Un canzoniere tardo-cinquecentesco
in chiave "ortolana":
'L'ortolano' di Vincenzo Toraldo
 da "La letteratura di villa e di villeggiatura:
atti del Convegno di Parma, 29 settembre-1. ottobre 2003",
Roma, Salerno, 2004, pagg. 503 - 526
 

di Vincenzo Dolla


Era di fresco venuta in Napoli una copia del Pastor Fido, e lettasi in presenza di Torquato, di Ascanio Pignatelli, e di Vincenzo Toraldo, fu egli richiesto che volesse dircene il suo parere. Ed egli: <<Mi piace sopramodo, ma confesso di non saper la cagione perchè mi piaccia>>. Onde io rispondendogli: <<Vi piacerà, per avventura (soggiunsi) quel che vi riconoscete del vostro>>. Ed egli: <<Nè può piacere il vedere il suo in mano d'altri>>1.

Si deve probabilmente a questa menzione, in un aneddoto della biografia tassiana del Manso, la più remota segnalazione, prima della riscoperta critica tardonovecentesca2, della presenza, nel panorama culturale napoletano di fine Cinquecento, di Vincenzo Toraldo d'Aragona, un intellettuale di sicuro prestigio e per i suoi rapporti con i maggiori letterati del tempo, e per le sue opere, non numerose, ma estremamente significative: il dialogo La Veronica o del sonetto (Genova, Bartoli, 1589) e il canzoniere L'Ortolano (Lione, s.e., 1603).
Poche e frammentarie le notizie della sua vita, di cui si ignorano perfino i limiti cronologici. Figlio primogenito di Gaspare Toraldo3, barone di Badolato, e di Aurelia Sanseverino, dei conti di Saponara, ebbe due fratelli (Francesco e Geronimo) e due sorelle (Eleonora e Geronima), nate dalle seconde nozze del padre con Cassandra Isaccar, di nobile famiglia spagnola.
Circa la vita familiare di Vincenzo, che ebbe il feudo di Badolato nel 1591, alla morte del padre, si sa che sposò in prime nozze, l'11 dicembre 1584, Diana Filomarino, zia del celebre cardinale Ascanio Filomarino (1583-1666), dalla quale, amatissima, ebbe tre figli, Francesco4, Aurelia e Gaspare. Rimasto vedovo dopo solo tre anni, si risposò, in seguito, con la spagnola Luisa Bragamonte che gli diede altri tre figli, Caterina, Ippolita e Cesare.
La Veronica ci dà notizia di suoi viaggi tra i quali, rilevante, quello del 1585, alla volta della Spagna, con sosta a Genova ove conobbe il principe Alberico Cybo Malaspina, dedicatorio del dialogo sul sonetto, e dove entrò probabilmente in contatto con alcuni letterati di area ligure e settentrionale.
Più circostanziate, tutto sommato, appaiono invece le notizie sulle esperienze intellettuali di Vincenzo Toraldo. Socio dell'accademia degli Svegliati5 (con il probabile nome accademico di <<Risvegliato>>) e forse di quella milanese degli Inquieti6, fu amico di Sertorio Quattromani7 che gli indirizzò un'importante epistola su questioni letterarie nel 1581, di Francesco Maria Vialardi8, menzionato nella Veronica9, che inserì un suo sonetto nella Lezione recitata [...] nell'Accademia publica Fiorentina (1590), del pittore Romano Alberti10 e del Manso11, al quale il Toraldo dedicò un sonetto stampato nelle Poesie Nomiche.
Don Vincenzo ebbe altresì legami di solidarietà, testimoniati da corrispondenze poetiche, col Marino12 e con lo Stigliani13. L'Ortolano informa ancora di altri rapporti che il Toraldo tenne con intellettuali del suo tempo, a partire da Margarita Sarocchi14, poetessa amica del Marino e autrice d'una Scanderbeide, fino al beneventano Vincenzo Bilotta15, anch'egli corrispondente poetico del Marino, al padre gesuita Bernardino Stefonio16, autore della tragedia latina Crispus (1587), a Ferrante Carafa17, marchese di S. Lucido, uno dei più prestigiosi esponenti della cultura del secondo Cinquecento, l'autore dell'Austria (1572) e della Carafè (1580).
Con questi, poi, alcuni personaggi dell'aristocrazia napoletana: Fulvio Caracciolo18, dei principi di Marano, capitano a Nola tra il 1584 e il 1595, Ettore della Marra19, signore di Baiano e Castelfranco, e Matteo di Capua, principe di Conca20, protettore del Tasso e del Marino. Il sonetto XXXIX testimonia inoltre un rapporto di ossequiosa deferenza verso Giovanni Velasco21, duca di Fries, <<governatore dello Stato di Milano e Capitano Generale in Italia per la maestà Cattolica>>, dedicatario della Historia naturale di Ferrante Imperato22.
Circa l'attività letteraria del Toraldo, accanto alle opere già menzionate, La Veronica e L'Otolano, si dovranno registrare anche altre composizioni delle quali rimane qualche attestazione indiretta, come i versi latini inviati al Quattromani, di cui qualche frammento è riportato nella lettera su citata, e la "favola boschereccia" Artoleone della quale, a quanto testimonia La veronica, il Toraldo aveva composto solo i primi quattro atti23.
I sonetti di corrispondenza con lo Stigliani danno conto, inoltre, dell'allestimento di opere in versi su Maria Maddalena e Tomiri l'eroica regina dei Messageti che causò la morte di Ciro il Grande, e lasciano così identificare nel Toraldo il poeta cui il savonese Piergirolamo Gentile Riccio alluse in un passo dei suoi Vanti del Sebeto:

Tu de la peccatrice il pio lamento
che sparse ai piè del suo Signor appresso
fusti primiero a risonar intento.

Ma di Tomiri il tragico successo
mentre a cantar ti accingi (ahi) cor maligno,
lasso tragico fin diede a te stesso;

che 'n quel terren in cui già sì benigno
avesti il tuo natal largo spargesti
morendo, un fiume tepido e sanguigno24.

La menzione del Riccio risulta piuttosto interessante giacchè, accanto alla riconferma della stima dei contemporanei (Vincenzo Toraldo è ricordato in una galleria di personaggi autorevoli, quali Pontano, Sannazaro, Tansillo, Rota, Di Costanzo, Tasso, Pignatelli) consente di determinare, sia pur con approssimazione, qualche coordinata cronologica, come il luogo di nascita e di morte (Napoli ?) e il terminus ante quem della sua "drammatica" scomparsa (1619).
Dunque, l'operetta del Gentile Riccio permette di proiettare un pò di luce sull'ultima fase dell'attività letteraria del Toraldo, attività che comunque vide i suoi momenti di maggior prestigio nella composizione delle opere per le quali al nostro va riconosciuta una precisa collocazione nel territorio letterario napoletano tardo-cinquecentesco, i ricordati La Veronica e L'Ortolano.
Della prima la ricognizione operata da G. Ferroni e G. Parenti ha posto in luce, anche sulla base di divergenti posizioni critiche, l'importanza strategica nel contesto della riflessione teorica sulla poesia, operata dal manierismo meridionale. Il Toraldo, <<esponente tanto modesto in sè quanto sintomaticamente non trascurabile [...] di certo razionalismo di fine Cinquecento>>25, ponendo al centro <<il peso del "concetto" intellettuale, subordinando ad esso totalmente la "locuzione" e gli "artifici" relativi>>, s'è reso, nel suo dialogo sul sonetto, fautore di <<un classicismo teso a misurare lo "stile" sul modello della "materia" del discorso, limitata quest'ultima alla elaborazione di variazioni all'interno di un materiale concettuale già dato, già definito dalle più generali norme dell'inventio retorica e dei rapporti cortigiani>>26.
Decisamente più trascurata, invece, l'indagine critica sull'altra opera del Toraldo. L'Ortolano, che, pur noto al Chioccarello27 (e da questi al Minieri Riccio)28, è rimasto, anche per la rarità del testo29, praticamente sconosciuto e si presenta ancor oggi col sapore d'un autentico inedito:

L'ORTOLANO / Rime del Signor / DON VINCENZO TOTALTO D'ARAGONA. / Con la giunta d'alcuni Sonetti del suo / Mugnaio & del Pescatore. / Delicato da Mons. De Pluvinel / A Monsigneur, Monsigneur Le Duc / de Nemour. / [fregio rappresentante fontana con sirena] / IN LIONE. / L'anno 1603.

8°,a6-c6,d4,pp.86:frontespizio,[3],pp.4-78,[79-86].Richiami alle pp.4-78(assenti a p.25 e a p.57);irregolari a p. 20 (Fin/Sotto) e a p. 64 (Temi/Però).

Titoli correnti: L'Ortolano - Di D. Vincenzo Toralto d'Aragona (pp.[3]-76,Il Mugnaio (p.77), Il Pescatore (p. 78), Annatotazioni (pp.[79-85]).

Contiene 49 sonetti, 30 madrigali, 5 odi, 4 egloghe (in terza rima), 2 canzoni, così distribuiti: Frontspizio, pp.[3]-25(45 sonetti);pp.26-34:MADRIALI (30 madrigali);pp. 35-57: CAPRICCI (5 odi,2 canzoni);pp. 58-64: EGLOCA PRIMA; pp.64-68: EGLOCA SECONDA; pp. 68-72: EGLOCA TERZA; pp. 72-76: EGLOCA QUARTA; p. 77: Il Mugnaio (2 sonetti); p. 78: Il Pescatore (2 sonetti); pp. [79-85]: ANNOTAZIONI.

Diamo, con nostra numerazione e con didascalie30 desunte dalle Annotazioni, la sequenza dei componimenti:

I. Fatiche diurne,& lagrime notturne; II. Essendo la sua Fiora molto lontana; III. Che ne anche il papavero gli dia son(n)o; IV. Che fai? sdegno che fai ne' vaghi lumi; V. Che le zucche habbian più sentimento della sua Ortolana; VI. D'un gatto che lasciò scapparsi il topo; VII. Si duole di Lontananza; VIII. Cavoli rosi da vermini; IX. Essaggera la bruttezza d'uno huomo; X. Di alcuni artificij da tirar acque, nelle paludi di Napoli; XI. Bacio involato; XII. Imparino l'Ortolane a piantar bene; XIII. Un novello sposo ne' primi assalti notturni rimase ferito nella parte, che dovea essere feritrice; XIV. Desidera una bella vista; XV. Porta invidia al Girasole; XVI. Finisce con un verso di Dante; XVII. Contra un'usuraio non miga zucca senza sale; XVIII. Riprende un padre di famiglia; XIX. Presenta à tre persone tre herbe giovevoli à tre loro infermità; XX. Alla Sig. Margarita Sarocchi gloria di Napoli sua patria; XXI. Virtù della Verbena. Giustitiero ufficio in Napoli; XXII. Piange l'Asina toltagli dal Giustiziere; XXIII. Al Signor Principe di Conca Grande Ammiraglio; XXIV. Ad un Sig. Milanese; XXV. Commissario, che va in puglia perche i Grilli no(n) dan(n)neggino le biade; XXVI. Radice rassomigliata ad un empio; XXVII. Ballo usato ne i Contadi; XXVIII. La disunione quanto sia dannosa; XIX. Si rammarica di cose degne di rammarico; XXX. Beni che apporta Amore; XXXI. Al Sig. Hettore della Mara, che tra le sue armi tiene il rastello; XXXII. Tempi di coltivare i campi; XXXIII. Se esser nato ad amar la sua Fiora; XXXIV. Sopra un Crine svelto alla sua Ortolana; XXXV. Ad un giovane iurisconsulto; XXXVI. Essaggera le sue lagrime; XXXVII. Al Sig. Vincenzo Billotta, il quale per arme fà un Serpe con due teste; XXXVIII. Al Sig. Fulvio Caracciolo di Pier'Antonio, con cui s'era esercitato in lodevoli esercitij; XXXIX. Dicendosi, che 'l Sig. Duca di Fries, sia per andare in Fiandra; XL. Nella natività di N.S.; XLI. Nella natività di N.S.; XLII. Contra chi diceva male del Crispo; XLIII. Un certo huomo non intendendo il Latino diceva male della Tragedia Latina del P. Stefonio; XLIV. Ad un Cavaliero della Marra; XLV. Appende la zucca, con la quale ha cantato i suoi amori. - MADRIALI: XLVI. Cert'huom dicendo male del Crispo voleva calzarsi i coturni tragici; XLVII. L'ombra di Fedra, che compare nella prima scena del Crispo, par che non gli dia molto contento; XLVIII. China(n)do Fiora sonnacchiosa la testa parea, che consentisse alla richiesta del suo amante; XLIX. Bacio desiderato; L. Sfrenato desiderio amoroso; LI. Tiranni siciliani crudelissimi; LII. Al Sig. Marchese di Santo Lucito; LIII: Amori del marchese di S. Lucito; LIV. Giace(n)do infermo un Ministro Supremo; LV. Loda l'occhio negro della sua Don(n)a; LVI. Scerza intorno al tor moglie; LVII. Contra i maledetti usurieri; LVIII. Ai saccenti usurieri; LIX. Ad un huomo, da cui fuggissi un Galeotto; LX. Se non vi è allegoria la lettera è chiara; LXI. Intendasi bene; LXII. Organo Faceto; LXIII. D'uno che haveva il male dell'ernia; LXIV. Scherzo sopra un ciarlatore; LXV. Presenta la Codatremola; LXVI. Notaio bruto amante; LXVII. Ad un Gallo; LXVIII. Horologio da Sole faceto; LXIX. Nella morte di un Pulce; LXX. Scherza con la sua Ortolana; LXXI. Vuol piantare mentre è tempo; LXXII. Guancie, quasi pomi vermigli; LXXIII. Specchio rotto in sette pezzi; LXXIV. Rassomiglia la sua Donna ad un orto; LXXV. Innaffiando la sua Ortolana le salate. - CAPRICCI: LXXVI. Il suo bel pargoletto; LXXVII. Felice è quei, che d'ogni cura sciolto; LXXVIII. Era del nono mese; LXXIX. Serenata di capo d'Anno31; LXXX. CANZONE32; LXXXI. Ortolana crudel, che cosi altera; LXXXII. Se non è la coltura; LXXXIII. - EGLOCA PRIMA; LXXXIV. EGLOCA SECONDA; LXXXV. EGLOCA TERZA; LXXXVI. EGLOCA QUARTA. - IL MUGNAIO33: LXXXVII. Puo quello in me che nel gra(n) vecchio, cio è nel frumento vecchio, Mauro Medusa mugnaio quando in selce trasformollo cioè qua(n)do nella macina ne fè farina; LXXXVIII. Spigolistra gentil vienne al Molino. - IL PESCATORE34: LXXXIX. Spingendo intorno il picciol legno; XC. Non riman cosi stupido, et attratto.

La rarità dell'Ortolano può motivarsi forse con l'ipotesi di una tiratura estremamente limitata, data anche la particolare fisionomia del libro che esibisce i caratteri d'una pubblicazione "seniclandestina", uscita "alla macchia", senza le "licenze" delle autorità civili e religiose, priva d'un reale dedicatorio (di là dal fantomatico <<Monsigneur Le Duc de Nemour>> del frontespizio), con falso luogo di stampa e sprovvista dell'indicazione dello stampatore.
Anche la qualità della stampa rivela una lavorazione frettolosa e poco curata: numerosi sono, accanto a qualche refuso35, gli errori, attribuibili in gran parte ad una ingannevole lettura dell'antigrafo, evidentemente di non semplice decifrazione. Solo alcuni di essi, risultati evidenti in fase di stampa, sono emendati nell'errata corrige finale ove, accanto a qualche refuso, si corregge con <<pescar>> l'improponibile <<pensar> di XIII 5, in un contesto dove si rimprovera ad un ortolano di essersi impropriamente dato alla pesca (<<Perchè gisti a pensar? Se fusti poi / Tra gli scogli ferito [...]>>).
In XC 14 (<<Nè so con che, tenendo a fren mia forza>>) è, invece la rima (-orze) a rivelare un erroneo singolare per il plurale (<<mie forze>>), ed è ancora la rima ad evidenziare le sviste che compaiono in VIII I (<<Che ne' cavoli miei più non si trovi [per <<trove]>>) e in XI 12 (<<Nel zucchero de labri ove non capo [per "cape"]>>).
Fuori di rima appare in XLIII I scorretto il nome del drammaturgo gesuita Stefonio (<<L'erbe, le piante onde Stefanio hà pieno>>) e, in LXXVIII 95 (<<Per che volendo ei vada>>), erroneo il gerundio <<volendo>> che, riferito ad un colombo, non può esser che <<volando>>. Alla corriva lettura dell'antigrafo andranno altresì ricondotti guasti ancor più vistosi: la cavalla <<nera>> (per ragioni di rima) di X 9 è divenuta <<mia>> (<<Date la biada alla cavalla mia>>) e in II I, il probabile <<rifiuta>>, frainteso in <<ricusa>>, ha provocato anche l'errato compenso <<tu>> per <<tuo>> (II I-4):

Fiora, Fiora ove vai? tu [tuo] piè ricusa [rifiuta]
Lasso quest'orto mio deh ferma, ferma:
Senza te langue il petrosillo, inferma
E['] la lattuca, e non ha odor la ruta.

Siamo, come si vede, di fronte ad autentiche manomissioni, tentativi di risolvere con sarciture, talvolta estremamente ingenue, le probabili difficoltà di decifrazione dell'antigrafo.
In LXXVIII 53, infatti, la parola di clausola (probabilmente <<torace>>) doveva risultare illeggibile, per cui il compositore, dovendo congetturare, ha fatto ricorso, a seguito di <<mortal>>, ad un lessema (<<viaggio>>), vollto a dar vita ad un sintagma topico del linguaggio poetico (<<mortal viaggio>>), senza tener conto nè del senso nè della rima (LXXVIII 49-54):

D'un Bifolco fù detto,
Che seguitando un Toro suo fugace
D'un colle al Cielo eretto
Cadde, e restò tra spine,
Che nel mortal viaggio ['torace']
A lui s'offriro, ove attaccasi al fine.

Ma, per ciò che riguarda i guasti testuali, particolarmente penalizzata risulta l'Egloca quarta, ove la resa in forma piena (<<spiriti>>, <<medesimo>>) di parole sincopate (<<spirti>>, <<medesmo>>) ha prodotto vistose ipermetrie (LXXXIII 42 e 54):

Trovar tu pace tra gli spir[i]ti irati?

Anch'egli intoppa nel medes[i]mo duolo

e nel caso inverso (<<edra>> per <<edera>>), ipometrie (103-4)

L'ed<e>ra vedi abraccia le tue mura
Et à l'ed<e>ra stessa che l'offende,

ipometrie talvolta attribuibili anche ad errore meccanico (<<gli>> / <<egli>>,53):

Offende gli altrui piedi, e s'<e>gli è scalzo.

Nell'egloca terza, infine, la svista del tipografo risulta ancor di maggior gravità, giacchè si registra, addirittura, la caduta d'un intero verso, come testimoniano il richiamo irregolare (<<Ram>>) nella pagina precedente, l'alterazione della struttura metrica (terza rima), nonchè il senso del discorso (LXXXV 34-38):

Di fertil, grata pianta io prendo opimi
[Ram<i> ..........-esto]
Sì, che poi dolce ogn'huom la pregi, e stimi.

Tu in altra guisa fai, Brunel, l'inesto;
Le piante incidi amiche à l'altrui gusto
E v'inserisci poi germe molesto.

Di là dalla resa testuale, sicuramente carente, e dalla limitata circolazione. L'Ortolano offre però motivi di grande interesse, a prescindere anche da un giudizio di valore circa il livello del risultato poetico che, comunque, non appare del tutto trascurabile.
Il canzoniere del Toraldo si presenta, infatti, come esito d'un singolare esperimento artistico, esperimento che negli ultimi scorci del Cinquecento è ancora in grado di recepire quella volontà di rinnovamento che caratterizzò l'opera dei più importanti esponenti del manierismo meridionale.
Più della Veronica, che col suo fulcro ideologico fondato sul ruolo centrale assegnato al "concetto" a scapito della "locuzione" e dei suoi artifici, assegna al Toraldo una collocazione, affiancata, ma distinta, accanto a quella d'un Giulio Cesare Cortese, in una sorta di linea di problematico (perfino contradditorio) classicismo, è proprio L'Ortolano, nel quale probabilmente confluirono anche frutti di esperienze poetiche giovanili, forse antecedenti al dialogo sul sonetto, ad offrire l'immagine più decisamente "manierista" del nostro verseggiatore.
L'Ortolano si presenta innanzitutto come canzoniere, una raccolta di liriche che però vive già nella sua struttura un rapporto problematico col modello petrarchesco. L'esile vicenda amorosa che costituisce gran parte della sua materia non dispone i testi in una serialità d'impianto narrativo, ma li disperde in una impalcatura strutturata per generi poetici (sonetti, madrigali, capricci, canzoni, egloghe), con un'appendice eterogenea di quattro sonetti in cui il mondo dell'orto apre le porte al mulino (<<Il mugnaio>>) e al mare (<<Il pescatore>>).
Del canzoniere tradizionale conserva solo, come è per altro topico nel libro di poesia cinquecentesco, la rappresentazione della storia d'amore per un'unica donna, dal nome emblematico di Fiora, una storia costellata di desideri inappagati, ritrosie dell'amata, sue attenzioni per altri uomini, sdegni dell'amante. E spesso petrarchesco (o petrarchistico) è il motivo iniziale delle liriche, motivo che però, nel travestimento "ortolano", assume una valenza del tutto nuova. A mo' d'esempio, si legga questo madrigale (LXXIV) in lode delle fattezze di Fiora ove gli stilemi petrarcheschi d'apertura (<<erba e fior>>, <<bel viso>>, <<bianco seno>>) cedono presto il campo, in un taglio espressivo tra il serio e il faceto, al girasole, alla senape, alle rape, al prezzemolo, alla latttuga, alla borragine:

Rassomiglia la sua Donna ad un orto

Tutte herbe, e fior pregiati
Son nel bel viso tuo, nel bianco seno;
Gli occhi tuoi sono i Girasol beati;
Il tuo petto è il terreno
Ove le mamme son candide rape;
Il lazzo hai del senàpe;
Del petrosillo i fiati;
Non è più la lattuca, o la borrana
Di te tenera, e sana;
Orto in somma se' tu d'herbe divine;
Ma per me già non senza ortiche, e spine.

Questo testo, per altro, fornisce ulteriori elementi connotativi dell'operazione letteraria del Toraldo che, riplasmando il canzoniere classico in chiave "ortolana", punta alla creazione d'un genere nuovo, senza tuttavia infrangere i dettami della tradizione di cui utilizza, rivitalizzandoli, gli importi più preziosi.
Allora ecco comparire nel dettato lirico i lasciti della vetusta tradizione bucolica (alla quale sono tributarie le <<Egloche>>, e non solo) e della più recente "piscatoria" (si pensi ai sonetti finali, <<Il pescatore>>) nel particolare amore per un linguaggio ricco di tecnicismi e lessemi settoriali, apportatori d'un senso di concretezza ad una realtà che si offre nella maschera artificiosa del travestimento.
Emblematico, al riguardo, un doloroso canto di lontananza (II), ove al bosco e al gregge subentra l'orto e l'asino e ai salici e alle tamerici, la lattuga e la ruta:

Essendo la sua Fiora molto lontana

Fiora, Fiora ove vai? Tu<o> piè rifiuta
lasso quest'orto mio deh ferma ferma;
Senza te langue il petrosillo, inferma
E' la lattuca, e non hà odor la ruta;

Il buon sinapo ha sua virtù perduta
E questa terra tutta incolta, et herma
Le mie querele, i miei lamenti afferma,
E sol produce nappello e cicuta.

L'animal che vien meco à la Cittade,
Perch'io quindi ne traga il parco vitto
I cavoli portando, e le salate

Langue anchor'egli, e 'l cor quasi trafitto
Perchè non vede più la tua beltate
Guata il Ciel, mostra i denti, e n'hà dispitto.

O anche il sonetto XXXIV in cui il codice bucolico offre l'attacco idillico della grotticella e della sorgente atta a placare l'<<arida e calda sete>>, quale preludio d'una stravagante invenzione fantastica ove i vecchi topoi di Narciso alla fonte e della chioma rubata acquistano nuova accezione in una soluzione narrativa assolutamente inedita, del sapore quasi barocco, col pruno <<temerario>> che, invaghito della chioma di Fiora, ne ruba un capello, celebrato poi dal canto delle rane:

Sopra un Crine svelto alla sua Ortolana

Vedi tra dumi, e spine ivi secrete
Picciola grotticella in sè raccoglie
Onde pregiate sì che l'altrui voglie
D'arida infiamman tosto, e calda sete;

Quivi Fiora chinassi, e mentre liete
Labia v'immerge, e le chiare acque accoglie
Innamorato del bel crin le toglie
Prun temerario un fil ritorto in rete;

Ella partissi; indi le rane il crine
Vedendo il canto lor tutte ripreso
Concordi furo in ringratiar le spine,

Una tra l'altre fù, ch'io dir l'ho inteso
Il venero capel ceda, e s'inchine
A questo homai, ch'egli è dal ciel disceso.

Ma è ancora la chioma dell'amata a suggerire spunti che saranno cari alla lirica barocca, come il motivo del "pidocchio", arditatamente associato a quello della trebbiatura (Egloca prima, LXXXIII 124-26):

Sono i bei crin di Fiora à punto come
Some di spiche, e quando si spidocchia
Par che per torne il gran pesti le some

Motivo che fa il paio con quello della "pulce" del singolare epicedio (LXIX):

Nella morte di un Pulce

Ah, non uccider, Fiora,
Quel pargoletto nero
Pulce d'Amor guerrero;
Che nel tuo petto ove il suo stral fin hora
Mai non fè piaga ei fella;
Tra l'unghie il premi, e sì vuoi pur ch'e' mora36:
Dategli tomba amanti, ove sia scritto
Qui Amor giace il buon soldato invitto.

Ancora al gusto tutto secentesco sembrano preludere poi certe "acutezze", come quelle che presiedono il madrigale LXXIII:

Specchio rotto in sette pezzi

Lo specchio che un sol volto
Di te mostrava, ecco ne mostra sette
Poi ch'egli si rompette;
le zucche e i porri ch'hai poc'anzi accolto
Più sette volte anchora,
V'appaion dentro, ò Fiora;
Ben fè chi 'l rotto vetro hà poi raccolto;
Fan le tue zucche, i porri, e 'l tuo bel viso
Moltiplicati un Orto, un Paradiso.

O anche il LV ove, in un dettato trapunto di rime tecniche e richiami petrarcheschi, le sofferenze dell'amore si trasmutano nella inaspettata clausola, con la lode dell'<<occhio negro>> di Fiora:

Loda l'occhio negro della sua Don(n)a

Ahi chi m'uccide? io moro
Non per che Flora mia da me sia lunge;
Ch'io presso a lei dimoro;
Nè 'l cor m'assale, e punge
Sua crudeltà, ch'ella il mio amore apprezza;
Nè tema avvien, che gelosia m'apporte,
Che i temerari amanti ella disprezza;
Chi m'uccide, o ria sorte?
Sì, sì, ne l'occhio negro è chi dà morte.

La lode delle bellezze di Fiora è per altro tema ricorrente nella lirica amorosa dell'Ortolano e si offre in una ricca gamma espressiva che va dalla ripresa di eleganti fraseggi petrarcheggianti (<<Fiora infiora / Il bel volto, il bel sen, che m'innamora / Di vaghi gigli, e rose anche odorate>>)37, fino a riecheggiamenti della tradizione rusticale d'una Nencia da Barberino38, ad esempio, ovviamente rivisitata in chiave "ortolana", come nell'encomio amebeo pronunciato da Vangone e Iannello nell'Egloca prima (LXXXIII 15-20, 136-47, 160-62):

VANGONE.                                                                             Ne gli occhi di mia Don(n)a Amor si specchia

                     E s'ella avien, che pianga, ogni sua stella
                     Ciascun direbbe d'acqua nanfa è secchia.

IANNELLO.                                                                                 Non ha gli occhi turchini una vitella

                     Come li ha Fiora mia, nè le civette
                     Sfavillanti gli volgon sì com'ella.

                     [...]

I.                                                                                            Di lei le mamme prendon senza tacca

                     Come quando son gravide di latte
                     Van pendolone quelle de la Vacca.

V.                                                                                           Le mamme sue, se miri ben, son fatte

                     Come quel cuoio, che s'accorta, e slunga,
                     Onde lo spagnolin fa le zabatte.

I.                                                                                            Tosto che de la festa il mattin giunga

                      Ella tutta adobata co' i coralli
                     Ch'ornan la gola avien, che 'l mi pu(n)ga.

V.                                                                                          Se mai la veggio star tra i giochi, e balli

                      Ecco m'aventa al cor mille ferute.
                      E sempre Amor le grida dalli dalli.

                     [...]

I.                                                                                          Fiora mia; Fiora il tuo bel piè m'ancide

                     O che palese ignudo, o che secreto
                     Ne la scarpetta il miri anco m'uccide.

E ancora una volta certi motivi sembrano preannunciarre esiti secenteschi e, particolarmente, nella scrittura poetica d'impianto parodico-popolare e d'espressione linguistica dialettale: pensiamo a taluni singolari riscontri con versi della Tiorha a taccone di Sgruttendio-Cortese, ove riapparre il paragone degli occhi della donna con quelli della civetta e, in tramutazione comica, il piede nella scarpetta (Corda primma, III 5-8)39:

Ha l'uocchie de cefèscola o d'arpia,
Ha li capille come l'ha Protone;
No perde chiatto ha dinto a lo scarpone
Che camminanno piglia meza via.

Calchi petrarcheschi, prestiti dal dettato bucolico e rusticale, dunque, ma anche e, soprattutto, apporti della tradizione erotico-priapeica. Quasi tutta la lirica amorosa dell'Ortolano è pervasa da una massiccia presenza di metafore erotico-sessuali, tipiche della scrittura poetica di impianto priapeico40 dal (per rimanere ai più noti esempi cinquecenteschi) Tansillo del Vendemmiatore, ai Priapea di Niccolò Franco.
In questa ottica assume trasparenza e coerenza strutturale il sonetto XIII, esplicitamente erotico fin dalla didascalia (<<Un novello sposo ne' primi assalti notturni rimase ferito nella parte, che dovea essere feritrice>>), a prima vista quasi fuori luogo in una sequenza di sei componimenti (XI-XVI) dedicati a Fiora:

Tu sei nume de gli Orti ove entrar puoi
In battaglia senz'elmo, e senza mazza;
Che ne gli Orti non v'è piastra, o corazza;
Nè cosa, che risista à i colpi tuoi.

Perchè gisti a pescar? Se fusti poi
Tra gli scogli ferito, ove si guazza
Il mar di là da le colonne; pazza
La tua mente hor è ben se te n'annoi.

Gli è ver ch'esser piagato al primo strale,
E squarciato portarne il volto vago
Non è cosa da por tosto in non cale:

E più de' danni tuoi ridente, e pago
Sentendo ogn'huom, che dice il costui male
Ricusci il Sarto poi col filo, e l'ago.

Il sonetto contappone, rispettivamente nelle due quartine, due diversi rapporti sessuali, quello "vaginale", simboleggiato dalla battaglia di Priapo, guardiano degli orti, ma anche dio della fecondità, e quello "anale", espresso dall'esercizio della pesca.
Secondo Toscan41, péscare, assumendo sovente, presso i poeti burleschi, il significato dell'omografo di pèscare, denominale di pèsa (metafora oscena per 'natiche'), esprime l'atto sodomitico, cui qui si allude anche nell'utilizzo del verbo guazzare (6), chiaramente connesso alla locuzione <<a guazzo>>42 che nel dettato giocoso compare nel significato di 'a tergo'.
Riferimento osceno al rapporto anale potrebbe contenere, a voler fruire delle indicazioni esegetiche di Toscan, il madrigale LXXIII, sullo specchio infranto, ove l'allusione all'ano si potrebbe celare nelle metafore dello specchio43 e del numero sette44. Sicuramente di più immediata identificazione appaiono invece le ricorrenti metafore "ortolane" dell'atto sessuale (piantare, cuocere, macinare, far farina), dell'organo maschile (piantello, radice, cedruol, augellin, coda, gallo, rapa, porro, mulino), di quello femminile (solco, orto, spinosa eringe, terreno, insalata, rosa, gabbia, paradiso) e dello sperma (seme, irrigante umore, bianco umore).
Non solo però è l'amore, parodizzato nelle sue connotazioni più idealizzanti ed espresso invece con maggiore autenticità nell'eros celato nelle metafore "ortolane", a fornire la materia di elaborazione poetica al Toraldo. Anche il tema degli affetti e dei rapporti familiari trova luogo nell'Ortolano; e sarò allora la delicata musa quattrocentesca, tutta napoletana, d'un Pontano ad offrire singolari suggestioni, come nella tenera ninna-nanna del Capriccio LXXVI, intonata su echi delle Neniae, o il buon senso etico a puntualizzare la rampogna per la vita sgangherata d'una famiglia con un padre indolente, una moglie aggressiva e un figlio scapestrato (son. XIX):

Presenta à tre persone tre herbe giovevoli à tre loro infermità

Sete voi tre, marito, moglie, e figlio
Ecco Ortica, papavero, e verbena
Tre doni arreco, d'esse ogni ogn'herba è piena
Di tal virtù, che 'l Mondo inarca il ciglio:

Fa l'Ortica l'huom desto, e di consiglio,
Dà il papavero sonno, e rasserena
L'altra l'animi sì che l'ira affiena;
Onde le case van sempre a scompiglio.

Messer lo sonnacchioso usi l'Ortica
Tu, il papavero tu, folle ragazzo;
E la verbena tu, Monna pudica;

Così con l'herbe, ch'io raccoglio in mazzo
Desto il marito fia, la moglie amica
Di tutti, e dormirà quel figlio pazzo45.

Ecco dunque, abbandonata la lirica d'amore, le sue pose sentimentali e le sue pulsioni erotiche, aprirsi l'esperienza poetica alle voci del quotidiano, in versi che, attraverso il travestimento "ortolano", esprimono una realtà viva e pulsante.
Ed è dapprima l'attualità a suggerire occasioni di scrittura poetica, ove si tratti di celebrare qualche iniziativa di pubblico interesse, quale, ad esempio, il risanamento delle paludi napoletane (X), o che si renda espressione di qualche evento della vita politica - e si legga, al riguardo, il sonetto XXXIX (Dicendosi, che 'l Sig. Duca di Fries, sia per andare in Fiandra) -, o ancora che si spalanchino le porte alla cronaca teatrale, come nei componimenti sulle polemiche seguite alle prime rappresentazioni napolatane, intorno al 1600, della tragedia Crispus di Bernardino Stefonio (XLII, XLIII, XLVI, XLVIII).
Portavoci della cronaca del tempo si rendono poi le liriche indirizzate a quegli autorevoli personaggi dell'aristocrazia e della cultura che già si sono ricordati: tra questi una particolare menzione va all'anziano marchese di San Lucido, Ferrante Carafa, sul quale, scherzosamente, il Toraldo sembra prestare orecchio a certe dicerie che ne avevano compromesso l'immagine pubblica, come quella delle sue attitudine amorose (LIII):

Amori del Sig. Marchese di S. Lucito

Di Ruscellina amante, e forse amato
Vive Lucidio l'Ortolan pregiato;
Da Lucidio si chiama
Vinta, e ferita Arnuccia
L'Ortolana gentil di chiara fama;
Quei l'honora, e non l'ama
Ella se ne corruccia,
E per dargli martir
Opra, che Ruscellina appena il miri.

Evidentemente non apprezzate però dalla giovane ultima moglie, Faustina Capecelatro, che preferiva "danzare" con altri cavalieri più prestanti (LII):

Al Sig. Marchese di Santo Lucito

Teco in danza non vuole
Dimenarsi costei,
Però nel ballo hoggi negletto sei:
Ella ama altre carole,
Altri accenti e più bei;
Vedi ch'ella tel dice
Con la vista d'Amore ambasciatrice.

Accanto a questa lirica, ove l'encomio si affianca alla facezia, si collocano poi le composizioni dominate da una più forte tensione polemica, allorquando l'approccio al reale induce il poeta al pronunziarsi su aspetti di quel malessere sociale che egli dovette, in qualche caso, sperimentare dolorosamente in prima persona.
Sono i componimenti in cui il Toraldo affronta, nel solito mascheramento "ortolano", il tema del cattivo esercizio della giustizia, con i magistrati che illegittimamente producono vessazioni contro i più deboli, come nel sonetto XXII (Piange l'Asina toltagli dal Giustiziere), in cui un poveraccio si lamenta d'esser stato ingiustamente privato dell'asina con la quale portava al mercato le sue derrate, o nell'Egloca seconda (LXXXIV) ove Micone, accusato iniquamente di aver rotto gli argini d'un ruscello per deviarne il corso nel suo orto, condannato e finito in prigione, denuncia all'amico Tonello la soperchieria esercitata su di lui da chi è ricco e potente (vv. 43-54, 61-63):

MICONE                                                                           Ma vedi sorte l'Ortolan, che molto

Può ne la nostra Villa, et è sì ricco
Ben, c'abbia l'orto sterile, et incolto

Invidioso de l'humor ch'io licco
tentò che fuor dal natural suo giro
Il fiume lasci il proprio letto in sicco;

Onde possenti, ingiuste mani uniro
Incontro al rio ripari, argini, e fossi
E 'l corso natural sì gl'impediro:

Il fiume suo malgrado ecco drizzossi
Per altro calle; ma rompendo un giorno
Gli argini opposti, al letto suo tornossi;

[...]

E perchè de la Villa egli è Castaldo
Dice, ch'io ruppi i novi argini fatti,
E però tiemmi in ria prigion qui saldo.

Ma la denuncia assume toni ancora più violenti quando si rivolge contro chi detiene il potere e lo gestisce, lasciandosi guidare non da un senso di equità, ma da favoritismi personale (vv. 76-84):

TONELLO.                                                                          Da l'invido Castaldo tuo nemico

Meraviglia non prendo, ho meraviglia
Del Podestà, ch'à tal Castaldo è amico;

Non dovrebbe egli in mano haver la briglia
Sì, che 'l caval dritto sen corra, e vada?
Perciò Micone, inarco io sol le ciglia.

MICONE.                                                                           O Tonello, Tonel, chi tien la spada

Hoggi sopra le genti, à punto à punto
E' come chi la falce ha sulla biada.

Bastino, dunque, questi due esempi a segnalare, in un felice connubio col dettato più propriamente ludico, la presenza nell'Ortolano d'una poesia "seria"46, che trova i suoi momenti di più felice realizzazione quando si fa espressione di condanna d'una società in cui i valori civili sono sostituiti dal potere del denaro (LXXXVI 93-98):

Hoggi insomma convie(n) ch'ogn'un s'industri
A far danari, à torto, o dritto sia

Co i danari i fachin si fanno illustri;
Io che non ho danai ve' sorte ria,

In va(n) vò à questo Inferno, onde so(n) tutti
Che monete non han scacciati via.

Una società quindi che vede, a parer del Toraldo, il suo emblema nella categoria degli usurai contro i quali il Nostro, probabilmente colpito sul piano dell'esperienza personale, indirizza rime di feroce risentimento (LVII e LVIII):

Contra i maledetti usurieri

Ahi chi gli orti ci toglie?
Chi 'l figlio? chi la moglie?
Lo Ciel? nò, ch'è suo don ciò, c'habbiam noi;
Cesare? nò, che dargli è ben la vita;
La legge? nò son giusti i voler suoi,
Chi dunque? gente ardita,
gente dal buio à lo splendore uscita.
 
 
 

A i saccenti usurieri

O voi, che manigoldi,
Che barbieri, che schiavi
Haveste i padri, e gli avi;
Voi che fuste Ortolan rubando soldi;
De la tribù di Giuda
Di pietà razza ignuda,
tanto io vi miro savi
Così costanti, e saldi,
Che non pur sete Baldi, ma Ribaldi.

Questo, estendibile anche ai quattro sonetti finali, nel differente, ma omologo, codice del <<mugnaio>> e del <<pescatore>>, il panorama dell'esperimento poetico di Vincenzo Toraldo che, attingendo a piene mani dalla tradizione classica e moderna, ha puntato ad una creazione letteraria assolutamente nuova, ideologicamente lontana dalla poesia d'evasione del dettato bucolico, ove il mondo della natura s'offriva come cifra edenica del canto poetico e dell'idoleggiamento del sentimento d'amore.
L'"orto" del Toraldo è invece espressione simbolica d'una umanità che vive la sua specificità nell'impegno quotidiano d'una vita da spendere secondo autentici valori, e, in primis, il lavoro (XVIII I-7):

Messere, il pur dirò se' tu il bel tondo
Egli è il tuo l'orto, et anco io non conosco
Se puoi dirti Ortolano, o pur di bosco
Habitatore, o che vuoi far nel Mondo,

Quando oprar dei tu de la zappa il pondo
Ragioni d'uccellare, o qualche tosco
Versaccio canti, [...].
 

NOTE

1  G.B. MANSO, Vita di Torquato Tasso, a cura di B. BASILE, Roma, Salerno Editrice, 1995, p. 266.
2  Occorre almeno segnalare la sezione dedicata al Toraldo nella preziosa antologia curata da G. FERRONI e A. QUONDAM, La "locuzione artificiosa". Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell'età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 165-77, e le fini osservazioni di G. PARENTI, Vicende napoletane del sonetto tra manierismo e marinismo, in <<Metrica>>, I 1978, pp. 225-39.
3  Gaspare Toraldo, figlio di Giovan Francesco ed Eleonora Caracciolo, fu <<non meno valoroso nel mestiere delle armi che nelle belle lettere erudite>> (L. CONFORTI, I napoletani a Lepanto, Napoli, Casa Editrice Artistico-Letteraria, 1886, p. XXXVII). Tra le imprese militari, si ricorderà la partecipazione alla battaglia di Lepanto; delle sue opere letterarie, i Discorsi cavallereschi. Ne' quali copiosamente si ragiona di tutti quegli esercitij così del corpo, come dell'animo, che necessariamente a compito cavaliero si ricercano, e lo fanno riguardevole, e chiaro, Napoli, O. Salviani, 1573.
4  Noto come principe di Massalumbrense, fu valoroso soldato al servizio della corona spagnola e consigliere collaterale del Regno. Dopo la morte di Masaniello, assunse la carica di Capitano generale del Popolo napoletano; accusato (ingiustamente) di tradimento, in seguito all'assalto alla città operato da Giovanni d'Austria, fu condannato a morte e giustiziato il 22 ottobre 1647 (cfr. Toraldo Francesco, in Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, serie 19. Condottieri, Capitani, Tribuni, a cura di C. ARGEGNI, Milano, Ist. Editoriale italiano-B.C. Tosi 1937, vol. III p. 317).
5  Istituita e guidata da Giulio Cesare Cortese intorno al 1586, riunì alcuni dei più prestigiosi intellettuali napoletani di fine secolo (dal Costo al Regio, al Marino, ecc.) e fu soppressa da Filippo II nel 1593 (cfr. M. MAYLENDER, Storia delle Accademiche d'Italia, Bologna-Rocca di S. Casciano, L. Cappelli Edit. Tip., v, 1930, p. 280.
6  Fondata nel 1594 da Muzio Sforza Colonna, marchese di Caravaggio: il Toraldo vi avrebbe partecipato trattando dell'arte della guerra (cfr. A. BARBA, L'opera scientifico-letteraria del Card. Federico Borromeo, Milano, Vita e Pensiero, 1931, p. 20).
7  S. QUATTROMANI, Scritti, a cura di F.W. LUPI, Rende, Università della Calabria, 1999, pp. 36-39.
8  E' il sonetto Spirto del mondo Amor, mente del Cielo, in Lezione recitata dal c. Francesco Maria Vialardi Gentil'huomo del ser.mo Principe Ernesto Arciduca d'Austria nell'Accademia publica Fiorentina, Genova, G. Bartoli, 1590, p. 5.
9  <<il Signor Francesco Maria Vialardi, il quale per le sue onorate virtù è assai caro à molti gra(n) Principi italiani, e stranieri, suol dire, che il far sonetti è simile al letto di Procuste tiranno>> (V. TORALDO D'ARAGONA, La Veronica o del sonetto, Genova, G. Bartoli, 1589, pp. 13-14).
10 R. Alberti dedicò un capitolo al padre Gaspare e in un altro (Al gentilissimo sig. Girolamo Magagnati) inviò saluti a Vincenzo: <<Fra tanto salutare a nome mio / Il mio signor Don Gasparo Toralto / Che grandemente riveder desio. / Al signor Don Vincenzo ch'è troppo alto / Rispetto a voi che siete assai grandino, / Con una scala darete un assalto. / Ditegli ch'io sin di qua me gli inchino>>. Sull'Alberti e i suoi rapporti con i Toraldo cfr. A. BORZELLI, Notizia di Romano Alberti pittore e poeta difensore di Torquato Tasso, Napoli, Federico e Ardia, 1919, p. 10.
11 Invero Angelo Borzelli (Gianbattista Manso, Napoli, Federico e Ardia, 1916, p. 59) attribuisce a Fabrizio Marotta (che l'avrebbe scritto per la poetessa Vittoria Speranza di Bono) il sonetto encomiastico che G.B. Manso dice aver il Toraldo composto per lui: Restar le figlie di Pierio a prova (G.B. MANSO, Poesie Nomiche, Venezia, F. Baba, 1635, p. 262).
12 Cfr. i sonetti Fur le favole prime un'ombra, un velo (Toraldo) e Novo Protheo son'io (già nol ti celo) (risposta del Marino), in G:B. MARINO, La Lira, parte I, Venezia, G.B. Ciotti, 1614, p. 242.
13 Cfr. i sonetti Degno ti fa presto a i celesti giri (Stigliani) e Tento dell'altrui lagrime, e sospiri (risposta del Toraldo), in T. STIGLIANI, Canzoniero, Roma, F. ZANNETTI, 1623, p. 410.
14 Alla sig. Margarita Sarocchi gloria di Napoli sua patria: No mai nel picciol'Orto io matutine (son.: V. TORALDO D'ARAGONA, L'Ortolano, Lione, s.e., 1603, p. 12).
15 Al Sig. Vincenzo Billotta, il quale per l'arme fa un Serpe con due teste. Sotto la stella il curvo aratro i campi (son.; ivi, p. 21).
16 Contra chi diceva male del Crispo: Ove di Costantin l'invitto figlio (son.; ivi, p. 23); Un certo uomo non intendendo il Latino diceva male della Tragedia Latina del P. Stefonio: L'herbe, le piante onde Stefonio hà pieno (son.; ivi, p. 24); Cert'huom dicendo male del Crispo voleva calzarsi i coturni tragici: se scoppiò per le risa (madr.; ivi, p. 26); L'ombra di Fedra, che compare nella prima scena del Crispo, par che non gli dia molto contento: Esser sogliono à gli Orti (madr.; ibid.).
17  Al Sig. Marchese di Santo Lucito: Teco danzar non vuole (madr.; ivi, pp. 27-28); Amori del Sig. Marchese di S. Lucito: Di Ruscellina amante, e forse amato (madr.; ivi, p. 28).
18 Al Sig. Fulvio Caracciolo di Pietr'Antonio, con cui s'era esercitato in lodevoli essercitij: Caro Ortolan, con cui, col suo soccorso (son.; ivi, p. 21); Fulvio fu figlio di Pietro Antonio Caracciolo, Governatore di Reggio Calabria nel 1591-1592.
19 Al Sig. Hettore della Mara, che tra le sue armi tiene il rastello: Non dorme il tuo rastel, le glebi herbose (son.; ivi, p. 18).
20 Al Signor Principe di Conca Grande Ammiraglio: Se ben son'io Ortolano, e voi Ammiraglio (son.; ivi, p. 14).
21 Dicendosi che 'l Sig. Duca di Fries sia per andare in Fiandra: Aratro, zappa un tempo scudo usbergo (son.; ivi, p. 22).
22 Dell'Historia naturale di Ferrante Imperato napolitano, Libri 28, Nella quale ordinatamente si tratta della diversa conditione di miniere, e pietre. Con alcune historie di piante, et animali, sin'hora non date alla luce, Napoli, C. Vitale, 1599, pp. 3-4.
23 <<Non dicevate à questo modo pochi dì sono, quando trattandomi dell'Artoleone favola boschereccia, non anche finita, pure del vostro Risvegliato, mi [dice]ste, che due anni sono, ch'egli s'affatica intorno a quest'opera, ed à pena hà finito il quarto atto>> (TORALDO D'ARAGONA, La Veronica, cit., p. 29).
24 P. GENTILE RICCIO, Dei vanti del Sebeto, Genova, G. Pavoni, 1619, p. 15.
25 PARENTI, Vicende napoletane, cit., p. 237.
26 G. FERRONI, Vincenzo Toralto, in La "locuzione artificiosa", cit., p. 166.
27 <<D. Vincentius Toraldus de Aragona patritius Neap(olitan)us [...] vetustas ac recentiores poetas imitatus, quorum aliqui pastorem, alli vero pescatorem, et similia conscripserunt, edidit Italicis rithmis librum, quem vocavit Hortulanum, qui impressus est Lugduni 1604, in 12>> (BARTOLOMEO CHIOCCARELLO, De Illustribus Scriptoribus, ms. XIV A 28, Napoli, Biblioteca Nazionale <<Vittorio Emanuele III>>, c. 224v); il Chioccarello trascrive erroneamente la data di edizione, che è 1603.
28 Anche il Minieri Riccio, il quale probabilmente non ha mai visto l'opera, dà l'errata data di pubblicazione (1604), ricavandola dal Chioccarello (C. MINIERI RICCIO, Memorie storiche degli scrittori nati nel regno di Napoli, Napoli, Tip. dell'Aquila di V. Puzziello, 1884, p. 354.
29 In Italia si rinvengono solo due esemplari, conservati l'uno nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, l'altro nella Biblioteca Nazionale di Torino.
30 Quando la didascalia è assente si dà, in tondo, l'incipit del componimento.
31 Titolo nel testo.
32 Nel testo.
33 Titolo corrente.
34 Titolo corrente.
35 <<Lo mior[mio] cor, che tu l'hai>> (LXXIX 28); <<Ne sugge, ahi lasso, e sonbra[sembra] altrui, ch'odori>> (XXV 7).
36 Nella stampa erroneo <<ch'è mora>>.
37 L'Ortolano, XI 6-8.
38 Alla Nencia sembrano rapportarsi i paragoni col mondo animale: <<Le labra rosse paion di corallo, / et havi drento duo filar' di denti / che son più bianchi che que' del cavallo>> (ott. 41-3), nonchè la rappresentazione della donna danzante: <<Ell'è dirittamente ballerina / che-lla si lancia com'una capretta, / et gira più che ruota di mulina / et dassi della man nella scrpetta>> (ott. 24 I-4). Circa il paragone tra gli occhi di Fiora e quelli di una vitella il rimando più immediato è probabilmente al Tyrsis di L.B. ALBERTI (<<Mea mia dolce, dai capei de l'oro / o saporita dal viso rosato / che hai quegli occhiazzi più bei che 'l mio toro>>) debitamente segnalato da Rossella Bessi nella Introduzione (p. 41) alla sua edizione della Nencia da Barberino (Roma, Salerno Editrice, 1982); l'utilizzazione della <<vitella>> nella descrizione della donna rimanda però al Poliziano: <<ma più superba assai ch'una vitella>> (Stanze, I 117 2). Sui topoi dello stile rusticale, classico il contributo di P. ORVIETO (Strutture descrittive ed espressioni antifrastiche) nel suo Pulci medievale. Studio sulla poesia volgare fiorentina del Quattrocento, Roma, Salerno editrice, 1978, pp. 106-70.
39 La tiorba a taccone de Felippo Sgruttendio de Scafato, in G.C. CORTESE, Opere poetiche, ed. critica con note e glossario a cura di E. MALATO, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1967, I p. 514.
40 Sulla tradizione priapeica, cfr. E.M. O'CONNOR, Dominant themes in Greco-roman priapic poetry, Ann Arbor, University Microfilms International, 1984, e ID., Symbolum salacitatis: a study of a god Priapus as a literary choracter, Frankfurt a.M., P. Lang, 1989. Sulla poesia erotica rinascimentale cfr, A. MARZO, Note sulla poesia erotica del Cinquecento, Lecce, Adriatica, 1994.
41 Cfr. J. TOSCAN, Le carnaval du language: le lexique des poètes de l'équivoque du Burchiello à Marino (XV-XVII siècles), Lille, Atelier reproduction des thèses-Université de Lille, 1981, III p. 1609, par. 1165.
42 Ivi I p. 603, par. 417.
43 Ivi II p. 1080.
44 Ivi II p. 934.
45 Nel sonetto precedente, Riprende un padre di famiglia, il Toraldo aveva già presentato il singolare terzetto: <<Quando oprar dei tu de la zappa il pondo / Ragioni d'uccellare, o qualche tosco / Versaccio canti, e lei, c'ha l'occhio losco / Monna tua poco fila ama il crin biondo, / Per terzo entra il garzone in questa danza / Mangia, divora, e mena a tal sua vita, Che misero può dirsi il vostro Ortaccio>> (XVIII 5-11).
46 Alla tipologia "seria" andranno ascritti i due sonetti "sacri", Nella natività di N.S. (XLI, XLII), modesto tributo ad una rimeria topica, che non poteva risultare assente nel mondo composito dell'Ortolano.

 
 
VINCENZO TORALDO D'ARAGONA
INDICE:
|  Presentazione  | 
Vincenzo Toralto di G. Ferroni e A. Quondam  | 
I'Ortolano di V. Dolla La Veronica di B. Weinberg  |
|  La Veronica di F. LecercleLa Veronica di G. Parenti  |
Lettera di S. Quattromani   |  Sonetto a G.B, Manso  |
Sonetto di Tommaso Stigliani  |  Sonetto a risposta di G.B. Marino  |