovanni, con i figli

 L’azione che, però, lo perde definitivamente è l’uccisione di Emilio Lopez Arango, anarchico, nuovo direttore de La protesta. Nessuno degli anarchici può perdonargli questo fratricidio; da quel momento, fine gennaio del 1930, Di Giovanni è veramente solo, anche perchè Alejandro Scarfò è stato arrestato ed altri tre della sua banda hanno perso la vita negli scontri a fuoco avvenuti durante le rapine. Gli resta soltanto il fedelissimo Paulino e l’immenso amore di Fina. Progetta, perciò, di far evadere, colt alla mano, Alejandro e poi di fuggire con Fina ed i suoi fratelli in Francia. L’assalto al furgone di polizia in cui dovrebbe esserci il suo carissimo amico riesce, ma il furgone è pieno solo di prostitute. Alejandro è rinchiuso in una delle prigioni più fortificate ed inaccessibili dell’Argentina, il manicomio criminale di Vieytes. Severino non è uomo che si arrende facilmente. La liberazione di Alejandro diventa il suo unico obiettivo e per fare questo si procura altro denaro rapinando, nel settembre del 1930, l’Opera Sanitaria Italiana. Con quei soldi affitta una villetta, con annesso un orto, nella zona di Belgrano e ci va a vivere insieme con Paulino, Fina, Jorge Tamayo Gavilan, l’uomo che è felice solo quando può giocarsi la vita e Silvio Astolfi. Ha un progetto complicato: liberare Alejandro, fuggire in Uruguaj e da lì imbarcarsi per la Francia e far espatriare Fina, facendola sposare ad Astolfi, che ha conservato la cittadinanza italiana. Nello stesso tempo non rinuncia alla sua attività di tipografo-editore e prepara un’edizione, elegante e raffinata, con tiratura limitata in due volumi, degli scritti di Eliseo Reclus, il suo autore preferito. Per preparare l’evasione il gruppetto di anarchici dispiega una vasta azione terroristica, basti pensare che in un solo giorno, fanno esplodere tre bombe in tre posti diversi della capitale, facendo quattro morti. Severino vuole creare un clima di inquietudine ed esasperazione per far si che l’attenzione della polizia si concentri sull’ordine pubblico e si pensi ad una cospirazione anarchica di vaste proporzioni. In tal modo crede di sviare l’interesse verso gli anarchici in carcere.

 

America 'Fina' Scarfò in una foto scattata da Severino Di Giovanni

Nel pomeriggio del 30 gennaio 1931 si reca in tipografia per correggere le bozze definitive del secondo volume degli scritti di Reclus. E’ un’imprudenza perché la polizia ha compiuto diverse retate ed ha arrestato, tra gli altri, parecchi tipografi di origine italiana, praticamente tutte le tipografie di Buenos Aires sono sotto controllo. All’uscita dalla tipografia due poliziotti in borghese gli intimano: “Fermati Di Giovanni, sei in arresto”. Severino scappa tra i vicoli del centro e spara contro gli inseguitori. Più di venti poliziotti tentano di bloccarlo; sparano tutti; tra i due fuochi viene colpita a morte una bambina. Severino si ritrova all’improvviso, in un vicolo, un agente, senza esitare spara e lo abbatte poi corre a rifugiarsi in un hotel. Ai clienti dell’albergo che vedendolo cominciano a urlare, dice: “non vi spaventate, non vi faccio niente”. In quel momento irrompe la polizia che spara all’impazzata, Severino, senza scomporsi, risponde ed uccide un secondo poliziotto poi imbocca l’ascensore e cerca di svicolare dal tetto. Riesce, passando attraverso alcune terrazze, a scendere in un garage, ma lì ci sono i poliziotti ad attenderlo e gli scaricano addosso più di cento colpi. Sentendosi perduto, appoggia la pistola al petto e si spara un colpo, la ferita non è mortale e gli fa solo perdere i sensi. Gli agenti lo bloccano e lo caricano su un’ambulanza che viene scortata da dieci pattuglie in motocicletta. In ospedale i chirurghi lo operano immediatamente, ma non è in pericolo di vita. Il Presidente della repubblica in persona ordina al Ministro degli interni, Matias Sanchez Sorondo, di trasferire subito Di Giovanni in un penitenziario e di costituire un tribunale militare per giudicarlo. Il gen. Medina viene, con decreto d’urgenza, nominato presidente della corte marziale. Nella notte Di Giovanni e Paulino Scarfò vengono giudicati e condannati a morte mediante fucilazione. Si verifica solo un imprevisto. Il ten. Juan Carlos Franco, nominato difensore d’ufficio, svolge il suo compito sul serio e tiene un’arringa difensiva che mette sotto accusa i metodi terroristici della polizia e l’uso strumentale che il governo vuole fare della vicenda Di Giovanni. Non appena il ten. Franco finisce di parlare, la pubblica accusa chiede il suo arresto immediato e propone la degradazione e l’espulsione dall’esercito. La Corte prima pronuncia la sentenza di condanna a morte per Severino e poi accontenta il pubblico ministero, aggiungendo anche l’espulsione dallo Stato per il ten. Franco, che viene esiliato a Montevideo.

Severino Di Giovanni in Tribunale

 Centinaia di persone si accalcano davanti alla prigione per cercare di vedere il famoso bandito; alcuni ministri, qualche attore famoso ed altre personalità chiedono di vedere da vicino “la belva sanguinaria”. Di Giovanni si rifiuta di vedere chiunque ed accetta solo la visita di Teresina e di Fina, che è venuta con la scusa di salutare il fratello. All’alba del 1 febbraio 1931 Severino di Giovanni viene condotto nel cortile del carcere Central per essere fucilato. Si racconta che chiese al sergente che comandava il plotone di poter esprimere un ultimo desiderio e questi pose subito mano al pacchetto delle sigarette. “Non voglio fumare, disse Severino, voglio un caffè. Dolce, mi raccomando”. Gli portarono una tazzina che riuscì a reggere a stento poichè i ferri gli serravano i polsi; bevve in maniera goffa quel caffe e restituendo la tazzina, rimproverò il sergente: “Avevo detto dolce, un caffè molto dolce; pazienza, sarà per la prossima volta” e s’avviò verso il cortile. Nessuno degli otto soldati, che componevano il plotone d’esecuzione, sbagliò. Paulino Scarfò fu fucilato un’ora dopo; non aveva ancora compiuto 21 anni.

 Severino Di Giovanni viene condotto alla fucilazione eseguita l'1 febbraio 1931

Dopo la fucilazione di Severino Di Giovanni e Paulino Scarfò, le attività del movimento degli anarchici espropriatori in Argentina, subirono un inevitabile blocco. Seguirono una serie di arresti e conseguenti processi con condanne pesantissime, mentre i pochi che riuscirono a scampare alla repressione si rifugiarono in Uruguaj o cercarono di ritornare in Europa. Queste due esecuzioni, per le quali non ci fu alcuna mobilitazione, come, invece, era successo appena tre anni prima per Sacco Vanzetti, indubbiamente chiusero una fase del movimento anarchico. Il destino di tutti che, a qualsiasi titolo, erano rimasti coinvolti in quella tragica vicenda restò segnato e, probabilmente, subì, nel bene e nel male, un’influenza determinante.

 Neppure dopo morto Severino ebbe pace. Fatto seppellire in fretta e furia e clandestinamente in un’anonima tomba dell’immenso cimitero della Chacarita, così grande che lo chiamano “la città dei morti”, già il giorno dopo, la polizia scopre che la tomba è ricoperta di rose rosse. Il ministro dell’ Interno ordina che venga riesumato il cadavere e buttato in una fossa comune e pure questa, per giorni e giorni, viene misteriosamente ornata di tantissime rose rosse. Poi, col passare del tempo, il ricordo si perde anche se, si dice, che, in realtà, Severino sia stato cremato e le sue ceneri sparse sul Rio della Plata. Probabilmente è una delle tante leggende fiorite sul suo nome.

Paulino Scarfò fucilato a Buenos Aires il 2 febbraio 1931

Anche a Paulino la polizia vorrebbe riservare lo stesso trattamento, ma la famiglia si oppone con decisione e la madre ottiene che questo suo figlio, morto appena ventenne, riposi finalmente in pace. La famiglia Scarfò fu, ovviamente, la più colpita. I legami con Fina furono troncati al punto che la nonna paterna non le rivolse più la parola e non perdonò mai quella nipote sciagurata. Tutta la famiglia si trasferì immediatamente in un quartiere nella parte opposta di Buenos Aires e il fratello maggiore, licenziato in tronco dalla ditta inglese in cui lavorava, fu costretto a cambiare mestiere. La madre di Fina, col passare degli anni perdonò la figlia, ma continuò a maledire quel diavolo biondo che gli aveva rubato tre figli. Si racconta, lo narra con poetica partecipazione Maria Luisa Magagnoli nel suo splendido romanzo Un caffè molto dolce, che la notte del processo a Paulino, la signora Scarfò uscì di casa e vagando per le strade semideserte, giunse nella centralissima e celebre Plaza de Mayo. Le venne di fronte la Casa Rosada, la residenza del Presidente, e decise, d’impulso, di tentare la carta estrema. Percorse in ginocchio, così come aveva visto fare alle sue ave calabresi (la Scarfò era nata a Tropea) quando impetravano una grazia dalla Madonna, l’intera piazza e poi, tra lo stupore delle guardie, salì, sempre in ginocchio, i gradini della dimora presidenziale. Per sua sfortuna il Presidente non c’era, era partito per una visita a Rosario e a Santa Fè, e non ricevette mai quella supplica di una madre cui stavano per uccidere un figlio ventenne, traviato da “un anarchico vestito di nero”. Paulino, sicuramente, avrebbe rifiutato la grazia, così come rifiutò di ricevere visite. Non volle vedere neppure sua madre, prima di essere fucilato. America Josephine, “Fina”, troncati i rapporti con la famiglia, abbandonato Silvio Astolfi, il marito di comodo, sposato per poter stare con Severino, completò gli studi e si laureò in Lettere, specializzandosi in Letteratura italiana, così come voleva il suo “amore biondo”. Si risposò con un intellettuale libertario e, dapprima, lavorò in una casa editrice e poi cominciò ad insegnare. Nel 1951, a vent’anni dalla tragedia, venne in Italia a visitare la terra dei suoi genitori; fu anche a Chieti, la città natale di Severino, ma non riuscì a trovare i suoi familiari. Oggi è un’elegante, raffinata signora di ottantatre anni, vive a Buenos Aires, appartata e riservata; ha sempre respinto, con fastidio, le miliardarie offerte dei produttori hollywoodiani che vogliono ricavare un film dalla sua vicenda. Alejandro Scarfò uscì dal carcere intorno al 1934-35. Una profonda amarezza caratterizzò sempre la sua esistenza; abbandonato dai familiari e, perfino, dalla fidanzata si perse nella vita grigia di tutti i giorni.

Silvio Astolfi

Silvio Astolfi, dopo aver scontato la dura condanna, tornò in Europa e continuò la sua attività antifascista; morì nella guerra di Spagna. Teserina Masculli, la moglie di Severino, si risposò con un connazionale che poi diventò giornalista. Dei figli non si hanno notizie; forse, incapaci di sopportare un’eredità così pesante, per volere anche della madre, cambiarono cognome.

 Il tenente Juan Carlos Franco, l’avvocato difensore d’ufficio di Severino nel processo, quello che volle fare il suo dovere, venne degradato, espulso dall’Esercito ed internato in un penitenziario militare. Nel marzo 1931 il ministro della guerra, gen. Francisco Medina, ordina che venga liberato ed espulso dalla Stato. Va in esilio ad Asuncion, in Paraguay, dove fa il giornalista. Nell’ottobre del 1932, grazie ad un indulto del nuovo presidente, rientra in patria, viene reintegrato nell’esercito e nel grado, ma viene inviato in un’oscura guarnigione di provincia. Muore, a soli 35 anni, nel febbraio del 1934, forse di febbri malariche.

Diego Abad de Santillan

Diego Abad de Santillan riuscì a rientrare in Spagna dove assunse importanti incarichi nella C.N.T. - Confederacion Nacional del Trabajo -, il potentissimo sindacato anarchico, fino a diventare segretario generale; assunse poi incarichi ministeriali nei governi repubblicani, durante la guerra civile. Dopo la sconfitta andò in esilio prima in Messico e poi di nuovo in Argentina. Scrisse parecchi libri sulla sua esperienza politica e anche sugli anarchici espropriatori. E’ morto nel 1970.

Aldo Aguzzi, l’anarchico italiano, direttore de L’Antorcha e di Critica, che sempre aveva difeso Di Giovanni, partecipò alla guerra di Spagna e rifugiatosi, dopo la sconfitta, di nuovo in Argentina, si suicidò nel 1941.

Nicola Recchi, secondo alcuni “il teorico”, ispiratore delle azioni degli anarchici espropriatori, fu arrestato nel gennaio del 1930 e sottoposto, durante gli interrogatori di polizia, a durissime torture. I suoi aguzzini si accanirono tanto sulle sue mani che, alla fine, dovettero amputargli la mano destra, ridotta ad un brandello di carne sanguinolenta. Si racconta che non gli sfuggì neppure un nome e che, ostinatamente, non ammise alcuno dei cinquanta capi d’imputazione a suo carico. Dopo una terribile esperienza carceraria, una volta liberato, visse nell’ombra, dimenticato da tutti e morì a Buenos Aires nel 1987.

Jorge Tamajo Gavilan, il cileno che si divertiva solo quando si giocava la vita, l’uomo destinato a diventare l’erede di Di Giovanni, fu ucciso, in circostanze rimaste oscure, nel luglio del 1931, durante un’irruzione della polizia nell’albergo in cui alloggiava. Dopo la morte del suo capo compì due rischiose rapine; nel corso della seconda uccise ben tre poliziotti. Per vendicare Severino, Gavilan organizzò ed eseguì, forse di persona, l’omicidio del maggiore Rosasco, il capo della polizia di Buenos Aires. Il 12 giugno 1931, riunito quel che resta della banda di Severino, Gavilan entra nel ristorante in cui sta cenando il magg. Rosasco, insieme ad altri notabili e alcuni politici. Il commando, che è formato da quattro uomini, ordina da mangiare, consuma il pasto e attende, con freddezza, che l’allegra tavolata termini a sua volta di mangiare. Quando il magg. Rosasco sta per gustare il dolce che ha ordinato, uno del gruppo, forse lo stesso Gavilan, si avvicina al tavolo e, con una lentezza esasperante, racconteranno i testimoni, estrae una “colt 45” e spara due precisi colpi sul maggiore. E’ l’estremo, terribile omaggio a Severino.

 

Miguel Arcangel Roscigna

Miguel Arcangel Roscigna, l’urugujano, l’amico fraterno di Severino, l’uomo che Osvaldo Bayer, storico argentino, giudica il più intelligente, il più preparato, il più coraggioso e, diremmo oggi, “il più politico” di tutti gli anarchici espropriatori, scompare misteriosamente nei primi giorni di gennaio del 1936. Il programma politico di Roscigna è quanto di più ambizioso e, al tempo stesso, sofisticato, l’anarchismo armato sia riuscito ad elaborare. Egli intende collegare tutti i gruppi anarchici sudamericani e stabilire un contatto stabile con gli anarchici europei, con gli spagnoli in particolare. Non è un caso che Buenaventura Durruti e Paco Ascasco, i due famosi capi anarchici catalani, siano, come dire, “di casa” in Argentina. Roscigna ritiene, che le azioni armate siano soltanto uno dei tanti strumenti illegali di lotta e, nella sua idealistica ingenuità, è convinto, tanto per fare un esempio, che spacciando denaro falso si possa abbattere il capitalismo perché lo si colpisce nel suo punto nevralgico. La scomparsa di Severino per lui è un colpo durissimo poiché gli viene a mancare il più convinto, il più determinato e il più audace dei compagni di lotta. Inseguito dalla polizia, che ora lo considera il nemico numero uno, fugge a Montevideo e qui viene arrestato nel 1933. Sconta, insieme con Andres Vazquez Paredes, un certo Paz e l’italiano Fernando Malvicini, quasi quattro anni di lavori forzati. La magistratura argentina chiese l’estradizione, che non venne, tuttavia, concessa. In tutta segretezza, però, le due polizie concordarono di eliminare per sempre questi pericolosi anarchici. Il patto prevede che i quattro anarchici verranno espulsi dall’ Uruguay come indesiderabili, ma verranno avviati, guarda caso, verso la frontiera con l’Argentina e qui saranno presi in consegna dal dr. Fernandez Bazan, nuovo capo della polizia di Buenos Aires. Il 31 dicembre 1935 i quattro, effettivamente, escono dal carcere e su un cellulare della polizia vengono portati verso la frontiera. Da questo momento, di loro, si perde ogni traccia. Secondo un’attendibile ricostruzione, vengono caricati su un aereo militare argentino e gettati, vivi, in volo, nelle acque del Rio della Plata. Con loro viene, in pratica, inaugurata una tecnica di eliminazione degli avversari politici, che, in tempi recentissimi, gli aguzzini del gen. Videla provvederanno ad applicare in maniera sistematica e massiccia.

America Scarfò novantenne

Con Roscigna si chiude definitivamente l’epopea tragica dell’anarchismo espropriatore. “Non possiamo difenderli”, diceva Diego Abad de Santillan, ma non possiamo neppure ignorarli e parlarne oggi non significa, necessariamente, né esaltare le loro gesta criminali, né esorcizzarli quasi si trattasse dell’incarnazione del demonio. Del resto Severino Di Giovanni e tutti gli altri non sono mai diventati eroi e neppure un mito, sia pur negativo. A Severino gli argentini hanno sempre preferito Carlos Gardel, l’immortale re del tango e, in seguito, l’eterea Evita, Eva Duarte Peron, la madonna dei descamisados. “L’anarchico vestito di nero”, “il bandito gentiluomo”, “l’eversione venuta da lontano”, “l’idealista della violenza” era troppo italiano per gli argentini ed è troppo argentino per noi italiani. La storia gli ha dato torto, che almeno rimanga la leggenda.

 
TOPEAMAGAZINE - 54^ TORNATA - LUGLIO/AGOSTO 2010
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INDICE:
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| 'E' morta America Josefa Scarfò' di Osvaldo Bayera  | 'Come stanno le begonie?...' a cura di Salvatore Libertino 'Documento video su Di Giovanni e Scarfò' a cura di Salvatore Libertino |
'Francesco Barbieri, l'anarchico dei due mondi' di Antonio Orlando |