NUOVE  VESTIGIA   ROMANE
SUL  CAPO   VATICANO
IN CALABRIA

di   Pasquale Toraldo
 
 
 

Alias persequens expositiones, quas superioribus in conventibus fecit, de variis romanis rebus
A. loquitur, recenti biennio Tropaeae propinquisque locis in lucem editis.








Sono scarse e frammentarie le notizie tramandateci dagli antichi storici sulla regione calabra del capo Vaticano che così saltuariamente e fortuitamente ogni tanto svela gli avanzi del suo passato.
Nella laconicità però di questi ricordi non manca di trapelare, diremo così, quella importanza che aveva questa zona abitata fin dai primissimi tempi, dal neolitico in poi. Potremmo dire dei Siculi preellenici che la colonizzarono in prima, poi degli Achei nel periodo ellenico, poi dei Brutii ecc., ognuno dei quali ha lasciato notevoli tracce. Ma per il momento a noi non interessa tutto ciò che appartiene alla preistoria.
Ci occuperemo, invece, in questo studio, di quegli avanzi che segnano il trapasso dalla civiltà primitiva ellenica, a quella quasi più fulgida per l'affermarsi della romanità in questa contrada. Ed a segnarne il trapasso è la seconda guerra punica - che tanto sviluppo ha avuto in questa zona - più che la guerra servile e quella della conquista dei Brutii. Caddero le nostre floride città magno-greche, divenute prede delle scorrerie puniche, durante le quali furono rasi al suolo questi centri vetusti e gloriosi con i loro insigni monumenti, specie i sacri templi, di cui fortunatamente sopravvisse qualche memoria; e Roma, decisa a debellare la grande rivale Cartagine, qui venne a costituire una sua base per balzare in Africa.
Non è mio compito ora sviscerare alcune interessantissime questioni storiche, ma solo addito agli studiosi quegli avanzi di monumenti atti a documentare quel glorioso inizio di romanità e indi la vita che ebbe questo nostro centro, ancora parzialmente oscuro, nei secoli del dominio di Roma.
Collegando queste mie odierne illustrazioni alle precedenti, che furono oggetto dell'altra mia relazione al  III Congresso di Studi Romani, viene sempre più completandosi il quadro archeologico di questa nostra misteriosa e interessante contrada.
Dirò separatamente dei singoli monumenti e dei rinvenimenti fortuiti analizzando i vari avanzi, senza azzardare una sintesi prematura che potrebbe per ora trarci in inganno, non essendo ancora riusciti a svelare neanche il fitto mistero in cui è avvolto il primitivo nome del centro più importante che preesisteva all'odierna Tropea.

Tropea - Tempio di Marte.-  A Tropea aveva culto la triade delle divinità etrusco-latine Marte, Giunone, Minerva, che avevano unico tempio a cella tripartita. Nella psicologia del popolo romano, più guerriero che dedito ad altre arti, ebbe predominio il culto di Marte, di cui perciò forse ci pervenne la tradizione, ed il nostro antico tempio romano si additò sotto il solo nome di Marte. Per le altre due divinità supplisce alla mancanza della tradizione il rinvenimento di alcuni frammenti dei loro simulacri fittili.
Diremo prima di questi :
Di Giunone furono rinvenuti due simulacri, una statuetta bronzea e una testina fittile alta cm. 6, che rivela nella sua espressione e nella fattura attica ed etrusca, una reminiscenza, se non una piccola copia, della Giunone Sospita o Salutare di Lanuvio, che troviamo pur riprodotta in alcune monete repubblicane e in altre di Antonino Pio, che anche qui da noi furono rinvenute. Di quel periodo repubblicano (II sec. a. Cr.) abbiamo un vasetto che conteneva le monete, il quale ci offre un'altra prova dell'influenza o rapporti etruschi in questa nostra riviera. Il vaso, nella sua fattura di argilla con superficie lucida, ha molto della ceramica etrusca aretina, che sembra essere stata condotta a imitazione di vasellame d'oro e argento per la finezza delle linee dei rilievi, opera di Greci, come rivelano le firme.
Di Minerva ci è pervenuta una fine testina attica del V o IV secolo a. Cr.. In essa è però prevalente l'influenza greca. Del resto, in tutta l'arte etrusca, specie nei simulacri delle divinità, si risente potentemente quest'influsso. Chè il popolo etrusco più guerriero che altro mal poteva giungere alle finezze di linee, di concezione e di idealità dei Greci.
Di Marte per il momento non ci è pervenuto il simulacro, ma abbiamo il ricordo storico degli aruspici che qui, nel suo tempio, venne a consultare il grande Scipione prima d'intraprendere la gloriosa campagna d'Africa.
Questo tempio di Marte non era andato distrutto, ma dall'VIII secolo fu alquanto trasformato e adattato al culto cristiano, tanto che in quei primi secoli servì da cattedrale, fin quando non venne costruita l'altra nell'XI e fu, nel 1884, completamente demolito per dar posto all'odierno corso V. E. di Tropea che allora si progettò.
Era un tempio in antis con stilobate a cui si accedeva con una gradinata. Sorgeva presso il piccolo foro che era nella nostra cittadina romana all'incrocio tra il cardo e il decumano maggiore.
Accanto a queste tre divinità guerriere, ch'erano accolte nello stesso tempio, dobbiamo ricordare un'altra divinità pur essa guerriera, Ercole, al cui mito si fa riannodare la chtisis dell'odierna nostra Tropea, che in un periodo si appellò "Forum Erculis", rivelandoci in ciò l'origine greca a cui poi si fuse l'importo etrusco-latino e quello romano.

Una basilica romana (?).- Il buio che circonda la vita romana di Tropea rende dubbiosi ad accettare alcune tradizioni ed a ben vagliare la portata di alcuni fatti storici che ad essa fan capo. Cosi non si sa quanto vi sia di vero nella venuta al tempio di Marte in Tropea da parte di Scipione l'Africano per sentire gli aruspici sulla battaglia che stava per intraprendere, aruspici che già aveva interpellato Crotone prima della battaglia della Sacra; nè se realmente venisse allo stesso tempio Ottaviano Augusto a render grazie alla divinità dopo la battaglia combattuta in questi paraggi, al capo Zambrone, contro Sesto e Gneo Pompeo, e a ricordo di ciò erigere dei trofei. Il che, secondo alcuni, avrebbe dato origine al nome "Tropea". Non discutiamo quest'ipotesi, solo ricordiamo come non rappresenterebbe un fatto nuovo nella storia romana.
Abbiamo una Civitas Tropaensium nella Dobrucia, fondata da Traiano, un monumento a ricordo della invasione della Gallia fu chiamato Turbia, nome, questo, che dato pure a Tropea in una vecchia cronaca, e il monumento edificato dal filosofo Erode Attico, maestro di Antonino Pio, a sua moglie Annia Regilla della famiglia degli Atilii, fu su un terreno che portava il greco nome Triopio. E non sappiamo se per strana coincidenza sorgesse in Tropea un sepolcro simile a quest'ultimo che ho altre volte illustrato. Un esame profondo sulla similitudine di questi nomi potrebbe invero darci una ragione o spiegazione del nome della città di Tropea, centro che recenti scoperte hanno però rivelato di origini ben più antiche.
Certamente la romana Tropea seguì a quell'antico centro ellenico1 di cui tratto separatamente.
Delle costruzioni romane di Tropea ho già ricordato due insigni monumenti che sono andati distrutti in questi ultimi anni. Uno solo ora sembra sussistere sebbene ancora una volta alquanto alterato dai recenti restauri eseguitivi.
Allo stesso periodo degli Antonini credo appartenga l'edificio che ora addito ai cultori delle romane antichità. E' il periodo più ricco in generale di edifizi sparsi in tutta Italia e per la nostra contrada, credo, in modo tutto particolare, avendo io avuto occasione di scoprire e additare parecchi altri avanzi.
Questo nostro monumento, pervenutoci relativamente in buono stato, sembrerebbe essere stato parte di un complesso edifizio di cui ignoriamo per il momento lo scopo.
Era una basilica o una sala termale ?
Presenta delle affinità sia con la basilica del foro di Nerva; sia oltre che planimetricamente, anche per qualche particolarità costruttiva, con le terme di Diocleziano, specie nei grossi diaframmi di scarico agli angoli delle prime crociere a concrezione romana. Financo vi troviamo qualche cosa della Curia romana che sorge tra l'arco di Settimio Severo e la basilica Emilia.
La nostra è ad una sola nave rettangolare, ed ha in uno dei lati lunghi tre arcate. Oggi una volta a botte in lamiera stirata copre tutto l'ambiente. Così era pure qualche anno fa, ma incannucciata. E' ovvio che non possiamo ritenere questo genere di volta come antico, ma che lo riproduca. La presenza di diaframmi esterni, che ho già fatto notare, tra un arco e l'altro fanno, invece, argomentare che la primitiva copertura fosse a grandi crociere a concrezione che si dipartivano da questi diaframmi. A ornamento di questa sala erano forse delle colonne marmoree sotto l'inizio di queste volte, ma con scopo esclusivamente ornamentale, come del resto era per tutta l'arte romana.
Abbiamo parecchi frammenti di lastre marmoree scorniciate che forse appartenevano al rivestimento interno della sala.
La caduta dell'Impero, le scorrerie dei barbari sulle nostre coste, e i frequenti terremoti, principalmente, dovettero pregiudicare la sorte di questo monumento. Cadde la volta, fu spogliato dei suoi marmi che furono usati in altri scopi, come a copertura di tombe. Vennero poi anche i Normanni che per le loro costruzioni qui ed altrove spogliarono dei loro ornamenti e delle loro colonne questi monumenti ancora superstiti. Esempio tipico di queste loro vandaliche raccolte divario tipo e dimensioni resta sempre la Badia della SS.ma Trinità, da essi fondata nella vicina Mileto.
Il nostro monumento offrì forse a loro alquanto di questo materiale. In epoca incerta troviamo questo edificio trasformato in chiesa cristiana dedicata alla martire orientale S. Caterina d'Alessandria, il cui culto venne tra noi diffuso verso il nono secolo. Forse seguì poco dopo la trasformazione che già aveva avuto il tempio di Marte in chiesa dedicata a S.Nicola Vescovo di Mira.
Le prime notizie storiche certe sono del '500 quando questa chiesa, con le sue adiacenze, passò all'Ordine domenicano dopo la distruzione del convento delle Grazie, che aveva fondato Mons. De Dominici, dello stesso Ordine, e nostro vescovo del tempo. Subì così il nostro edificio le medesime sorti che contemporaneamente in Roma avevano le terme di Diocleziano a operadi Michelangelo.

Parghelia - Avanzi romani.-  Nel fondo " Tonnara " di proprietà del Sig. Domenico Braghò, lungo la via che da Parghelia conduce alla punta di Zambrone, presso il cavalcavia della ferrovia, facendosi lo scasso del terreno per l'impianto di un vigneto, è stata rinvenuta alla profonditià da m. 1 a 1,50 un'antica vasca d'acqua, con parte della conduttura in coccio del diam. di 20 cm. che vi adduceva le acque di un rigagnolo vicino e di una sorgiva locale. E' stata pure rinvenuta una grossa dole, che felicemente è stata salvaguardata e trasportata in casa del proprietario.
Notasi pure lungo un sentiero una grossa pietra circolare che parrebbe essere servita di base a un antico frantoio; la segnaliamo per un particolare interesse che ha per noi, come testimonianza della intensiva coltura di ulive in queste contrade anche negli antichissimi tempi.
Ne abbiamo avuto prove anche in altri posti di questo interessante territorio. Nessuna moneta è stata rinvenuta nello scavo, ma vi suppliscono, per poter riconoscere l'epoca di questi avanzi, alcuni frammenti di piccoli vasi quasi tutti di un forte colore arancione.
Sia per la manifattura che per la qualità dell'impasto, rivelano la medesima provenienza e la medesima epoca di altre anfore rinvenute su tutto il capo Vaticano, di cui è stato possibile accertare l'epoca precisa.
Così, quindi, anche per gli avanzi ora rinvenuti possiamo ritenere che appartengano al II o III secolo d. Cr..
Questi numerosi avanzi romani, che così spesso rinveniamo in queste nostre contrade, oltre a testimoniarci come l'agricoltura fosse sviluppata qui fin dai secoli primitivi, ci fanno fare anche due osservazioni :

  1. che generalmente rinveniamo di questi antichi avanzi quasi sempre in prossimità di case coloniche relativamente recenti, e quindi la probabilità che qualcuna di queste case non solo sia stata fatta con materiale di scavo, ma che sia anche in qualche caso una vecchia e antica costruzione;
  2. come non sia infondata o fantastica la notizia tramandataci da Edrisi che ove oggi sorge Tropea, il centro più importante di tutta la contrada, sorgesse al tempo dei Romani una delle loro più antiche e importanti città. Quindi tutti questi numerosi avanzi rinvenuti, come già altre simili occasioni additate, stanno a testimoniarci la sua periferia e le sue prossime propaggini.
Santa Domenica di Tropea- Una fattoria e opificio romano. - Lungo la strada che da Tropea conduce al villaggetto di Santa Domenica, strada che in parte sembra ricalcare una antica via romana, come verrà in seguito provato, è stata rinvenuta nel mese di gennaio 1934, durante lo scasso del terreno per un impianto di vigneto, in contrada Vicci, e precisamente nel fondo di Tropeano Giuseppe, compreso tra le proprietà Scrugli e d'Aquino, una antica casa romana. Ne ho avuto solo tarda notizia, quando i ruderi rinvenuti erano già stati tutti distrutti, ma non ho esitato un istante a effettuarvi un sopra luogo. Ecco quanto mi è stato possibile ricostruire attraverso la dettagliata, per quanto rudimentale e ingenua descrizione che mi ha fatto lo stesso proprietario e contadino del luogo, che, non apprezzaandone l'importanza, ne ha fatto la distruzione.
Gli avanzi rimossi e ridotti in frantumi, e da me osservati, mi fanno credere sicura la descrizione fattami.
La casa occupava uno spazio di circa metri 25 X 30 (pari a 2/8 di tomolata, misura locale) ed era composta di alcune camere intorno ad un cortile centrale, la pianta tipica romana. Nella muratura di pietra e mattoni erano i caratteristici bipedali spessi una decina di cm. In buona parte dei locali era ancora il pavimento in coccio; dei vani erano adibiti a deposito di derrate, specialmente ad olio, arguendo ciò dai grossi doli di terracotta rinvenuti. Segnalo qualcuno di questi doli per la sua particolare manifattura, fino ad oggi assai singolare per queste nostre contrade. Mentre v'erano dei doli completamente in terracotta, qualche altro era fatto invece da pezzi di terracotta, a mo' di formelle, riunite poi insieme e tenute ferme da maglie di piombo. Ritengo sia la prima volta che si rinvengono vasi simili. A questi doli arrivava una conduttura plumbea, che è stata anch'essa divelta per una trentina di metri. Sono stati rinvenuti pure alcuni vasi di minore importanza e dei tegoloni piani e a canali, nonchè una pietra a forma di cono molto aperta, che non esito a credere fosse un piccolo molitore. Questa pietra conica merita una parola delucidativa. Di pietre alquanto simili nella forma, ne sono state rinvenute un pò da per tutto, anche in queste vicinanze. Le più piccole sono state quasi sempre ritenute come coperchi di urne o di vasi ed io stesso ho avuto occasione di osservarne e di additarne parecchie rinvenute in altri scavi fortuiti. Questa pietra rinvenuta ora non possiamo accostarla alle precedenti per alcune sue particolarità. Anzi tutto è composta di due pezzi semicircolari che erano uniti lungo un diametro a mezzo di staffe di ferro. La superficie tronco conica è solcata da canaletti longitudinali e trasversali, di modo che ne risulta una superficie scabra a piccoli tronchi di piramide. Nel centro, lungo l'asse, è praticato un foro quadrangolare che attraversa la pietra da una parte all'altra. Risulta evidente che qui s'innestava un asse ligneo quadrangolare, che doveva servire a imprimere un moto piano rotatorio a questa pietra. Essa risulta quindi una vera mole o macina appartenente ad un opificio agricolo.
Quale? La presenza dei canaletti indicati, atti a ricevere e frantumare le olive, e poi tutto il resto di materiali, tubi e doli, ci attestano le presenza di un antico trappeto per olio, un embrione dei moderni oleifici.
Tutta la zona di capo Vaticano, in antico tutta olivetata, ha svelato, in vari rivestimenti fortuiti, anche qualche altro opificio simile, ma per la mancata salvaguardia di quanto si è rinvenuto, è stata mano a mano distrutta ogni cosa casualmente scoperta.
A questi ruderi, che si rivelano appartenenti ad una vera fattoria romana, perveniva una strada romana, che nel tratto caduto nei presenti lavori, è andato pure distrutto. Fondatamente ho perciò sopra accennato che la strada odierna sostituisce una più antica strada. Nella rimozione della terra sono state rinvenute alcune monete imperiali di cui posso solamente segnalarne due che ho potuto vedere e osservare. Esse portano nel dritto le seguenti leggende:
1) M. Agrippa L. F. Cos. III (piccolo bronzo).
2) P. Septimius Geta Aug. Brit. (medio bronzo).
La prima è di Agrippa collega di Augusto come console dell'anno 27 a. Cr.; mentre la seconda è di Geta collega nel consolato al fratello Caracalla nel 198 e 211 d. Cr..
Per il momento concludo questa nota dicendo ch'è già la terza casa romana che si segnala rinvenuta in questi paraggi e lungo la medesima strada Tropea-S. Domenica.
E' prematuro ancora accertare la fondatezza di alcune antiche tradizioni riguardanti questa località. Speriamo che qualche altro rinvenimento possa dare in proposito maggior luce.
Ricordo soltanto come il geografo arabo Edrisi additi, oltre Tropea come città antica romana, un altro centro denominato Batticano un poco più a sud e più prossimo al capo che separa i due golfi di Santa Eufemia e di Gioia Tauro. Queste case coloniche romane sarebbero perciò sul territorio intermedio di questi due antichi centri romani. Batticanus sorgeva, come ho già avuto occasione di segnalare, a seguito di altri rinvenimenti, presso il torrente più prossimo al capo omonimo.

Santa Domenica - Ceramiti - Avanzi Vari. - Nel territorio intermedio a questi due villaggetti, e precisamente presso la mulattiera che da Ceramiti scende al Cimitero che ha in comune con S. Domenica, nel fondo <<Mandalari>>, ora di mia proprietà, si vedevano fino a pochi anni fa alcune piccole fornaci, sparse, a breve distanza l'una dall'altra sul pendio della collinetta che sovrasta. Ora esse sono state distrutte involontariamente dal contadino locale. Erano delle piccole fornaci paraboloidi quasi tutte del diametro di circa un metro ed alte altrettanto. A che servivano? L'arrossamento dell'argilla e del calcare con cui erano fatte svela chiaramente il continuo lambimento delle fiamme. Erano sicuramente delle fornaci, non domestiche per la cottura del pane, ma per la cottura di fittili. Ci sembra, perciò, di trovarci in presenza di una piccola fabbrica. Solo così possiamo spiegarci il loro rilevante numero in questa zona limitata.
Finora, salvo piccoli frammenti sparsi, non è stato rinvenuto un vero e proprio luogo di depodito, sia pure di fittili di scarto, come arguiamo che vi dovesse essere. Il contadino del luogo ha saputo soltanto dirmi che spesso zappando in un determinato punto s'imbattè con vecchio materiale da costruzione, im muri, e in grossi mattoni. Nessun saggio vi è stato fatto. Pensiamo ch'ivi fosse l'abitazione del keramitos, ossia del vasaio.
Il nome stesso del villaggio vicino, Ceramiti, che ha nelle sue vicinanze una necropoli romana, fa pensare alla esistenza sul suo territorio di una fabbrica di fittili. Questa che noi ora abbiamo additato è appunto nelle sue vicinanze.
Fra i numerosi frammenti ceramici che ci ha restituito il sottosuolo di tutto il capo Vaticano, del primo periodo romano, troviamo due impasti particolarmente tipici, credo, di questa zona: uno d'un bel forte colore arancione e l'altro bianco, entrambi poco resistenti, onde l'impossibilità di averli sani. Vasi fatti buona parte a tornio, con numerose lievi scalanature orizzontali. Anche in questo fondo Mandalari ne ho raccolto dei pezzi. Perciò, penso come probabile, che siano appunto queste le piccole fornaci ove furono lavorati detti vasi, tanto belli nella loro semplicità per il loro caldo e acceso colore. Ritengo, perciò, che queste piccole fornaci, le prime rinvenute in questo lembo di Calabria, abbiano tutta una particolare importanza locale. Chi era il Keramitos, il fine plasmatore dei nostri fittili che aveva qui il suo laboratorio? Azzardiamo un'ipotesi, che speriamo verrà confermata da ulteriori rinvenimenti; per ora bisogna ricordare che nei nostri paesi di origine ellenica, anche sotto il dominio romano si continuò per lungo tempo a parlare e scrivere in greco, così che non potrà sorprendere quanto sto per riferire.
Nella mia piccola raccolta di fittili, sono alcuni frammenti che per l'impsto, lavorazione, ecc., non esito a ritenere opere di uno stesso artefice. Sono di un bello delicato impasto tra l'ocra e la seppia. Aluni rivelano una certa plastica fine. Tra gli altri frammenti ho avuto occasione di segnalarne uno avente una decorazione di delfini, frammento che apparteneva ad una coppa ch'è andata distrutta nel rinvenimento. Quasi intatta ci è pervenuta una lucernetta fittile che porta in bassorilievo Leda col Cigno, se non è invece la ninfa Ligea con lo stesso Cigno2; nella base è inciso il nome, Kelsis. Non possiamo pensare che si tratti del nome del suo artefice in altri casi si è affermato?
E' veramente interessante aver ritrovato questo marchio di fabbrica proprio nell'officina del nostro ceramista, ch'era specialmente un fine modellatore in plastica (il cui nome greco Kelsis, è latinizzato in Celsius, come opina G. B. De Rossi in una sua lettera privata inedita esponendo il suo giudizio su questa lucernetta che gli inviò mio Padre in esame), e le cui ceramiche sembrano essere state ricercate anche nel ricco centro di Ercolano. Parecchie di esse ivi rinvenute hanno questo nostro marchio, quindi non v'ha dubbio che sortissero da questa nostra officina. Ritroviamo così un legame tra il nostro ancora incognito centro greco-romano, con la opulente Ercolano, centro fra i più importanti in quel periodo tra la fine della Repubblica e gl'inizi dell'Impero. E non è da dimenticare che Ercolano e Pompei sono due anelli importanti nel congiungimento e nella fusione delle due civiltà graca e romana.
Allo stesso autore della lucernetta credo attribuire una fine testina di terracotta, non solo per los stesso impasto ceramico, che è comune a questi pezzi e ad altri, ma specialmente per la plastica affine. Essa rappresenta una singolare figura di minerva, e riproduce certamente in piccolo un simulacro grandemente venerato in queste contrade, di cui mi trattengo in altro lavoro.
Intorno a questi tre pezzi, che per il momento classifichiamo come principali, perchè più rappesentativi, sono altri piccoli frammenti della stessa manifattura e della stessa epoca. Ci è così quindi possibile, in certo qual modo, riconoscere questo nostro delicato plasmatore attraverso tutta la densa nebbia che avvolge la storia dei primi tempi di queste contrade. Possiamo inoltre con una certa sicurezza individuare l'epoca in cui visse il nostro autore. Considerando che le sue ceramiche erano pur giunte in Ercolano; che il suo nome era ancora scritto in greco e che trattavasi quindi di un periodo in cui non era ancor completa la latinizzazione del popolo della Magna-Grecia, ove era vivo l'attaccamento alle greche tradizioni; che si è potuto individualizzare queste ceramiche e riunirle in un gruppo sicuramente di una stessa origine per le molte qualità affini d'impasto, di fattura, e di fine modellatura plastica; che, infine, qualche anno fa è stato ritrovato uno di questi vasi ricolmo di monete argentee repubblicane, di cui ho già dato notizia altra volta, del II e I sec. a. Cr., possiamo senz'altro concludere che il nostro ceramista Kelsis appartenesse proprio a questo florido periodo d'arte.

Il Foro d'Ercole. - Dopo avere rintracciato le vestigia del tempio massimo di Tropea, e della probabile basilica, che per la civiltà romana sono le tipiche costruzioni che sorgevano nei fori, è possibile concludere sulla esistenza di un vero foro a Tropea, compreso e delimitato dai due edifizi prima descritti. Con questa identificazione vengono sfatate le fantasiose interpretazioni che alcuni cultori hanno dato al nome <<Foro>> o Furun Erculis - come lo si vorrebbe chiamare, per farne derivare anche il nome di alcuni scogli marini detti volgarmente <<formicole>> -, attribuendogli il significato di <<porto>>. Mentre dalle nostre indagini ben risulta che questo nome non poteva significare altro che un nostro vero foro romano. Probabilmente fu costruito da Augusto dopo l'accennata sua vittoria, essendoci stato tramandato3 che qui fossero eretti a tale ricordo dei trofei4, non essendo allor lecito elevarli a Roma trattandosi di vittoria sopra un altro cittadino romano5.
Questo foro era dunque il centro della romana città di Tropea, che ora attrverso le diverse identificazioni che ho potuto fare, mi pare balzi dal buoi in cui fin ora era negletta,e dica, sia pure attraverso i suoi modesti avanzi, tutta la sua passata vita di grosso emporio agricolo e commerciale, come dimostrano le varie importanti fattorie e <<pagi>> che ho illustrato precedentemente. Di ciò, fa anche testimonianza Edrisi scrivendo di Tropea come una delle più importanti città dei Romani.
Nel IV sec. d. C. troviamo già che il cristianesimo aveva trasformato una casa privata in <<Domus Dei>> e qualche secolo appresso, quando il paganesimo vedeva trascurati e abbandonati i suoi templi, alla caduta dell'Impero, questi venivano adibiti ai nuovi culti cristiani, come ho sopra indicato.
Nella tarda età di mezzo, poi, vediamo trasformata la vecchia curia romana, nel seggio dei Nobili, che fu chiamato di Port'Ercole. Costituitosi poi quello del popolo e della borghesia, questi prese nome d'Africano, a ricordo del grande Scipiane, che qui venuto carico di gloria, dopo la distuzione di cartagine, volle, sembra in segno di riconoscenza, riedificare, arricchendola, questa cittadina6, che Annibale aveva prima distrutto in odio agli stessi romani che numerosi erano accorsi ai vaticini del tempio di marte. Onde una delle interpretazioni che si suol dare di tropea è proprio quella derivata da <<Tropaeo>> e cioè ritorno di un duce romano proveniente dall'Africa.

NOTE
1 Secondo Eusebio edificata al tempo della Olimpiade 7^.
2 Dirò in seguito il motivo di questa seconda interpretazione.
3 Parrasio - Lascari.
4 Sembra che a tali trofei si dovesse allora la mutazione del nome di Port'Ercole in Tropea.
5 E' sintomatico questa ipotesi anche ricordando che Augusto sul suo foro a Roma nel centro edificò il tempio di Marte Ultore.
6 Eusebio.

     
     
     
    ARCHEOLOGIA TROPEANA
     di  Salvatore Libertino
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