Vincenzo Toralto

da "La 'Locuzione artificiosa' -
Teoria ed esperienza della lirica
a Napoli nell'età del manierismo"
Bulzoni, Roma, 1973, pagg. 165 177

di Giulio Ferroni e Amedeo Quondam


Vincenzo Toraldo (la forma più corretta è Toraldo) d'Aragona, gentiluomo napoletano, amico del Quattromani, di Marcantonio Carafa (che nel 1587 tenne a battesimo suo figlio), del Marino (un suo sonetto si trova nella prima parte della Lira mariniana), prese certamente parte alle riunioni dell'Accademia degli Svegliati, fondata intorno al 1586 e guidata da Giulio Cortese. Da una sosta a Genova, ospite di Alberico Cybo Malaspina, principe di Massa e Carrara, in un viaggio da Napoli verso la Spagna, trasse spunto per scrivere La Veronica o del sonetto, stampato a Genova sul finire del 1589. Si tratta di un dialogo in cui un gentiluomo napoletano e uno genovese discutono sulla struttura e sulla materia del sonetto, partendo dalla lettura di un sonetto dedicato alla signora genovese Veronica Grimaldi da un certo accademico <<Risvegliato>> (potrebbe trattarsi di qualche membro dell'Accademica degli Svegliati, forse il Toralto stesso: l'unico dato di cui ci si potrebbe servire per identificarlo è comunque il riferimento che nella Veronica si fa ad una sua favola boschereccia inedita dal titolo Artoleone).
il proposito cortigiano di lodare la virtù e la bellezza della gentildonna genovese si collega subito a quello di rendere ragione delle caratteristiche generali del sonetto, di ciò che lo distingue da altre forme letterarie (in particolare il Toralto si sofferma sulla tragedia), della particolare difficoltà di una sua resa perfetta. La preoccupazione centrale del Toralto appare quella del rapporto tra il <<concetto>> da esprimere (inteso nel senso di <<pensiero>>, di <<contenuto>>) e la struttura fissa del sonetto: come livello ottimale gli si presenta quello di un perfetto equilibrio tra il movimento concettuale del componimeto e il suo movimento ritmico; la difficoltà del sonetto sta per lui proprio nell'attribuire al concetto di una <<misura>> tale da non risultare sproporzionata al recipiente costituito dai quattordici versi. Le osservazioni sulla costruzione delle strofe e sugli elementi verbali (cfr. nei brani da noi riportati le critiche al Casa) sono nel Toralto sempre collegate ad una attenzione al significato concettuale, rispetto al quale la lingua appare come un <<vestito>> e un ornamento. Perfino un elemento tecnico come l'enjambement viene dal Toralto giustificato in base ad una sua possibilità di operare concettualmente sull'intelletto del lettore (l'enjambement farebbe infatti pensare all'eternità, come si spiega a p. 23 della Veronica: <<Voi ben sapete che la natura nostra abborrisce la corruzione; e per lo contrario ama e desidera l'eternità; leggendo adunque un sonetto ch'in ogni verso ci rappresenti il fine, ciò è la corruzione, l'intelletto nostro patisce, ed all'incontro leggendone un altro ch'abbia i versi entranti l'uno nell'altro, gode, perchè da quelli si promette non so che di eternità>>).
La posizione del Toralto mostra stretti contrasti con quella del Cortese, che, già prima della pubblicazione dei suoi scritti, doveva aver ampiamente diffuso le sue idee sulla poesia nell'ambiente degli Svegliati: contatti evidenti non soltanto in punti particolari (per cui cfr. nel nostro testo le nn. 11, 16, 19), ma soprattutto nella preoccupazione centrale di mettere in evidenza il peso del <concetto>> intellettuale, subordinando ad esso totalmente la <<locuzione>> e gli <<artifici>> relativi. E' una posizione antitetica a quella de Il Carrafa, eslpicita anche nell'equilibrio che il Toralto mostra nei riguardi dei due oggetti della recente querelle, l'Ariosto e il Tasso: nella Veronica si accenna infatti all'Ariosto con grandi elogi, mentre, quanto al Tssso, pur con un riconoscimento dei suoi meriti di grande poeta <<eroico>> si tende a svalutarne la produzione lirica (e in particolare i sonetti), proprio perchè in essa appare prevalente un lavoro sull'<<elocuzione>>, a scapito di una ricerca di <<novità>> nei <<concetti>>. Quest'idea di <<novità>> nei <<concetti>> non si vuole però come diretta ricerca di oscurità, ma afferma l'esigenza di un livello di esterna chiarezza, per cui il sonetto dovrà mostrare una doppia faccia: un aspetto esteriore facile e piano (proprio perchè la <<locuzione>> non tenderà a mascherare il discorso con troppe artificiose evoluzioni), e un aspetto interno misterioso e profondo, che sarà manifesto solo ai savi capaci di penetrare intellettuamente all'nterno del <<concetto>> (e, tutto sommato, si tratterà di misteri ruotanti attorno ad una corrente ed ovvia metafisica dell'amore e del rapporto bellezza-virtù, cui ampio spazio è dedicato nella Veronica). Il movimento intellettuale del <<concetto>> si riduce d'altra parte (cfr. il passo riportato a p. 175) ad una scansione di <<argomenti>> entimematici, secondo un procedimento integralmente retorico: il <<concetto>> non aspira insomma alla <<verità>> della filosofia, ma soltanto al ragionamento <<persuasibile>> della retorica. Si comprende così come l'interesse al <<concetto>> non sia per il Toralto il corispettivo di un impegno filosofico, di una volontà di portare la poesia al livello della <<scienza>> (come invece tentava di fare il suo ispiratore Cortese), ma si risolva nell'idea di un classicismo teso a misurare lo <<stile>> sul modello della <<materia>> del discorso, limitata quest'ultima all'elaborazione di variazioni all'interno di una materiale concettuale già dato, già definito dalle più generali norme dell'inventio retorica e dei rapporti cortigiani.
Dell'unica edizione esistente, La Veronica o del sonetto, Genova, Bartoli, 1589, abbiamo riportato le pp. 9-18 e 30-37.

Se in fronte al nome vostro impresso è il vero,
E in voi vera onestà, beltà verace
Con ragionar umilmente audace
Congionte sono e con valore intiero;

Qual meraviglia, o de le donne altiero
Divino mostro, se per voi mi sface
Santo ardor sì, che mai non trovo pace
Co 'l grave duol, s'in voi non penso o spero?

Questa adunque mortal già morta spoglia
L'alma abbandona, e in voi brama ricetto,
Ardendo ogn'or d'onesti, alti desiri.

Deh, con vera pietà sì vero affetto,
Donna immortal, gradite, e non vi doglia,
Che virtù vera anco amor vero ammiri.

Genovino. Bello è veramente il sonetto1, ma non so conoscere in esso quei misteri nè quella dottrina che dite, anzi mi pare ch'egli sia facilissimo e chiaro in modo tale, che la signora Veronica non averà fatica d'intenderlo.
Partenopeo. Non dite così, ché, quamtunque il sonetto sia chiaro, considerandolo solamente nella scorza, come si dice, non è però che in lui non istiano rinchiusi sentimenti molto dotti e belli; poichè, trattando delle rare qualità d'una donna veramente reale e dell'amor grande ch'il poeta le porta, e non bastando i quattordici versi a spiegare chiaramente il tutto, gli fu di mestiero gir esprimendo quello ch'egli aveva nell'animo con vocaboli efficaci e significanti, de i quali di mano in mano s'è andato servendo.
Genovino. In questo modo sarà tanto maggiormente oscuro questo sonetto quanto più mostra d'esser chiaro, poichè va celatamente tante cose coprendo; nè per me so considerare perchè a una donna abbia voluto il suddetto poeta scrivere con tanta oscurità.
Partenopeo. Avete il torto; perchè, in quanto appartiene al Risvegliato, d'essere ben inteso dalla sua donna, è facilissimo il sonetto; ma dall'altra parte è misterioso in quanto alle cose ch'egli vuol dimostrare a i dotti ed intendenti; e in questo modo si compongono i buoni sonetti; nè per altra cagione io soglio dire che fra tutte le poesie (non solamente liriche) il sonetto, a mio giudizio, sia il più difficile componimento che far si possa.
Genovino. Gran cosa mi dite, se pur no'l fate per farmi ridere o pure per esercitarvi l'ingegno, difendendo così gran paradosso.
Partenopeo. Vi dico veramente l'opinione mia, già ch'io soglio lasciare i paradossi a coloro che, per mostrare d'essere dialettici, con un argomento in barraba o celarent, vi vogliono provare che la neva sia nera2.
Genovino. Mi dite cosa piena di maraviglia; onde, se bene ho animo di pregarvi che m'isponiate il sonetto per dichiararmi qual cosa abbia voluto l'autore esprimere in esso, pure desidero che mi facciate prima piacere di mostrarmi le ragioni, che vi muovono a tener tale opinione.
Partenopeo. Altro non è il mio desiderio che di compiacervi; e perciò brevemente dirovvi qualche ragione, che al presente mi va per la memoria, poi che, trovandomi deviato da' miei studi, come vedete, per altre occasioni molto differenti, ed essendo parimente lontano da' miei libri, non potrò far altro che dirvi quello ch'adesso mi viene in mente.
Genovino. Mi basterà questo; ed io, per istuzzicarvi, al meglio che mi fia possibile, anderò contradicendo alle vostre ragioni, se non vi darò noia.
Partenopea. Dite pur liberamente quanto vi occorrerà, ch'al tutto, potendo, vi darò sodisfazione; e per incominciare a sodisfarvi dirò così. Il sonetto viene così nomato dal suono picciolo, bisognando che sia picciolo il suono, ciò è facile, senza però esser privo di dolcezza e di gravità: nè già per altro si chiamano liriche queste sorti di componimenti, se non perchè anticamente con la lira, istromento basso, si cantavano così fatte poesie; ed oggi molto vagamente ho io sentito su la viola cantarsi di molti sonetti, il che vi prometto, piacendo a Dio, di farvi udire quando saremo in Napoli.
Genovino. Voi aiutate l'opinione mia; poichè, essendo il sonetto lirico e atto a cantarsi su la viola, non so pensare d'onde possa nascere in lui tanta difficoltà.
Partenopeo. Nasce, per cominciar da qui, primieramente dall'obbligo che s'ha di non passare i quattordeci versi, nè di farne meno, e parimente di rinchiudere in essi un concetto finito senza oscurità (come suol avvenire a molti, che, volendo rinchiuder gran cose in così pochi versi, vengono ad oscurarsi in modo, che ad intendergli a pena basterebbe quel Edipo, che vinse la Sfinge, dichiarandole l'oscurissimo enimma), e senza empiture altresì (come accade a coloro che, mendicando i concetti, procurano di finire il sonetto nel migliore modo che possono, e talvolta in modo vien loro data la corda, per dir così, dalle rime, che i meschini contra voglia si conducono a dir cose che non avevano giamai pensate di dire). Et il signor Francesco Maria Vialardi3, il quale per le sue onorate virtù è assai caro a molti gran principi italiani e stranieri, suol dire che il far sonetti è simile al letto di Procuste tiranno, che era di sì fatta maniera, che, quando detto tiranno aveva qualche forastiero in suo potere, in esso corcava il faceva; ma se in lui stendendosi il forastiero, come più lungo, avanzava fuori i piedi o parte delle gambe, il tiranno faceva tagliare quel sopra più che fuori restava, e, se l'ospite era più curto, con funi et ingegni il faceva talmente tirare, che a viva forza il riduceva alla giusta misura e grandezza dell'istesso letto; onde e nell'uno e nell'altro modo il faceva miseramente morire. Così il concetto che si vuole stendere in quattordeci versi, se tal volta da gli istessi tutto abbracciato e compreso non retsa, perde ciò ch'ha di rimanente4, che l'autore il taglia et il separa dalla parte ritenuta nel detto numero di versi; ma s'il medesimo non può così giustamente esser capito dal sonetto, onde esso sonetto resti maggiore del concetto, con epiteti et altre empiture si va tanto stiracchiando e tirando ol povero concetto, che bisogna ch'arrivi sino al quartodecimo verso, e che tutto il sonetto n'abbia qualche porzione; e così nell'uno e nell'altro modo stroppiato rimane, se chi lo compone, lasciandosi reggere tirannicamente dall'ignoranza e dal non sapere, non accomoda ciò che vuole spiegare in detta forma di composizione poetica con essa maniera di comporre.
Genovino. Quest'obbligo di non passar tanti versi stabiliti, nè di farne meno, occorre anche in molti altri modi di componimenti, e parimente di rinchiudere in essi versi concetto finito senza oscurità e senza empiture ancora; e per essempio mi soviene a punto una stanza, che voi mi recitaste non molti dì sono, s'io non erro, opera pure del Risvegliato, et è quella ch'egli fece fingendo che la fortuna parlasse mentre stava dipinta o scolpita in alabastro sopra un delfino in mezzo a molti vasi di cristallo, che una dama napolitana in uno armario serbati teneva.
Partenopeo. Credo che v'inganniate o che non vi ricordiate la stanza.
Genovino. Udite, se me la ricordo:

Che miri, o tui ch'ammiri? è questo il mare,
ov'io quasi balen ratta men gìa,
mentre poteva il mio delfin solcare
di correnti cristalli ondosa via;
immobil son nell'acque or via più chiare,
ma non liquide già, non più qual pria;
così diva maggior di me fortuna
l'acque incristalla et i bei vasi aduna5.

Partenopeo. Ben ve la ricordate; nè questa è picciola isperienza della vostra memoria, poichè, in averla da me solo una volta intesa, la teneste così bene a mente; ma ditemi, per cortesia, se l'auttore di questa stanza non avesse tanto compitamente espresso in essa il concetto suo, non poteva egli seguir con un'altra e finirlo?
Genovino. Senza che passiate oltre, m'avete di già soddisfatto, e certo è così, perchè è in elezione del poeta di far una o due stanze, o pur quante egli ne vuole, ma non già il simile può far ne' sonetti, ciascheduno de' quali ha da essere un corpo da sè solamente. Ma che altra difficoltà ritroverete voi ne i sonetti?
Partenopeo. Altre difficoltà maggiori di queste. Ditemi: l'obligo delle rime e de i versi ordinati sempre in un modo non vi par grande?
Genovino. Hanno ancora quest'obligo le stanze, le canzoni e tutte l'altre composizioni che vanno in rima.
Partenopeo. L'obbligo è molto differente, poichè nelle stanze, per corrispondere alle rime, si può molte fiate ricorrere a voci dannate ne i sonetti da poeti eccellenti; anzi non solo per la forza della rima, ma per esprimer forse meglio il concetto, si ricevono talora parole non usate o pur nuove del tutto, così come a punto fece nella stanza poco dianzi da voi recitata il Risvegliato, il quale, perchè averebbe avuta difficoltà grande a dire in due versi che quella dea magiore della fortuna, condensando l'acque, ne faceva vasi di cristallo, vagamente formò quella voce <<incristallare>> e disse:

così diva maggior di me fortuna
l'acque incristalla et i bei vasi aduna.

Genovino. E tenete voi ch'abbia egli ben fatto in formar quel novissimo vocabolo?
Partenopeo. Come s'egli ha ben fatto? non solo in questa stanza, ma in un sonetto ancora sarebbe stata bellissima questa voce, nel significato però nel quale è qui posta. Anzi, quante volte una parola verrà ben formata con le regole e sarà intellegibile e vaga, si deve ricevere in ogni componimento, già ch'il nostro italiano idioma, essendo oggi nel suo fiore, può ricevere accrescimento; il che non avvien del latino, il quale, per essere gionto nell'occaso6 non può con nuove diziaoni essere accresciuto.
Genovino. M'avete quietato l'animo in quanto alle stanze; ditemi delle canzoni: non hanno elle l'obligo parimente delle rime e de i versi?
Partenopeo. Nelle canzoni puote il poeta farsi le leggi a suo modo nella prima stanza; ma deve poi seguitar l'altre con l'istesso ordine da lui ritrovato, e, se averà giudizio, ordinerà la prima stanza di modo, che facile poi li sarà con quell'ordine i suoi concetti spiegare.
Genovino. ma intorno a gli altri oblighi poi delle canzoni, che dite? non è il poeta obligato a non far le stanze delle canzoni più di diciotto versi, nè meno di nove, e a non far più di diece stanze per canzone, nè meno di cinque, con le regole poi de' de' combiati7, i quali a pochi sogliono riuscir molto belli?
Partenopeo. Dite bene; ma ne i sonetti ci è un solo obligo intorno a i versi, ed a questo bisogna attinger le spalle. Ma ditemi, signor Genovino, non vi par egli grande l'obligo dell'imitazione? cosa certamente da pochi, quantunque sovrani scrittori, ne i sonetti compitamente osservata; di che testimonio saranno alcuni sonetti di Torquato Tasso, poeta nella epopeia tanto degno, che in sua lode io ardirei di dir molto, s'egli mio Napolitano non fosse.
Genovino. Non dicono così li signori Academici della Crusca, la quale è il seminario d'ogni salda dottrina e perfetto giudicio.
Partenopeo. Io non voglio contradire a sì famosa e celebre adunanza de i più elevati e dotti ingegni d'Italia, ma dirò bene che i su detti signori lodano anche in molte cose il Tasso, e, se bene con l'acutezza dell'ingegno e della dottrina loro penetrano ove il solo lume di detto onorato scrittore arrivato non è, tuttavia, come giudici giusti sedendo nel tribunale di dar giudizio de gli scritti altrui8, danno per l'equità anche delle sentenze in favore di Torquato, nè il condannato così in ogni cosa; e quanto a me bellissima cosa mi pare il suo poema eroico. E questi pure (con sua pace sia detto) non è l'istesso Torquato nella disposizione de' sonetti, ch'è nel resto dell'opere sue, nelle quali i concetti sono più presto vaghi per la elocuzione, che per essere nuovi e peregrini, essendo stati tutti cavati da altri autori. E ciò che alquanto più sopra di lui si è detto, forse in lui nasce e procede da che alla grandezza del suo stile non è proporzionato instromento la lira9.
Genovino. Questa imitazione, ditemi, vi prego, in che consiste?
Partenopeo. Gran giudizio in ciò è da impiegarsi dal poeta; ed anche bisogna ch'egli abbia inclinazione tale, che possa facilmente alzare ed abbassare lo stile a suo modo; e per questo si dice ch'il poeta nasce10. In somma, essendo facile la materia, deve lo stile anch'egli facilitarsi; se si parla a una donna, si deve attendere alla chiarezza; se si tratta di dolore o di morte, deve lo stile essere doloroso e affannato; nelle cose gravi bisogna esser grave, ma è da notarsi che le cose molto gravi da' buoni lirici non sono accettate; e, perdonimi Giulio Camillo, questo è uno de' veleni delle sue poesie, quantunque dall'altra parte l'oscurità sia in lui molto potente tosco11. Perchè la poesia non può conseguire il suo fine, ch'è di dilettare, se non è facile.
 
 

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Partenopeo. Dividono molti il sonetto in due parti12, l'una abbraccia i due quaternari, l'altra i due terzetti; la prima parte poi dividono in due, dando ad ognuna un quaternario, e così la seconda, dividendo i terzetti; ma io, dividendolo in altro modo, farò pure del sonetto due parti, cioè una che contenga il primo quaternario, l'altra tutto ol rimanente; la ragione che a ciò mi muove è questa: ho io nella maggior parte de' sonetti del Petracca osservato che il primo quaternario è im un certo modo come proemio del sonetto, poichè rare volte egli nel primo quaternario brevemente non fa menzione di quanto ha da dire dopoi, e, per non tralasciare l'esempio, dirò il suo primo sonetto. Udite:

Voi, ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri, ond'io nutriva il core
in su 'l mio primo giovanile errore
quand'era in parte altr'uom di quel ch'or sono,

del vario stile, in ch'io piango e ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, non che perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesimo meco mi vergogno.

E del mio vaneggiar vergogna è il frutto,
e 'l pentirsi e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

Genovino. Conosco veramente esser vero quanto mi dite, cosa non anche da me avvertita, poi che vedo nel primo quaternario che il Petracca fa menzione delle sue varie rime, de' suoi sospiri e del suo errore passato, delle quali cose poi in tutto il rimanente del suo sonetto va ragionando.
Partenopeo. E in tutti gli altri quasi fa il somigliante; dovendo noi adunque dalle sue rime cavar le regole, diremo che il sonetto di divide in due parti, ed è il primo quaternario l'una, ed il secondo con i terzetti l'altra.
Genovino. Questa regola non mi pare osservata del Risvegliato nel sonetto che già dicesti13: poichè ne i primi quattro versi egli tratta delle rare virtù della signora Veronica, ne i secondi poi ragiona del suo amore verso lei, e poi nel primo terzetto le dice che onestamente desidera che da lei sia gradito il suo amore, e nell'ultimo la priega che pietosamente accetti il suo affetto, e ch'avendo ella qualità sì reali non si dolga d'esser amata: sì che mi par di vedere ch'egli nel primo quaternario non abbia fatto nè poca nè molta menzione di quello che dice poi.
Partenopeo. Anzi, egli ne i primi quattro versi si sforza di dir cose, dalle quali necessariamente nascano gli effetti de' quali tratta di poi. Dice prima: <<se voi, Veronica, avete il nome ch'incomincia dal vero, e sete onestissima, bellissima, cortesissima e valorosissima>>; e segue poi nell'altro quarto: <<qual meraviglia è s'io per voi ardo, nè trovo già mai riposo, se non pensando a voi?>>; e nel primo terzetto: <<dunque io desidero d'essere da voi amato>>; e nell'ultimo: deh, accettate l'amor mio; e non vi spiaccia che siano armate le vostre rare virtù>>. Imaginatevi che in questo sonetto vada argomentando, e facendo tale argomento14:

Tutte le cose belle e virtuose sono amate da ciascheduno.
Voi, Veronica, sete bella e virtuosa.
Dunque non è meraviglia ch'io v'ami.

Ora nel suo sonetto lo Risvegliato presuppone la maggiore, non curandosi di esprimerla, poichè chiara cosa è le donne belle e virtuose esser amabili; e nel primo quaternario espone solamente la minore, e nel secondo conchiude l'argomento; la quale conclusione depende necessariamente da quanto ha già detto. Poi ne' primi tre versi conchiude un altro argomento, che è tale:

L'amante desidera di essere della sua donna amato.
Io sono vostro amante.
Dunque io desidero d'essere amato da voi.

E perchè la maggiore è manifesta, e la minore l'aveva già espressa nel secondo quaternario, fa solamante nel primo terzetto la conclusione; al fine ne gli ultimi tre versi, chiudendo il sonetto, epiloga il tutto e dice:

Deh, con vera pietà sì vero affetto,
donna immortal, gradite, e non vi doglia,
che virtù vera anco amor vero ammiri.

Or non vedete voi come dal primo quaternario dipende tutto quel ch'egli dice dopoi?
Genovino. M'avete sodisfatto; nè altro mi resta d'intendere intorno a questa materia, se non saper da voi se è cosa lodevole o pur dannata far passaggio d'un quaternario in un altro, o d'un terzetto in un altro15, così come ha molte volte fatto monsignor della Casa.
Partenopeo. Vi rispondo ch'è dannatissima questa usanza, se non quando questo è fatto a sommo studio, per dimostrar qualche furia o qualche altra cosa simile.
Genovino. Di grazia, considerate un sonetto del Casa, che mi sovviene adesso; e veggiamo s'il passaggio ch'egli fa dall'ultimo quaternario al terzetto sia fatto a sommo studio, sì come voi dite.
Partenopeo. Dite, che volentieri l'ascolterò, e dirò il mio parere.
genovino. Eccolo:

Vago augelletto da le verdi piume,
che peregrino il parlar nostro apprendi,
le note attentamente ascolta e 'ntendi,
che madonna dettarti ha per costume

E parte del soave e caldo lume
de' suoi begli occhi l'ali tue, t'accendi,
non ombra o pioggia, e non fontana o fiume,

nè verno allentar può d'alpestri monti,
et ella, ghiaccio avendo ai pensier suoi,
pur de l'incendio altrui par che si goda.

Ma tu da lei leggiadri accenti e pronti,
discepol novo, impara e dirai poi:
Quirina, in gentil cor pietate è loda16.

Partenopeo. A mio giudizio non è da lodarsi quel continuamento ch'egli fa di parlare, in modo che, per ritrovare il verbo necessario a i due ultimi versi del quaternario, bisogna correre senza respirare al primo terzetto.
Genovino. Ma non puote essere ch'egli abbia ciò fatto con arte, volendo dimostrare, con quel periodo così lungo, che lungamente il fuoco de gli occhi della sua donna saria stato per abbruciar l'ali di quel uccello senza spegnersi mai?
Partenopeo. Questi artifizi, come non si fanno in modo che siano tosto conosciuti, non vagliono; insomma, senza grande occasione io non farei già mai cosa tale. In questo modo direte ancora, signor Genovino, che quel verso, <<Ma tu da lei leggiadri accenti e pronti>>, sia artifizioso anch'egli, perchè, facendo menzione di canto d'augelli, dice <<lei leggiadri accenti>>, in modo che par che imiti, con quel <<lei leggiadri accenti>>, l'istesso canto del pappagallo.
Genovino. E questo pur direi che l'abbia fatto a studio.
Partenopeo. E mentre dice il verso istesso <<accenti e pronti>>, quell'enti onti è posto pur con arte per imitare una squilla o camapana, come volgarmente si dice.
Genovino. L'autorità sola di monsignor della Casa basterebbe a farmi credere ch'egli non abbia fatto errore.
Partenopeo. Io non niego l'autorità di sì grand'uomo, dico bene quello ch'io stimo essere verità, perchè, come diceva il padre dell'eloquenza latina, <<amicus Plato, amicus Aristoteles, sed magis amica veritas>>17.
Genovino. Insomma egli ha errato?
Partenopeo. Non ardirò d'affermarlo tanto sicuramente, perchè occhio più purgato del mio potrebbe vedere il contrario.
Genovino. Non ho già mai sentito se non lodar questo poeta, poichè i suoi concetti sono bellissimi e spiegati con parole scelte ed eleganti, in modo che fanno dolce e grave il suono delle sue rime.
Partenopeo. Ma io dico all'incontro che giudico veramente belli i suoi concettti, e vestiti di fini drappi, che sono le parole, ma le loro vesti sono fatte alla mattaccina18, cioè tanto strette, ch'egli mostra d'avere avuta poca moneta per comprare de simili drappi.
Genovino. Volete dire ch'egli sia stato povero di parole?
Partenopeo. E' andato mendicandole in modo che non vederete sparsi per li suoi sonetti se non pompe, oro, ostro, querce, elci, peregrino, occhi rei, ed altre cose che non mi sovvengono adesso19. Ma avvertite, signor Genovino, ch'io non ho detto ciò per altra cagione, se non per farvi apertamente conoscere le difficoltà grandi che sono intorno al comporre sonetti, poichè un sì grand'uomo, come fu monsignor della Casa, non potè riuscirne a compimento felice; che se bene, considerando una per una l'opere sue in rima, elle sono perfette, nondimeno, considerandole poi tutte unitamente, ci si scorge in esse la povertà di parole ch'ho detto.
Geronimo. Certamente conosco esser vero quello che voi dite, e da oggi avanti non darò molto credito a coloro che fanno così presto i sonetti: ma la maggiore difficoltà che si trova in essi, come diceste al principio del nostro ragionamento, è questa, che bisogna ch'il sonetto sia intelligibile, ma pieno però di parole significanti, in modo che gli intendenti possano da quelle capire tutta l'intenzione del poeta.

NOTE

1  il sonetto: dedicato ad una nobile signora Veronica, esso viene presentato dal gentiluomo partenopeo come opera del <<nostro Risvegliato>> (su cui cfr. la nota introduttiva),
2  un agromento... nera: allude all'uso capzioso del sillogismo; barbara (non barraba) e celarent erano formule di carattere tecnico per indicare due tipi di sillogismo della prima figuara.
3  Francesco Maria Vialardi: personaggio non identificabile.
4  se tal volta... rimanente: se i 14 versi non bastano a contenere il <<concetto>> che si vuole esprimere nella sua intera estensione, questo deve essere troncato a deve perdere quella parte che resta esclusa dallo spazio del sonetto; la cosa contraria capita quando il concetto è troppo breve e non basta ad esaurire tutto lo spazio del sonetto.
5  Probabilmente si tratta di una stanza libera, composta occasionalmente per lodare i preziosi vasi di cristallo della donna napoletana cui si fa cenno (è la fortuna, che parla, ad affermare che la dama è dea maggiore di essa stessa).
6  gionto nell'occaso: arrivato al tramonto (il latino era ormai una lingua solo letteraria).
7  combiati: commiato o congedo è la parte finale della canzone, con una struttura particolare rispetto a quella delle altre stanze.
8  tribunale... altrui: il tribunale della critica. Al momento della pubblicazione dell'operetta del Toralto (1589) la polemica sulla Gerusalemme non aveva ancora superato la sua fase calda: l'anno prima era uscito Lo 'Nfarinato secondo del Salviati.
9  alla grandezza... la lira: allo stile magniloquente del Tasso non si addice il genere lirico.
10 il poeta nasce: il famoso detto <<poeta nascitur>>.
11 tosco: veleno; sull'oscurità delle rime di Giulio Camillo Delminio, cfr. quanto nota Giulio Cortese (in questa antologia), p. 193).
12 Nel brano che abbiamo tralasciato si svolgono delle considerazioni su alcuni sonetti del Petracca, delle riflessioni sulla <<sonorità>> del verso e un parallelo tra la difficoltà della buona riuscita della tragedia e quella del sonetto.
13 sonetto che già dicesti: quello alla Veronica, con cui si apre il brano da noi riportato (p.168)
14 argomento: sillogismo (i cui tre membri vengono definiti con i termini di <<premessa maggiore>>, <<premessa minore>> e <<conclusione>>; l'abolizione di uno dei tre membri trasforma però il sillogismo in entinema o sillogismo retorico: nel sonetto in asame i due sillogismi che qui sono elencati vengono dunque ridotti ad entimemi, in una concettualizzazione <<retorica>> e non <<logica>>).
15 far passaggio... in un altro: fare che un periodo si svolga da una strofa all'altra, senza restare concluso nello spazio di un'unica strofa, e quindi impedendo la possibilità di fare pausa tra due strofe.
16 Della Casa, Rime, 3: il rimprovero che il T. muove qui al casa è identico a quello formulato da Giulio Cortese (in questa antologia, pp. 185-86).
17 Notissimo detto attribuito a Cicerone.
18 alla mattaccina: corte e strette, come quella di pagliacci e giocolieri (mattaccini).
19 Un appunto dello stesso genere viene mosso al Casa da Giulio Cortese (cfr. qui, a p. 190).

 
 
VINCENZO TORALDO D'ARAGONA
INDICE:
|  Presentazione  | 
Vincenzo Toralto di G. Ferroni e A. Quondam  | 
I'Ortolano di V. Dolla La Veronica di B. Weinberg  |
|  La Veronica di F. LecercleLa Veronica di G. Parenti  |
Lettera di S. Quattromani   |  Sonetto a G.B, Manso  |
Sonetto di Tommaso Stigliani  |  Sonetto a risposta di G.B. Marino  |