Il Cardinale Vincenzo Lauro (Chiesa Cattedrale Mondovì)

 

VINCENZO LAURO

 

di Antonio Francesco Parisi

 


 

Solo in questi tempi il nome del calabrese Vincenzo Lauro sta riacquistando nel mondo degli studiosi, in Piemonte ed in minor misura in Calabria, parte di quel prestigio e di quella meritata popolarità di cui già nella seconda metà del ‘500 godeva in tutti gli ambienti europei (1). Vincenzo Lauro, infatti, non fu solo un prelato zelante, un amico di letterati, un consigliere regio e ducale, né un nunzio papale preoccupato di applicare pedissequamente le direttive della Segreteria Apostolica. Fu queste cose, già di per sé importanti, ed altre ancor più importanti.

In Francia ed in Polonia rappresentò un validissimo sostegno della fede cattolica ed uno dei più tenaci ed intelligenti assertori dei deliberata del Concilio tridentino; in Piemonte la sua opera costituì un fattore di progresso morale, religioso e civile, e tale continuò ad essere in seno alla curia romana. Infine di tanta autorevolezza e stima godette fra i contemporanei, che per ben due volte fu in sul punto di assidersi sulla rutilante sedia dei successori dell’apostolo Pietro.

Vincenzo Lauro nacque il 28 marzo 1523 in quella nobile e splendida cittadina, che è ancor oggi Tropea, allora città demaniale del vicereame spagnolo di Napoli e tuttavia soggetta all’influenza feudale della famiglia Carafa. I suoi genitori, nonostante la nobiltà della famiglia materna ed i legami coll’antico ceppo dei Lauro cosentini, non appaiono provvisti di molti beni; erano tuttavia molto stimati e strettamente legati al duca Ferdinando Carafa. Questi fu anche il primo protettore del Nostro. Lo accolse, infatti, bambino nel proprio castello di Filogaso affinché crescesse e venisse educato insieme col figlio Alfonso. In tal modo il piccolo Lauro poté usufruire di un’educazione e di una istruzione che la limitatezza dei beni familiari certamente non gli avrebbero consentito. Fra gli altri ebbe come precettore lo spagnolo Giovanni Padilla, che localmente godeva di una ottima nomea e che gli insegnò il latino, il greco e soprattutto, come ricorderà molti anni dopo, la pratica quotidiana della preghiera e della meditazione.

Comunque i suoi progressi nello studio, la sua diligenza in tutte le cose, la sua vocazione per la medicina furono tanto evidenti che lo stesso duca Ferdinando si preoccupò di fargli continuare gli studi inviandolo a sue spese a Napoli. L’università partenopea era allora, come adesso, la meta preferita degli sudenti calabresi; per il Nostro fu una breve tappa. Nel giugno del 1542 lo vediamo lasciare la grande città per raggiungere Padova. Il mutamento non fu casuale o conseguente a preferenze didattiche; la facoltà patavina di medicina era indubbiamente rinomata, e i calabresi la ricordavano anche perché il nostro famoso Bruno da Longobucco vi aveva insegnato chirurgia nella prima metà del XIII secolo; ma spinsero il giovane studente  motivi di convenienza economica.

Padova era sede del collegio fondato il 1432 da Belforte Spinelli, vescovo di Cassano, in ricordo del padre esule e professore di diritto in quell’Ateneo, a beneficio degli studenti regnicoli. Lauro poté facilmente trovarsi posto per l’appoggio dei Carafa, che godevano di molte amicizie locali. L’ambiente universitario padovano era in quegli anni molto più vivo ed effervescente del partenopeo, sia per la maggiore libertà di cui si godeva nei domini della Serenissima, sia per la presenza in Padova di elementi protestanti, che naturalmente suscitavano lo sdegno ma anche la necessità di un dibattito da parte cattolica. Il giovane studente si impegnò in pieno negli studi e in tutto ciò che poteva servirgli ad ampliare le proprie conoscenze; seguì molto anche le lezioni dei professori Pellegrino e Giovan Giacomo Calabresi, e seppe acquistare una profonda conoscenza oltre che delle discipline mediche, di quelle teologiche ed in particolare delle dottrine averroistiche e tomistiche. Specie in quest’ultima divenne tanto profondo, da suscitare, anni dopo, la stupita ammirazione di Pio V.

Laureatosi a pieni voti in medicina e teologia, tornò a Roma dove si impiegò, prima al seguito del cardinale cosentino Pier Paolo Parisio, e poi di quello fiorentino Niccolò Gaddi, facendosi le ossa nelle pratiche di segreteria ecclesiastica e diplomatica, ed ampliando le proprie conoscenze umane ed umanistiche. Specie il sessennio trascorso col cardinale Gaddi costituì per il giovane tropeano un periodo importante in quanto lo avviò alla pratica della vita politica ed influì sul suo futuro, poiché lo portò ad inserirsi ed a servire nella fazione filofrancese, della quale il Gaddi era uno degli esponenti, mentre fino allora per origine e perché legato ai Carafa era rimasto legato alla fazione spagnofila.

A questo periodo risalgono le prime amicizie importanti, quella del Contarini e con Ugo Buoncompagni, poi divenuti l’uno prodatario e l’altro pontefice col nome di Gregorio XIII, e col noto poeta Annibal Caro; questi faceva da precettore nella famiglia dei Gaddi, mentre i precedenti erano entrambi al seguito del card. Parisio.

Morto il Gaddi nel gennaio 1552, Vincenzo Lauro trovò immediatamente un impiego di maggiore responsabilità presso il card Francois de Tournon, la più prestigiosa figura politica transalpina di quel tempo, anche se temporaneamente tenuto lontano dalla corte coll’incarico di ministro di Francia a Roma. Il Tournon fu per il giovane calabrese un grandissimo esempio ed uno stupendo maestro. Al servizio del grande ministro francese, egli poté perfezionare le sue qualità umane raffinare quelle diplomatiche, approfondire la conoscenza della politica religiosa, scoprire le tortuosità e gli allettamenti della vita di corte, conoscere un’infinità di persone importanti, accrescere le cognizioni letterarie ed umanistiche, acquistare una propria personalità e farsi valere come segretario e come medico.

Comunque, seguire il Lauro nel decennio (dal 1552 al 1562) sotto il Tournon, significa addentrarsi in tutti gli aspetti della vita e accennare ai principali avvenimenti europei del sesto decennio del XVI secolo. Già nella primavera del 1552 egli segue il cardinale nelle trattative e nella stesura degli accordi da sottoscrivere per la Francia col papa Giulio III, coi quali accordi viene garantita l’influenza francese in alta Italia e la sopravvivenza del principato Farnese; successivamente lo aiuta nella costituzione del famoso collegio Tournon e della Grande Accademia, della quale diventa membro ed alla quale il cardinale aveva legato i più illustri nomi della cultura francese del tempo; a nome del Tournon tesse una fitta rete epistolare in Italia per sostenere le sorti del partito francofilo; e sempre per conto del Tournon, deve occuparsi anche dei rapporti coi calvinisti in Francia verso i quali il cardinale gli offre l’esempio di una condotta tollerante, spesso contrastata dalle corti di Roma e di Parigi.

Questo aspetto della sua attività al servizio del card. Tournon gli riesce di una grande utilità per due motivi: primo perché ne ricava un’esperienza insostituibile che gli permette di avere idee molto chiare sul problema dei rapporti coi riformati e, quando sarà nunzio, di procedere con cognizione di causa e con moderazione; secondo perché si mette in contatto con un altro grande personaggio del tempo: Giacomo Lainez, amico, seguace e successore di Ignazio di Lyola nella guida della Compagnia di Gesù.

Un ultimo vantaggio che il nostro ricava dalla sua attività al servizio del grande cardinale francese, è la fama che si acquista nel campo della medicina curando proficuamente il Tournon da una affezione prostatica. Il cardinale, a quanto pare, non godeva di una salute di ferro e già altre volte aveva fatto ricorso alla scienza del segretario calabrese. Questi, insieme con altri medici, assistette il suo illustre patrono pure durante l’ultima degenza e nell’angoscioso trapasso, avvenuto il 21 aprile 1562. Morendo il cardinale gli lasciò, in premio dei suoi fedeli servizi, i due pingui priorati di Nantuà e di Contamina, quest’ultimo particolarmente importante e dovizioso. Ma l’eredità più grande fu il corredo di insegnamenti e di esperienze vissute e le amicizie contratte con re, regine, principi, cardinali e ministri, ambasciatori, uomini di spada e di lettere, gente tutta che in gran parte nutriva per lui molta stima e, qualcuno, anche affetto.

Egli era divenuto di già, come scrive il Tasso con una punta di interessata adulazione, «quel gentiluomo… le cui rare ed onorate qualità meritano che la sua amicizia sia desiderata».

La riprova della considerazione in cui il giovane calabrese era tenuto dagli ambienti più in vista della Francia si ebbe proprio alla morte del card. Tournon. Egli si sentiva stanco e desideroso di tornare agli studi in Italia, ma tutti i maggiori esponenti del mondo cattolico francese, e segnatamente i potentissimi duchi di Guise, Giacomo d’Albon, il legato pontificio cardinale Ippolito d’Este, il cardinale di Lorena, i Gesuiti e la stessa regina, si unirono per indurlo a restare ed accettare l’offerta di Antonio di Vendome, re di Navarra, che lo voleva al suo servizio. Il re era una persona influente ed autorevolissimo, ma ritenuto di propositi non fermi in fatto di fede religiosa; nessuno dubitava che la vicinanza ed i prudenti consigli del nuovo segretario avrebbero avuto un peso sulla futura condotta del re. Il Lauro dovette ubbidire e restare. La sua influenza su Vendome apparse evidente di lì a poco, quando il re di Navarra tornò ad appoggiare la politica del partito dei Guise: fu appunto mentre si trovava colle truppe che assediavano i protestanti in Rouen che si buscò un’archibugiata mortale. Le affettuose cure del Lauro e degli altri medici non valsero a salvarlo dalla morte. Così il Nostro, alla fine del 1562, era nuovamente libero a tornare in Italia. Due mesi dopo iniziava il viaggio del ritorno al seguito del card. Ippolito II d’Este che nel frattempo lo aveva accolto in qualità di segretario e di medico (il cardinale infatti soffriva di podagra). Per il Lauro quest’impegno era solo l’occasione di tornare in Patria. Il 7 giugno a Roma il Nostro si congedava da Ippolito II, ricevendo un compenso di 3.000 scudi.

 

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Nella capitale del cattolicesimo l’incontro col medico Argentario fu determinante per il suo avvenire. L’illustre medico piemontese persuase il più giovane collega ad accettare l’invito che gli veniva rivolto dal Duca Emanuele Filiberto di mettersi al proprio servizio. Non sappiamo se più per meriti diplomatici o per meriti medici. Emanuele Filiberto in quegli anni soffriva di attacchi uricemici con febbre elevata continua; ma la fama del Lauro in Francia non era legata solo alla medicina, e in quella corte, inoltre, egli aveva conosciuto la principessa Margherita, che adesso era la sposa amata ed ascoltata del duca sabaudo.

A Torino Vincenzo Lauro non impiegò molto tempo ad assumere una posizione di primo piano: stimato per meriti personali e sostenuto da potenti amici ecclesiastici e laici, due anni dopo veniva nominato vescovo della più popolosa città del ducato, essendo riuscito a mettere d’accordo sul suo nome il Papa ed il Duca, per altro divisi da gravi contrasti. La bolla papale di nomina è del 20 gennaio 1566; l’ingresso solenne in Mondovì avvenne il successivo 6 luglio. Il notevole ritardo fu causato dai molti maneggi che il Nostro aveva in corso a Torino prima, e successivamente a Roma, dove nel frattempo si era recato. Qui riesce ad ottenere un incarico tanto rischioso quanti importante: la nunziatura in Scozia.

In quel lontano regno la situazione del cattolicesimo era disperata. La riforma incoraggiata e sostenuta dalla vicina Inghilterra trionfava dovunque ed i pochi, sinceri cattolici non avevano l’animo di contrastarla. La regina Maria Stuart, cattolica, era praticamente isolata. Anni prima un nunzio pontificio per giungere fino a lei aveva dovuto viaggiare in incognito e poi, braccato a morte e respinto dagli stessi vescovi cattolici, si era salvato con una fuga precipitosa.

Alla corte di Roma la situazione di Scozia è ben nota, tuttavia si giudica opportuno sostenere in qualche modo, con un sussidio di 20.000 scudi e con l’invio di un nunzio, le sorti di quel regno cattolico. Ma pochi si fanno delle illusioni. La scelta del trentenne Lauro si spiega, e con la speranza che a Roma si nutriva nella sua abilità e nella sua intraprendenza, e con i noti rapporti d’amicizia che, al tempo in cui entrambi vivevano alla corte francese, c’erano stati fra la regina Maria, allora sposa di Enrico II di Valois e quindi nipote del conte e del cardinale di Guise, ed il Lauro, allora segretario e medico dei cardinali Tournon e d’Este, l’uno e l’altro familiari di Maria e legati al partito dei Guise.

Purtroppo il giovane nunzio non riesce neppure a raggiungere la Scozia, trattenuto prima dalle esitazioni della regina e poi dalle notizie che gli giungevano dall’altra sponda della Manica. In quel regno la situazione si era ingarbugliata ancor di più e ad una congiura ne seguiva un’altra. Anche Darnely, il secondo marito di Maria, era stato eliminato dai congiurati e non c’era alcuna speranza per la parte cattolica. I drammatici dispacci del Lauro sono una fonte importante per la conoscenza di quei fatti. Ma la missione non raggiunge alcuno scopo ed il Lauro viene richiamato dal Papa. Anche nell’insuccesso le qualità del Nostro hanno modo di farsi notare: non gli viene giustamente mosso alcun addebito, anzi viene lodato per la sua diligenza e più tardi, su suggerimento della stessa regina Maria, il Papa lo nomina «protettore» del regno di Scozia.

Tornato nella sua diocesi nel luglio 1567, dopo un breve periodo di meritato riposo, inizia una profonda opera di studio e di riorganizzazione ecclesiastica del Piemonte meridionale. Opera che viene perseguita, incrementata ed estesa a tutto il Piemonte allorché riceve la nomina di nunzio presso Emanuele Filiberto (dic. 1567).

 

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Il Lauro aveva trovato nel Piemonte una regione moralmente più che depressa e religiosamente desolata: ecclesiastici che gareggiano coi laici nei vizi, nello sfarzo offensivo e nella più completa immoralità; parroci che si preoccupano delle rendite ma non curano le loro chiese e lasciamo senza sacramento persino i moribondi; donne tanto laiche che quanto religiose  che, senza ritegno, rinunziano alla loro pudicizia ed alla virtù per una immorale consuetudine di vita: una società in completo disfacimento, nella quale trovano un fecondo terreno di sviluppo le idee protestatarie calviniste e valdesi. Di fronte a questo triste stato di cose, il Lauro si trovò impegnato in una attiva opera riformatrice che durò quasi un ventennio. A Mondovì instaurò innanzitutto una maggiore disciplina nel clero, nello sforzo di renderlo consapevole della propria missione e di elevarlo moralmente. Appunto per migliorare la formazione dei sacerdoti organizzò un seminario vescovile, fondò la biblioteca e fece venire valenti predicatori che istruissero clero e fedeli. Sono importanti e parzialmente tuttora validi i principi a cui volle informate le «Regole da osservarsi dai chierici e Ministri del venerabile seminario della città di Mondovì».

Analogamente agì nei confronti dei monaci e delle monache, trasferendo alcuni, imponendo il rispetto delle rispettive «regole» e talvolta intervenendo a mitigare il rigore della clausura in casi particolari. Accanto a quest’azione spirituale, egli ne attuò un’altra non meno importante ed utile a sfondo economico. A lui si deve la fondazione, nelle due maggiori città della diocesi, a Cuneo e a Mondovì, di due Monti di Pietà, per i quali mise a disposizione somme considerevoli per quei tempi e persuase gli abbienti a contribuire al successo dell’iniziativa destinata a combattere la piaga dell’usura e nello stesso tempo a risollevare le condizioni economiche del Monregalese.

Quale nunzio presso Emanuele Filiberto, la posizione del Lauro non era nei primi tempi delle più tranquille. E’ noto che fra il Papa ed il Duca i rapporti non erano buoni e che un terzo incomodo era rappresentato dalla influenza che esercitava da Milano il card. Borromeo. Il Lauro, che aveva saputo conquistare la fiducia di tutti e tre, seppe magnificamente manovrare e giostrare fra gli interessi talvolta contrapposti, smussare gli angoli e la rigidezza delle parti, creando dapprima un clima di distensione e poi consolidando il miglioramento dei rapporti fra la S. Sede e Torino. La difficoltà della sua missione è provata da qualche voce calunniosa di cedevolezza e di doppiezza sussurrata contro di lui, sia a Roma, sia alla corte ducale, voci che però non trovarono né ascolto né seguito proprio perché del tutto inconsistenti. Certo, a differenza del predecessore mons. Francesco Bachod, il nunzio Lauro non era succube della rigidezza riformistica del Borromeo e di Pio V; di questi accettava le idee, gli esempi e gli ordini, ma usava differenti criteri di applicazioni, conoscendo bene le caratteristiche, le condizioni morali e religiose dei sudditi sabaudi come pure la fermezza del principe ed il suo senso autorevole dello Stato. Per questo il lavoro del Bachod non ebbe conveniente frutto mentre quello del Lauro fu grandemente utile al Piemonte ed alla riforma cattolica. Anche di fronte al Borromeo, il Nostro seppe mostrare una indipendenza di giudizio e di azione, che rese la sua azione in questo stato molto più proficua e profonda; fra l’altro ricordiamo come non rinunciò a prendere posizione contro di lui quando gli sembrò di dover mettere in rilievo l’inopportunità della intransigenza borromeiana su questioni non attinenti alla fede.

Nella difesa del cattolicesimo e nella lotta contro le dottrine eretiche il Vescovo di Mondovì si dimostrò soprattutto guidato da sentimenti di umanità e tolleranza. Invero non seppe rinunziare a qualche forma di coazione fisica, ma cercò di ridurne le applicazioni al minor numero e sovente, mentre altri gli consigliava la più dura intransigenza, ricorse solo all’arma della persuasione. Egli riconobbe l’utilità dell’inquisizione richiedendo però che l’inquisitore fosse «uomo grave, destro e prudente»; ma soprattutto cercò di affidarsi a «predicatori dotti et di buona vita» ed ancor più all’insegnamento della dottrina cristiana in tutte le parrocchie ed a tutti i parrocchiani. L’importanza ch’egli attribuì all’istruzione anche come sostegno della fede cattolica gli fece riguardare con particolare interesse sia ai maestri che ai letterati. Egli voleva che i maestri fossero esempi di moralità per tutti, fossero «ben istruiti» nelle materie che dovevano insegnare e che all’atto dell’assunzione facessero professione di fede cattolica. Verso i letterati aveva avuto degli splendidi esempi di mecenatismo da parte del Tournon, che egli, pur con mezzi ridotti, si sforzava di imitare: Sperone Speroni, Tasso padre e figlio, Annibal Caro erano stati ed erano suoi grandi amici e suoi beneficati. In Piemonte con doni e favori legò a se il famoso medico Giovanni Argentario ed il meno noto Bersano Bensia, i letterati Raffaello Toscano e Filiberto di Ceva ed una schiera di giuristi fra i quali sono da ricordare Ludovico Vitale, Bernardo Trotta e Giorgio Paleario. Ma soprattutto godette dell’amicizia del grande Botero, come in Francia aveva goduto quella dei filologi Denis Lambin e Marco Antonio Muret, dell’ellenista Pietro Danès, dello storico Jacques Auguste de Thou e del giurista Arnaldo du Ferrier. Nell’ambito di questa sua politica a favore dei letterati va collocata la sua azione per la fondazione dell’università monregalese. Purtroppo a noi non sono giunti documenti comprovanti l’attività del Lauro a favore di questo istituto, ma possiamo prestar fede alle affermazioni di Carlo Bonardi che nel suo valido saggio su quell’ateneo ha attribuito al nostro e ad altri tre consiglieri di Emanuele Filiberto (M. A. Bobba, de la Ravoire e F. Pingone) di aver incrementato nello stato sabaudo l’amore verso la cultura e di essere stati i maggiori promotori di quell’università.

 

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Nel 1573 Vincenzo Lauro venne nominato nunzio in Polonia. Si trattava di un punto nevralgico per il cattolicesimo ed anche per la civiltà europea. Infatti, oltre che campo aperto a tutti gli scontri fra l’ortodossia romana e le più avanzate idee del riformismo mitteleuropeo, la Polonia era direttamente minacciata nella sua esistenza di nazione occidentale dalla inquieta Turchia, installata sui confini della Moldavia, oltre che dalle aspirazioni espansionistiche tedesche e russe. In più essa non godeva di un assetto statale molto stabile a causa della irrequietezza della nobiltà e della debolezza del potere regio.

Le relazioni con la S. Sede erano diventate piuttosto difficili, dopo che il nunzio card. Commendone, in occasione della elezione del nuovo re, aveva apertamente sostenuto un candidato tedesco contro il candidato francese, Enrico di Valois, che poi risultò eletto. Vincenzo Lauro fu mandato per porre rimedio alle conseguenze della precedente politica e perché lo si sapeva molto gradito al nuovo re, col quale era stato in ottimi rapporti quand’era alla corte francese. La bolla di nomina è del 1 giugno 1573. Lauro parte quasi subito per Parigi, dove si trovava il nuovo re, coll’intenzione di congratularsi con lui, prendere i primi contatti ed accompagnarlo durante il lungo viaggio fino in Polonia. Questa seconda intenzione poté essere attuata solo in minima parte, perché il re aveva stabilito di attraversare alcuni paesi protestanti nei quali al Nunzio il passaggio risultava interdetto.

Il Lauro, pertanto, attraverso un itinerario più meridionale facente capo a Venezia, raggiunse Cracovia a fine gennaio 1574 e si dette subito da fare prendendo contatto coi principali esponenti cattolici per essere pronto a ricevere il re. Nei 4 mesi di regno del Valois in Polonia, egli riesce, sia pur con notevoli difficoltà, a normalizzare i rapporti fra il re e la Santa Sede, a dare vigore al partito cattolico e nello stesso tempo a frenare l’influenza protestante. Inoltre inizia ad introdurre lo spirito della riforma tridentina nel clero. Purtroppo il re, alla notizia che il fratello era morto, di nascosto nottetempo abbandona la Polonia e corre a raccogliere la corona di Francia. Segue per il Lauro un periodo terribile. Egli sa però trarre dal profondo dello spirito preziose risorse che gli permettono di affrontare situazioni gravide di minacce anche sul piano fisico: per prima cosa riesce a mantenere unite le fazioni cattoliche, poi ad imporre il suo punto di vista di non far dichiarare subito decaduto il re Enrico e di attendere il suo possibile ritorno fino al 12 marzo; nel frattempo si prepara alla battaglia per la successione.

Purtroppo, nonostante il suo contrario parere, la Segreteria Apostolica stabilisce di appoggiare l’elezione di un candidato austriaco. Il Lauro avverte che si sta per commettere un errore, ed in un primo tempo cerca di guadagnare tempo, sperando che a Roma possano mutar opinione. Visti inutili i suoi consigli si adegua alle direttive e fa quanto gli è possibile in favore di Massimiliano ed Ernesto d’Austria. Mercé anche la sua opera, in una contrastata assemblea, la candidatura di Massimiliano prevale. Lauro esulta ma è conscio del pericolo imminente: se l’eletto non viene subito in Polonia, gli oppositori punteranno sul principe Bathory ed otterranno vittoria. Così, infatti, succede; ed il Lauro si trova in un gran pasticcio, perché vorrebbe, ma non gli è permesso, di riconoscere formalmente il nuovo re. Il nodo fortunatamente si scioglie nell’ottobre colla morte del candidato austriaco.

A quel punto il Lauro si aspettava il mutamento della politica papale e la propria sostituzione. Invece Gregorio XIII nel riconoscere Bathory re della Polonia, il 6 novembre conferma Lauro quale proprio nunzio. Fu una decisione molto saggia perché nei due anni in cui restò presso la corte polacca, il Nostro riuscì ad entrare nelle grazie di quel buon re ed acquistare un grande prestigio a corte; seppe agire in modo da introdurre pacificamente i canoni tridentini e pubblicare la bolla in «Coena Domini»: infine fu tanto abile da riappacificare il Bathory con l’imperatore d’Austria.

Per suo merito fu anche incrementata l’università di Cracovia, vennero introdotti in Polonia i padri Gesuiti e furono iniziate trattative per cattolicizzare la Svezia. Nel novembre 1578, finalmente, poté rientrare in Italia. Si trattenne a Roma qualche tempo, partecipando alle sedute della Commissione per la riforma del calendario, istituita da Gregorio XIII; di questa Commissione egli faceva parte quale consulente teologico. A Roma lo sorprese la notizia della morte di Emanuele Filiberto, avvenuta il 30 agosto 1580.

 

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Col ritorno del Lauro in Piemonte, verso la fine del 1580, ebbe inizio la sua seconda nunziatura piemontese, con direttive essenzialmente politiche, mentre nella prima i suoi compiti erano stati prevalentemente di natura ecclesiastica. Nella primavera del 1585 si ritirò a Mondovì, ma anche questa volta dovette presto ripartirne per tornare a Roma, ove il 10 aprile era morto Gregorio XIII. Succedutogli Sisto V, in una delle prime riunioni del Concistoro, Lauro ebbe la nomina a cardinale, con il titolo di S. Clemente.

E’ di questo periodo l’incontro con Camillo de’ Lellis (1550-1614), che egli appoggiò nella sua opera di assistenza agli ammalati incurabili, ottenendo da Sisto V l’approvazione per la «Congregazione dei chierici regolari ministri degli infermi». Nessun porporato meglio del medico Lauro poteva conoscere lo stato dell’assistenza ospedaliera; ed il suo intervento presso il pontefice fu determinante. Il 26 giugno 1586 Sisto V autorizzò i componenti della suddetta «Congregazione» a portare sul mantello una croce di colore rosso: nasceva così il simbolo della «Croce rossa». Nel luglio 1585 Lauro aveva avuto da Carlo Emanuele, duca di Savoia, con la piena approvazione del Papa, la nomina ad abate di un illustre cenobio della zona di Pinerolo, il monastero benedettino di Santa Maria. Questa abazia, pur non vantando l’antichità di quelle della Valle di Susa, quali l’abbazia della Novalesa e quella di S. Michele della Chiusa, era tra le più importanti del Piemonte. Anche in Pinerolo il Lauro lasciò grata memoria di sé.

Nella primavera del 1587 l’abate Lauro dette un sostanzioso aiuto al locale ospedale dei SS. Maria e Giacomo, che versava in cattive condizioni economiche, e beneficò  molti poveri della zona di Pinerolo, dove a quel tempo imperversava una grande carestia. Nella cittadina subalpina rimase però breve tempo, poiché a partire dal 1588 dovette dedicare la sua attività alla Curia Romana. Rinunciò quindi all’Abbazia di S. Maria, in favore del suo segretario Tritonio, che di Lauro fu il primo ed autorevole biografo; egli conservò però il titolo di «perpetuo reservatario del monastero».

Con la bolla del 22 gennaio 1588 Sisto V costituì la Congregazione dei Riti; Lauro ne fu nominato membro, mettendo così ancora una volta la sua scienza teologica al servizio della riorganizzazione ecclesiastica. Sisto V morì il 27 agosto del 1590; tra i possibili successori c’era anche il Lauro, ma la sua candidatura nel conclave cadde e fu eletto Papa il cardinale Castagna, che assunse il nome di Urbano VII. Fu un papato di breve durata, poiché dopo soli 13 giorni il nuovo pontefice morì di malaria. A distanza di un mese i cardinali si ritrovarono in conclave. Tra i papabili vi era ancora il Lauro, ma anche questa volta, per irriducibile e ingiustificata opposizione spagnola, egli non venne eletto; fu nominato papa il cardinale Sfrondato che assunse il nome di Gregorio XIV. Lauro reagì con dignità alla delusione, rassegnandosi umilmente, ma nel cuore gli rimase l’amaro della sconfitta.

Anche questo papato fu di breve durata, poiché Gregorio XIV morì il 16 ottobre 1591. Lauro partecipò al suo terzo conclave, da cui uscì eletto, il 29 ottobre 1951, il cardinale Facchinetti, col nome di Innocenzo IX, e pure questo pontefice ebbe vita corta, morendo, dopo breve malattia, il 30 dicembre 1591. Per la quarta ed ultima volta Lauro partecipò ad un conclave, ma egli ormai non nutriva più alcuna ambizione ed aveva deposto ogni residua speranza.

Nell’autunno del 1592 il suo stato di salute si aggravò per l’età, il lavoro, le fatiche dei lunghi e frequenti viaggi, le emozioni, le lotte. Egli era riluttante a curarsi. Tra il 7 e l’8 dicembre una febbre violenta lo costrinse a letto; le cure affettuose e premurose prestategli dai medici, nonché dai ministri della «Compagnia degli infermi» e dallo stesso loro generale, Camillo de’ Lellis, non valsero a prolungarne la vita. Egli serenamente spirò il 16 dicembre 1592, a quasi settant’anni di età.

Rimase lucido sino alla fine, e nel vedere i volti tristi ed affranti degli amici e dei familiari che attorniavano il suo letto, cercò di consolarli dicendo a loro e al sacerdote, che si apprestava a dargli l’Estrema Unzione, queste parole: «Sto per andare nella casa del Signore e ci vado in letizia».

Lasciò i suoi libri e i suoi quadri ai PP. Gesuiti, gli altri beni alla «Compagnia dei Ministri degli Infermi» le cose personali ai familiari. Fu sepolto nella chiesa di S. Clemente, di cui portava il titolo cardinalizio, e sulla tomba volle scritto questo epitaffio: «Hic jacet Vincentius Laureus Ecclesiae Presbyter Cardinalis Montisregalis nuncipatus». Esecutore testamentario nominò il suo protetto Camillo de’ Lellis, il futuro santo.

Con lui si spense una delle più interessanti figure di prelato-diplomatico del XVI secolo ed uno dei maggiori calabresi di tutti i tempi. Uomo grande nella bontà, nella perspicacia e nella devozione ad un’idea: il servizio della Chiesa Cattolica.

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

Posteriormente ai miei saggi, pubblicati e poi raccolti in volume (Reggio Calabria, ed. Historica, 1959), lauro è stato oggetto di studi particolari da parte di R. BORSARELLI, per i monti di Pietà nella Miscellanea Filangeri; di GIORGIO LOMBARDI, nel recente convegno monregalese organizzato dalla Deputazione Subalpina di Storia Patria; di SERGIO ROCCHIETTA, Il Medico V. L., «Minerva Medica», vol. 56 (1965), n. 100; di G. MERCOL, Il Card. V. L., eminente tra gli abati di Pinerolo, in numero speciale de «L’eco del Chisone», settembre 1964, n. 35.

Inoltre toccano la figura del Lauro molti altri studi fra i quali ricordo: F. FONZI, Nunziature di Savoia (Ist. Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Fonti storia d’Italia) – Roma, 1960; A. MORANDIN, Una missione di T. Orsini in Polonia, in «Archivio Stor. It. », CXXIII (1965).

A. F. P.

 

TROPEAMAGAZINE
56^/57^ Tornata Gen/Feb 2011 - Mar/Mag 2011

VINCENZO LAURO

di Antonio Francesco Parisi

INDICE
|  Biografia  |  Prefazione | 
La città natale, la famiglia, l'infanzia, i primi studi, i primi impieghi  
|  Le prime esperienze e i primi incarichi |
Da medico dei corpi a pastore di anime  |  Nunzio in Scozia  |
La prima Nunziatura in PiemonteLa Nunziatura in Polonia  |
Il "tutore di Carlo Emanuele" (1580 - 1585) - La nomina a Cardinale

| Il Cardinale del Mondovì Abate di Pinerolo |
|Il mecenate - I suoi rapporti con Caro, B. e T. Tasso, Speroni, Botero, e altri  |
Il periodo romano - La morteBibliografia essenziale |