Cappella di Santa Margherita

Ovvero

"decifrato il nome del blasone della facciata della Cappella di Santa Margherita"
 

di Antonio Vizzone


E' la risposta di Antonio Vizzone a quanto pubblicato nel 2000 da Alfonso Lo Torto  nell'opuscolo <<Decifrato il nome dell'"ignoto cavaliere" sepolto nella Cappella di Santa Margherita in Tropea (sec. XIV)>> con il quale l'autore spiegava di aver scoperto il nome del cavaliere misterioso sepolto nell'antica capelletta gotica della chiesa di San Demetrio di Largo Galluppi. TM rende noto in prima assoluta il saggio inedito di Antonio Vizzone che si propone di fare ulteriore chiarezza a quanto asserito da Alfonso Lo Torto. E' utile rammentare che, oltre al Teologo Francesco Pugliese nella guida turistica "Tropea e la sua terra" del 1974, altri autori si sono occupati della piccola Cappella: lo storico Pasquale Toraldo in un articolo del 1923 pubblicato sulla rivista "Brutium", il canonico Armando Granelli , nell'annotazione storica sul registro patrimoniale della parrocchia di San Demetrio, di cui fin dai primi anni Trenta e per oltre un trentennio egli fu parroco e il marchese Felice Toraldo di cui in questo stesso numero viene pubblicato l'articolo "La Chiesa Francescana di Tropea", già apparso nel 1923 su "Brutium". Buona lettura!
 

L’opuscolo pubblicato dal caro amico Alfonso Lo Torto e dallo stesso datomi in omaggio nell’agosto del 2000 ed intitolato "decifrato il nome dell’  'ignoto cavaliere' sepolto nella Cappella di S. Margherita in Tropea (sec.XIV)", mi ha dato occasione di toccare con mano quanto sia impossibile giungere ad una qualsivoglia verità documentata sui nostri monumenti.
Il prof. Orlando Sposaro, nell’introduzione al volume, lamenta che molti documenti della storiografia tropeana sono andati perduti grazie a calamità naturali ed incursioni saracene.
Lo stesso professore però, avalla tesi che non sono fatti, ma solo presupposti, miscele di deduzioni per nulla attinenti a cose avvalorate da scientifiche deduzioni.
Una cosa è certa: in archeologia il primo impatto deve essere quello dell’esame interpretativo dell’oggetto ritrovato, in secondo luogo il sito del ritrovamento ed in fine la sistemazione temporale e quindi storica. Questi tre elementi formano uno dei granelli che compongono la grande spiaggia della Storia.
A questo punto, magna cum laude al lavoro effettuato dal ricercatore che, al contrario di altri prima di lui, preoccupati soltanto dell’attribuzione a questo o quell’artista del manufatto marmoreo, ha voluto sapere cosa è veramente quel pezzo di marmo, non soltanto a che cosa servisse, ma per chi è servito, dato il palese servizio cui era finalizzato.
L’interpretazione è stata parziale, ma congrua nel determinarne l’appartenenza quindi, per la funzione logica, anche la sua sistemazione temporale, di conseguenza la sistemazione in un periodo storico.
Meno fortunate altre interpretazioni nello stesso volumetto, sempre sullo stesso manufatto e dalla sua sistemazione fisica oltre che del monumento importantissimo che è la Cappella dove è stato ritrovato.
Lapide e lastra marmorea non devono essere per forza conglobate in un unico periodo di riferimento. Le due cose si devono scindere ed avere l’attenzione particolare separatamente, ma con eguale intensità. Molte manipolazioni possono avere in un certo modo alterato il primo proposito del costruito, ma attraverso quello che ci rimane dobbiamo prima di tutto interpretarne l’originaria utilizzazione.
La costruzione è situata sullo strapiombo della roccia calcarea. Il lato mare poggia su filari di conci che si ergono fino al piano della parte anteriore dove, con gli stessi conci è costruito tutto l’edificio. Le dimensioni sono ridotte ed oggi poggia sul fianco della chiesa di San Demetrio o chiesa dell’Immacolata, rimaneggiata nel ‘700 e rifatta come oggi la vediamo nel 1925.
La Cappella è donata nell’anno 1296 ai Francescani che costruirono il loro convento nel terreno accanto chiamato dedicato a S. Francesco d’Assisi, ma era già prima una chiesa Parrocchiale con attiguo orticello donata per l’appunto a detti monaci dall’allora vescovo di Tropea Mons. Giordano.
E’ citata da Mons. F. Pugliese nel suo lavoro "Tropea e la sua terra" del 1974 descrivendola così: … una costruzione medioevale di età gotica in conci tufacei con portale sormontato da angeli e stemmi e da un fregio scolpito. In origine era un oratorio gentilizio con tomba eretta in età angioina per un ignoto signore, forse imparentato con la famiglia regnante, di cui resta lo stemma a sinistra della piccola finesta.....
Lunghe ricerche condotte in Italia e Francia non hanno rivelato quale famiglia si adornasse di questo misterioso stemma. Si pensa a persona vivente nell’orbita di Andrea D’Ungheria e con esso imparentata.
Orbene non mi è dato di capire se in questo passo il Mons. Pugliese avesse rivolto la sua attenzione allo stemma che sovrasta la porta d’entrata della Cappella, detta anche di S. Margherita per gli affreschi della vita della Santa che si intravedono al suo interno, oppure a quello scolpito nel bassorilievo e che è riproposto alla destra della stessa porta e riportato sul manufatto marmoreo.
Se si riferisse allo stemma principale, cioè a quello centrale sorretto da due angeli e, a suo dire, per questo riferito alla casa regnante, devo arguire che ha cercato poco e non ha trovato nulla, anche perché in un ulteriore suo lavoro sempre sulla nostra città del 1984, afferma le identiche cose.
Se invece si dovesse riferire agli altri due, mi troverebbe ancora per poco d’accordo.
Abbiamo sempre avuto posizioni discordi in merito ed ogni volta che veniva toccato questo argomento mi apostrofava mettendo avanti a tutti i discorsi che molta gente più preparata di noi stava tentando di decifrare quegli stemmi, se non tutti almeno quello che era ripetuto sulla lapide.
Lo stesso Mons. Pugliese, nel suo libretto ad uso prettamente turistico del 1984 nell’illustrare le comunità religiose e citando la chiesa in questione, afferma: anno 1296 - venne data ai frati francescani l’antica chiesa parrocchiale di S.Pietro ad Ripas, dove sorse al convento di S. Francesco d’Assisi.
Forse la costruzione risale a molto tempo prima di questa donazione e forse si può collocare con cognizione storica accertata se si analizzano a fondo i fatti ed i reperti che la compongono. Ma, per andare con ordine, torniamo alla costruzione.
Abbiamo visto che mons. Pugliese già colloca la datazione concatenandola ad una attuale analisi dell’architettura senza approfondimento di particolari per conoscerne l’origine. Molti altri si limitano a presentarla semplicemente come piccolo oratorio gotico. Non è certamente angioina, poiché esistente già come parrocchia prima del 1296, anno in cui i francescani la inglobarono nel costruendo convento; avrebbe avuto pochi anni di vita poiché gli angioini cominciarono a governare in Italia dal 1266 con Carlo I. Potrebbe essere sicuramente anteriore.
Analizzando il materiale da costruzione per la sua forma e dimensione potrebbe indurci a dare una risposta affermativa e invitarci ad analizzare reperti e periodo.
La forma architettonica della facciata presenterebbe un misto di gotico e di normanno nella conformazione del portale e nelle decorazioni ivi scolpite.
Il tufo con cui viene costruita è tra i più comuni del sito e ciò si nota paragonandolo con i conci dello stesso materiale con cui è stato costruito il Duomo e molte basi di alcuni palazzi cittadini. Lo stile però dell’attuale struttura non deve implicare che è certamente quello della prima costruzione.
La collocazione fisica, ai limiti delle costruzioni ed al centro di un’area da costruzione nuova per il tempo, potrebbe essere in linea con l’evoluzione del completamento delle costruzioni della città. Per inciso, credo proprio che i primi abitanti, specie quelli di alto rango della popolazione, abbiano sfruttato la parte pianeggiante e centrale del promontorio per la costruzione delle proprie abitazioni lasciando spazi liberi che sono stati affidati poi alla Chiesa per la costruzione di vari edifici di culto e monasteri all’interno delle mura; molti altri sono stati costruiti allo stesso modo e qualcuno anche poco distante, ma certamente in epoche successive.
Sappiamo anche che la nostra città fu meta di monaci brasiliani che sin dalla prima metà dell’ VIII sec. arrivarono in Calabria e che i seguaci di San Basilio di Cesarea crearono in Calabria i primi eremitaggi, i primi monasteri e poi fino al XIII sec. i grandi complessi monastici. La testimonianza di questa presenza è nota e ben visibile nella chiesa di S. Maria dell’Isola e forse non solo di questa perché famosa ormai. Non è detto con questo che Tropea aspettasse i monaci Basiliani a costruire qualche chiesa o qualche piccolo luogo di culto. Siamo convintissimi della profonda fede cristiana dei nostri avi e della loro religiosità ed anche di tutto ciò è testimone autorevolissima la nostra Prima Santa Patrona, la Vergine Domenica, martire cristiana già al tempo delle prime persecuzioni. Questo profondo senso di cristianità, secondo il mio modesto punto di vista ed anche secondo alcune tradizioni proprie dei popoli della nostra Calabria, l’alba della nuova Fede è stata talmente profonda e sentita che i cari nostri antenati distrussero completamente i templi pagani costruendo sopra di essi i nuovi altari.
L’occasione più ghiotta si ebbe forse proprio dopo gli arrivi di questi monaci, parte dei quali vennero chiamati "itineranti" poiché predicavano e divulgavano la fede con la cultura religiosa e sociale greca spostandosi in continuazione. Si radica così la necessità, propria del IX-X sec. di avere un cambiamento dell’utilizzo della chiesa. Il tempio non viene considerato più un luogo dove si va ad adorare il Dio, non solo e solamente la Sua casa, la Sua Arca. Si vuole avere più contatto con i Suoi Ministri, che a quel tempo non erano più da definirsi tali per la vita dissoluta e corrotta che stavano conducendo. Ecco quindi l’avvicinamento più profondo e più di comunità. La creazione delle parrocchie, di luoghi di culto in cui identificarsi. Tutto questo processo sfocerà nel concilio Lateranense del 1215 in cui la chiesa prende questa via in modo ufficiale. A questo punto siamo al primo passo per l’individuazione ed allo scioglimento di un primo nodo. L’epoca della costruzione della piccola cappella può essere quella prima dominazione gotica in terra calabra o almeno coeva e, perché no, anteriore. E’ certo che Roberto il Guiscardo ne avesse il controllo, altrimenti, quando fu assalito a Mileto dal Conte Bosso nel 1062, non avrebbe mandato la moglie Sichelgaita a cercare rifugio nella nostra città. Che poi sia stata "fedele" anche a Ruggiero ce lo ricorda anche Costantino Lascari " quum Rugierius dum saraceni ferro, flamma et sanguine universa fedarent ab incursionibus liberavit " si legge di Tropea nel De Philosophis Calabris quando parla di una donazione fatta alla chiesa Tropeana e detta donazione potrebbe essere stata fatta proprio per la costituenda parrocchia ovvero per la prima trasformazione dell’oratorio in questione.
Ciò premesso, veniamo alla famosa, ormai, lapide ed alla scritta decifrata mirabilmente da Alfonso Lo Torto. In essa si legge:

MARMORIS HEC FOSSA ANDREE RUGEORII OSSA MILITIS INANIMA SITTA EI…….

questo sarcofago di marmo (conserva) i resti inanimati sepolti del cavaliere Andrea di Ruggero a lui… .

Questa la traduzione fatta dal Lo Torto su cui basa tutta la storia del sarcofago. La conclusione a cui arriva, quindi, è che un "Andrea di Ruggero" barone aristocratico che faceva parte dei milites e quindi dei familiari del Re vissuto nel 1300 e contemporaneo di Carlo l’Illustre (n.d.r.).
Non è la mia interpretazione poiché potrebbe essere così espressa:

" questo sarcofago di marmo ripone le ossa inanimate di Andrea milite di Ruggero ".

E questo ci può portare ad un altro ragionamento senza incorrere nel banale errore di attribuire cognomi a chicchessia quando ancora il loro uso non era radicato nelle popolazioni che stavano subendo il dominio Normanno che portò all’uso del cognome e quindi anche l’uso dell’arme per identificazione del casato. L’interpretazione poi dell’attributo militis, sempre secondo Lo Torto, in milite poiché familiare, come in uso nel medio evo per classificare un familiare di una casa regnante, mi sembra anch’esso un po’ azzardato. Non dimentichiamo che già i romani facevano una distinzione netta tra milites e pedites attribuendo ai primi la parte più forte dell’esercito e dell’esercizio della forza e quindi crearono alla prima classe dominante del loro ordinamento sociale. I milites erano l’orgoglio del popolo romano e l’ordine equestre, a cui appartenevano, costituiva la più alta nobiltà. Requisiti importanti per far parte di questa nobile casta erano: avere anni diciotto, rendite non inferiori a 400.000 sesterzi, condizioni familiari patrizie o tutt’al più libera da ogni genere di servitù. Coloro che il Censore giudicava avere queste prerogative venivano nominati milites e venivano muniti di cavallo e di un anello d’oro. I milites divennero nei secoli successivi, con la caduta dell’impero romano, i cavalieri, cioè sempre quelli a cavallo, ma indipendenti, non soggetti ad alcun genere di obbligo. Molto vicini alla classe più elevata del potere, di cui facevano ampliamente parte, e quindi vicini al palazzo che potevano frequentare. Vennero in seguito detti milites palatini da cui nacquero i famosissimi paladini del re, cioè quelli più vicini a chi, rappresentando la patria, aveva più bisogno di attenzione per essere protetto e salvaguardato.
Per quanto sopra detto è d’obbligo pensare che l’attributo "militis" debba per forza essere trattato come un personaggio vicino e familiare alla casa regnante. Per non dimenticare che proprio il medioevo diede i natali di trasformazione da milites a conti a tutti quelli che per meriti avevano brillato in materia di guerra e di fedeltà, ma questa "familiarità" non può considerarsi "parentela".
Non possono neanche essere coevi alla costruzione della cappella gli stemmi che si trovano inseriti nella facciata che, come affermato da molti altri prima di noi, sono stati inseriti in epoca successiva durante i rifacimenti e le aggiunte non ultima quella dell’inglobamento del XIII sec. quando venne accorpata al convento dei francescani.
Per quanto poi citato, sempre dal Lo Torto, ciò che si legge nell’istrumento del notaio Saiace per la vendita di tale cappella prima era una Cresiolafondata nell’anno 1071 da Matteo Duca e Conte di Montefortino, e poi aggregata al detto Convento, dopo molti anni fondato, non significa che già da questa data potesse essere proprietaria la famiglia Guarneri che appare in Italia solo diciannove anni dopo con il Duca Guarniero investito della Marca Anconetana da Enrico I ed in seguito dal papa Leone IX, per Breve dello stesso papa, duca e marchese di Ancona e Rimini, ma mette in dubbio ciò che affermava mons. Pugliese.


Scudo araldico della famiglia Guarnieri

Non credo neanche che detta cresiola sia stata costruita solo per ospitare il monumento funebre al detto Andrea, anche perché, se così fosse, detto monumento sarebbe coevo ed è assurdo affermare una tesi di tal fatta. Con questo non voglio mettere in dubbio che una tal famiglia ebbe residenza nella nostra città, ma resto molto perplesso nella collocazione temporale dei fatti descritti. Il fatto stesso che il sarcofago non sia stato ultimato, vedi epigrafe nella parte inferiore della cornice, nella sua parte descrittiva e commemorativa, ci fa pensare che il manufatto, ordinato nella sua parte ornamentale, sia stato lavorato in loco per essere, in un secondo tempo, collocato nel costruendo monumento di cui avrebbe dovuto far parte.
Non ci è dato sapere se il monumento funebre sia stato o meno ultimato nella sua pienezza e se così fosse stato, avrebbe dovuto avere un’architettura molto simile ai coevi monumenti come quello destinato ad accogliere le spoglie di N. Ruffo nella chiesa di San Francesco a Gerace (1333) ultimato e collocato.
Ulteriore dubbio viene dato dall’analisi errata dello stemma che sormonta la porta d’ingresso della Cappella, attribuito alla Casa d’Ungheria ovvero a Ludovico ucciso in seguito dal fratello Andrea marito di Giovanna I regina di Napoli ovvero a Luigi il Grande.
Si crede che la vicinanza dei due stemmi laterali ai piedi dello stesso, di cui uno è identico a quello scolpito nella lapide, abbiano ad avere familiarità con il principale. L’attribuzione forse ad una casa regnante la si deve al fatto che detto emblema venga sostenuto da due angeli, detti tenenti, che in araldica sono le figure umane in forma di geni, mori, sirene, etc. posti sui lati dello scudo che sembrano sostenere.
Il Menestrier afferma che i primi tenenti o sostegni erano tronchi di albero, ai quali si appendevano gli scudi. Ma per il Morini si può attribuire agli antichi tornei (già anche romani e greci) nei quali si portavano le armi dai servi travestiti da deità favolose, da selvaggi, da mori, orsi etc.
L’avvento quindi della cristianità, di cui i Normanni si fecero scudieri per ottenere favori ed alleanze cospicue con i Papi regnanti di Roma, fece si che le famiglie più importanti e che ne avessero avuto regio consenso, potessero usarle trasformando quindi le figure mitologiche in figure strettamente legate al mondo spirituale. Da ciò si evince che detto stemma non debba essere strettamente legato ad una casa regnante.
Siccome poi si sa che l’araldica è una scienza necessaria per lo studio della storia civile e dei costumi delle famiglie illustri, in essa troviamo la storia di chi ne porta l’emblema ed il motivo per cui questi sono in esso posti.
Storpiature ed inesistenze o appropriazioni indebite si sono succedute nei secoli come anche venivano usate armi concesse da chi autorità di concessione non avesse e quindi non erano blasonate o, nell’attesa che potessero essere blasonate ad personam, questi sia deceduto senza successione e non più blasonabile. Forse, anzi molto probabilmente, questo è successo all’ormai famoso Andrea del nostro sarcofago poiché in araldica non esistono figure indecifrabili che possano portare al riconoscimento del possessore, poiché devono essere in qualche modo parlanti.
Per la collocazione storica poi di una famiglia che il Summonte, citando lo storico Carlo Sigonio, faccia risalire le origini alla prima presenza normanna e poi non si trova traccia dell’emblema del casato, mi sembra del tutto azzardato, ma se così fosse tutto ciò potrebbe essere una vera e propria scoperta araldica quella dell’emblema di tale famiglia e questo frammento di sarcofago, unico monumento al mondo.
Da una ricerca effettuata sul primo e più importante scudo cioè quello centrale che sormonta l’ingresso della cappella e sorretto dai due angeli, in araldica viene così parla:

Interzato in palo: nel primo di Ungheria, cioè fasciato di otto pezzi d’argento e di rosso; nel secondo di Durazzo,
cioè di azzurro seminato di gigli d’oro con rastrello a tre pendenti di rosso; nel terzo di Gerusalemme, cioè di argento
alla croce ricrociata d’oro accantonata da quattro croci più piccole.

Si può risalire all’appartenenza, senza ombra di dubbio, alla nobile famiglia Lancellotti che in Tropea sembra essere stata una delle prime ad aver goduto nobiltà. Tale famiglia trae origine da Rinaldo di Durazzo figlio naturale di Re Ladislao comunemente chiamato Lancillotto e nella nostra città trova presenza molto antica anche se il primo a comunicarci notizie storiche accertate fu Gian Paolo Lancellotto.


Emblema araldico della famiglia Lancellotti

Nel 1495 esisteva già una famiglia con tale nome. In quest’anno infatti un Placido ne fu Sindaco e diede ospitalità ad Alfonso II durante la rivolta di Napoli (chiara la familiarità con la famiglia reale del tempo) rifugiato per questi fatti, appunto nella nostra città. "Ebbe parentela, in Troppa, con le famiglie Mottola e Barone".
Tutto questo non implica affatto che possano o debbano per forza esserci relazioni tra la sepoltura dell’Andrea e gli stemmi gentilizi che sovrastano la facciata della Cappella. Come deve essere chiaro che l’appartenenza a questa o quella famiglia non vincola il fatto che in questa possa trovarsi un monumento sepolcrale solo di parenti e/o familiari.
Si può, a questo punto, anche supporre che questo valoroso cavaliere possa essere stato il comandante della rocca tropeana di nome Andrea milite di Ruggero e morto in data non ben definita o definibile, almeno fino a quando l’araldica non ci darà una risposta sullo stemma scolpito sulla lapide, abbia avuto l’onore di aver avuto eretto un monumento funebre in epoca successiva alla sua morte e coeva all’acquisizione della cappella da parte della famiglia Lancillotto che probabilmente in quel tempo aveva il Governo della città. Così si potrebbe anche spiegare il ritrovamento nel castello dell’altro concio tufaceo che ne rappresenta le insegne; infatti si usava nel primo medio evo ed anche per tanti altri secoli ancora, affiggere le proprie insegne nel luogo dove si esercitava il comando. Ma non per questo si deve coinvolgere la proprietà del luogo con la sua costruzione o con l’uso che ne è stato fatto.
E’ ben noto che sin dai primordi della cristianità palese, si facesse uso di dare sepoltura ai morti nelle immediate vicinanze dei templi e addirittura dentro gli stessi quando il defunto avesse avuto meriti di riconoscenza popolare tale da avere gli onori della sepoltura all’interno del tempio.
L’avvento delle "parrocchie " appunto, attorno all’anno 1000 o poco prima, rafforzò nella popolazione del tempo la convinzione di avere vicino al tempio un posto per le proprie ossa in modo che questa vicinanza potesse sentire più immediatamente le preghiere che venivano fatte in favore delle loro anime.
D'altronde questa tradizione è andata avanti fino all’avvento dell’era napoleonica.
 
 

Stemmi non decifrati



 
 

 
 
ARCHEOLOGIA TROPEANA
 di  Salvatore Libertino
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